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Questa volta cade

Questa volta cade. 

L’aereo traballa e scuote le anime a tutti. Per un attimo siamo un concentrato di terrore. Sento che perdiamo quota quel tanto che basta per rimescolare la colazione nello stomaco. Poi il volo si assesta e riprende stabilità. La gente sorride, qualcuno fa lo spaccone. Però ci siamo tutti cagati sotto, perché nessuno pensa mai che si possa finire così, da un momento all’altro. E invece, a volte, si finisce così, da un momento all’altro. Ho stretto i poggiagomiti più del dovuto, ho le dita indolenzite. Guardo fuori, controllo il respiro e rimetto le cuffiette. C’è un mare di nuvole che sembrano colline. Non ascolto mai la musica durante il decollo perché non voglio perdermi nessun dettaglio in un momento tanto importante. Non so come faccia la gente ad addormentarsi appena salita a bordo. Ma davvero sono tutti così insensibili al loro destino, a quello che potrebbe capitare a loro insaputa? 

Hanno annunciato che è di nuovo possibile sganciare le cinture di sicurezza. Non lo faccio. Sono ancora teso, anche se il motivo non è più il rischio di precipitare. Sono irrequieto perché tra poche ore sarò seduto ad una scrivania a parlare in una lingua straniera. Non è tanto il colloquio di lavoro a mettermi ansia, certe cose le so gestire bene. È più che altro la possibilità che vada tutto secondo i miei piani a darmi una scossa lungo la spina dorsale. Mi sono preparato a questo momento con grande dedizione. Giornate regolari, orari serrati, pochi, pochissimi strappi alla regola. Adesso però mi rendo conto che coltivare un obiettivo è più soddisfacente che raggiungerlo. Nel migliore dei casi mi troverò a star seduto per otto ore al giorno davanti a uno schermo in una città straniera, e dopo qualche mese di eccitazione anche questa novità diventerà ordinaria amministrazione. 

Il pilota riesce a far scivolare l’aereo sulla pista senza nemmeno uno scossone, come per scusarsi dello spavento di un’ora fa. Grazie, dal profondo del cuore. 

Vienna mi accoglie sempre ostentando una certa durezza, nonostante il clima mite della primavera. Nonostante la vita universitaria attorno a Votivkirche, gli aperitivi lungo il Donaukanal, le passeggiate al Prater, le colline verdeggianti sopra Grinzing, questa è una città dura, austera, che sorride poco, o così mi è sempre sembrato. Lo sguardo categorico dei palazzi lungo la Ringstrasse, o i monumenti imperiosi del centro, impongono il loro primato sopra ogni relazione, incastonando nello spazio le pose, i movimenti dei passanti. Come in una morsa. Anche i secessionisti avevano il loro mausoleo neoclassico, in fondo, e in loro dominava il primato della forma. E che dire di Strauss? 

Questa volta, però, è la periferia che mi aspetta, e quella è uguale in ogni città europea. Percorro un lungo vialone che si lascia alle spalle ogni sfarzo mettendo in fila basse casette a schiera e capannoni commerciali. Lavorerò qui, se passo il colloquio. Ho già avuto modo di parlare con il responsabile della filiale in un paio di call, tutto è andato bene. Oggi incontrerò il direttore generale, un signore sui cinquant’anni che vive a Berlino e viaggia molto. Le porte scorrevoli della sede aziendale scorrono e dentro fa fresco e c’è un profumo gradevole, indecifrabile, come di macchina nuova e dopobarba. La segretaria mi fa cenno di attendere su una poltroncina in finta pelle color crema che stride all’attrito del mio corpo. Incrocio le gambe, sento un leggero odore di sudore e tasto sotto le ascelle senza farmi notare. Sono sudato. Dovrei andare in bagno e magari fare anche la pipì, così da allentare ogni tensione. Non faccio in tempo ad alzarmi che appare un uomo alto, vagamente sformato sui fianchi, con i capelli biondi tagliati corti e una camicia senza cravatta. Ha una faccia rossa e tonda che ispira simpatia. Infatti sorride e mi stringe la mano. 
Lei deve essere il nostro uomo, mi fa. 
Spero proprio di sì, rispondo io. 
Il suo inglese è un tantino spigoloso sugli angoli, il mio morbido nelle consonanti. Ecco le differenze nazionali raggrumate in una questione di sfumature. 

Ci avviamo verso una sala spaziosa, con grandi vetrate che danno sul cortiletto interno. Prima di entrare passiamo accanto a una porta dove è ben visibile l’effige stilizzata di un ometto. Avrei fatto meglio ad andare in bagno. Quando ci sediamo la cintura preme sul ventre e mi accorgo di avere la vescica colma.
Ha fatto un buon viaggio? chiede. 
Si, anche se per un attimo ho creduto che non saremmo mai atterrati, rispondo. 
Ha paura di volare? Sa, è una cosa comune. Ma ci si abitua a tutto, fa lui guardando l’ora. 
La responsabile del personale, una donna bellissima che avrà dieci anni meno di me, compare alle nostre spalle, chiedendo scusa per il ritardo. Mi devo alzare per stringerle la mano. Ha una stretta vigorosa che sostengo trattenendo un’espressione di sconcerto. Sono al limite. E sono sudato. 
Ora che ci siamo tutti, riprende il direttore con un gran sorriso, possiamo iniziare. Corinne, vuole aprire le danze?

Mentre lei snocciola informazioni sul piano di ampliamento dell’organico e le strategie di networking con le realtà innovative di Vienna, io sono tutto concentrato sul basso ventre. Stringo le pareti pelviche e mi deve sfuggire una smorfia, perché il direttore mi guarda e mi chiede se vada tutto bene. 
Certo, certo. Prego, continuate pure, dico impegnandomi per eliminare il tremolio della voce. 
Non posso chiedere di andare in bagno, non siamo alle scuole elementari. 
Quando Corinne finisce di parlare il direttore sembra soddisfatto. 
Lei parla tre lingue, dico bene? mi chiede. 
Sì, è corretto. Mi sono specializzato nel Regno Unito, taglio corto. 
Ma conosce anche il francese, giusto? Ci dica di più sul suo profilo professionale. La conoscenza delle lingue è un plus significativo, ma lei è un ingegnere altamente specializzato a quanto mi ha comunicato il dottor Steiner. 
È esatto, bofonchio. Avevo preparato una lunga relazione sulla mia esperienza nel campo del cloud computing e sulla creazione di reti di scambio tra realtà innovative, ma non ce la posso fare. Sono un bagno di sudore. 
Lei non sta bene. Le porto dell'acqua. 
Il direttore riempie un bicchiere servendosi di una caraffa posta al centro del tavolone al quale siamo seduti. Il liquido scroscia rumorosamente e un po’ d’acqua straborda e bagna la superficie di legno smaltato. Quando mi porge il bicchiere sento che sto per cedere. 
Mi scusi, dov’è il bagno? chiedo disperato. 
Lo dicevo che sta male, asserisce convinto il direttore. 
No, no, sto bene. Devo solo fare pipì. 
La donna abbassa lo sguardo, piena di giudizio. 
È proprio qui fuori, squittisce il direttore facendosi serio. 

In un attimo sono fuori, corro letteralmente al cesso. La zip non si apre come dovrebbe e per un secondo penso che finirà malissimo. Poi, però, tutto scorre. Un flusso continuo, infinito, liberatorio. Non sono mai stato così bene mentre il sudore sulla schiena si condensa in goccioline fredde catturate dal tessuto della camicia. Ho la percezione di essere stato dentro almeno dieci minuti quando, finalmente, esco. Rinato. 

Apro la porta della sala riunioni e gli occhi severi dei due mi trafiggono. Seduto al tavolo, al mio posto, c’è un giovane con la barbetta rossa, con le gambe incrociate e l’orlo dei pantaloni che lascia intravedere dei calzini blu elettrici. 
Le faremo sapere, ora siamo nel pieno delle selezioni, mi inchioda il direttore. 
Nemmeno a dirlo, saluto e esco. Prima di varcare le porte scorrevoli la segretaria mi guarda e sento che capisce. Cosa, non lo so. 

Credo che andrò in centro, cercherò una stanza lì. Disdico la prenotazione nell’hotel vicino all’aeroporto, anche se non ho diritto al rimborso. Passeggerò tra i palazzi del centro, mi farò portare in alto dalle vertiginose torri della Cattedrale di Santo Stefano, mi perderò tra i turisti, facendomi inglobare dallo spazio, dall’ordine centenario dell’Impero che continua a impartire il suo sguardo severo sui negozi, sui caffè storici. Poi mi fermerò in un dehors a caso e mi berrò una birra o due. Domani si torna a casa, se tutto procede secondo i piani.
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Un uomo nel bosco

Sto mangiando un burger di carne sintetica. Lo addento come fosse il corpo di una preda appena cacciata. Solo così riesco a illudermi di stare mangiando davvero qualcosa. Ho l’impressione di perdere me stesso quando ingerisco questi prodotti di cui mi sfugge tutto: chi li produce, come sono fatti, di cosa sono fatti. È più facile quando le cose vengono fuori da un corpo. Da un culo di gallina, ad esempio. Ritrovo parti di me solo se penso al perché esista questa poltiglia che sto mangiando con così poca convinzione. Ci sono anche io, sono lo scarto di tutta la lunga catena di ragioni che hanno portato alla creazione di ciò che ora sto mischiando in bocca. I miei pensieri sono come una digestione all’incontrario. Alla fine, come si dice, sono quello che mangio, no? Il ciclo si chiude. 

“Va tutto bene? Che hai?”. 

Fino a poco tempo fa ero nel bosco. Il tragitto che dal lavoro mi porta a casa passa da lì. È come attraversare mondi separati. L’officina si trova proprio di fronte alla strada che taglia in due il paesino, e partecipa da decenni al moto incessante delle auto che gorgogliano e tossiscono, al fluire dei passanti, allo sbraitare del predicatore che di tanto in tanto si ferma all’incrocio con i sui proclami e la sua campana rutilante, che a volte pare proprio lo schiocco delle labbra di dio. E poi c’è il curvone che porta all’autostrada, e quel gomito di alberi che spezza la civiltà. Addentrandosi nel bosco di betulle spunta anche qualche quercia. E cespugli, rovi, cose così. Casa mia sta dall’altro lato, oltre l’intrico di cortecce e arbusti. C’è giusto una traccia scavata prima da qualche animale, poi da me. Da casa mia si sente appena il sibilo del disordine che vien fuori dalla civiltà che non fa altro che scorrere, scorrere, scorrere. 

“C’era un uomo nel bosco”. 
Lo penso e lo dico nello stesso esatto momento. Forse non era il caso. Nella stanza dove mangiamo c’è molta luce, fino a tardi. È esposta bene, questa stanza, dice sempre lei. Ora però c’è come un’ombra.
"Strano, non c’è mai nessuno nel bosco. E che ci faceva lì?”. 
Prendo fiato, fisso il piatto ancora mezzo pieno. 
“Non faceva niente. Cioè. Era immobile, stava vicino a un albero. Appoggiato contro un albero. E si guardava le mani. Poi mi ha visto anche lui. Ci siamo incrociati all’improvviso, non mi aspettavo di incontrare qualcuno. Nessuno passa mai nel bosco, sai. Nemmeno lui se lo aspettava, perché ha avuto un sussulto. Ha fatto un passo indietro poi se ne è stato lì fermo”. 
“Come, si guardava le mani?”. 
La luce della sera sta facendo sfumare i contorni delle cose. L’aria sa di quel qualcosa di precisamente vago e rassicurante sprigionato dalla cottura della cena. Un profumo appetitoso, noto, che ci riconnette con la nostra natura più profonda. 

“Si guardava le mani perché erano sporche. Non solo le mani. Anche la maglietta. Era… era tutto imbrattato. Sembrava non credere a quello che vedeva. Poi mi ha guardato e”. 
“E cosa?”. 
“E si è fatto serio, ma serio nel senso che non sembrava provare nulla. Sì, ha avuto quel sussulto, ma poi è stato come se si fosse risvegliato da un sogno”. 
“Oddio. E tu cosa hai fatto?” .
“Io, io ho continuato a camminare”. 
“Di cosa era sporco? Mi stai facendo spaventare”. 
“Non lo so di cosa era sporco. Rosso, rosso scuro”. 
“Era sangue? Era ferito? Magari è ancora qui intorno”, dice alzandosi in piedi, visibilmente preoccupata. La sua testa sta elaborando tutte le informazioni e i possibili scenari. 
“Non era ferito. Non sembrava ferito, di questo sono abbastanza sicuro”. 
“E allora di chi era il sangue?”. 
“Non lo so, non suo. Scusa. Sul momento mi è sembrata solo una cosa strana, sai. Avevo fretta di arrivare a casa”. 

Rimestando tra i pensieri mi chiedo se quello che sto raccontando è davvero successo. Provo a ripercorrere la vicenda e l’unica percezione che mi collega direttamente a quanto dico di aver vissuto è una sorta di repulsione, come quando si vede un ragno grosso e peloso e ti vengono i brividi, ti stride tutto, dentro. Ricordo la mia voglia di allontanarmi, di lasciarmi alle spalle una situazione che non aveva niente a che fare con me, con il mio mondo, con la mia giornata, con il mio bosco. Ho fatto in modo di non guardare più del dovuto, anche perché avevo già visto troppo. L’uomo mi aveva seguito con lo sguardo, l’avevo percepito dal tendersi della pelle sulla nuca. Io non mi ero voltato. Avevo cercato di respirare il meno possibile per non affollare l’udito. Nessun passo dietro di me, nessun rumore allarmante. Solo la repulsione. Quella sensazione l’avevo chiusa fuori dalla porta, una volta rientrato in casa. Mi sono tolto i vestiti, mi sono fatto una doccia e ho iniziato a mangiare. Poi però lei mi ha chiesto come stavo. Ed eccoci qui. 

“Ma perché non hai avvisato qualcuno? Perché non hai fatto qualcosa?”. 

Io non lo so. Lei sta girando per casa cercando di capire cosa fare. Poi sparisce dalla visuale e sento che rovista, prende qualcosa. Il telefono, certo. Guardo il piatto. Il burger ha rilasciato un po’ di liquido sul fondo. Ho la forchetta ancora in mano, la affondo nel corpo morbido. Porto il boccone alle labbra. Annuso. Sa di buono. Infilo in bocca e mastico. Scompongo le fibre vincendo la loro vana resistenza. Mi cerco ad ogni morso, ma sento solo che più scompongo questo qualcosa che ho in bocca, più sfuma la possibilità di una soluzione all’enigma. Chi sono? Perché diamine non ho fatto qualcosa? Mastico, mastico, ma tutto si interrompe nell’atto più primordiale, più basico. Estraggo sapore, perdo senso. Perché non ho avvisato nessuno? 

Ingoio a stento. Perché non sapevo, perché non sapevo! Non sapevo cosa fare, da dove diavolo arrivava quel tipo? Perché, chi l’aveva messo lì sulla mia strada? E perché doveva essere pure sporco di sangue? Sangue non suo perché mica sembrava star male. Non mi ha chiesto aiuto, mi ha solo puntato gli occhi addosso. E io ho continuato a camminare, e allora? Dovevo tornare a casa, dove conosco le cose. So cosa c’è in casa, so chi c’è dentro. Mastico un altro boccone, ma non va giù. Cosa avrei dovuto fare? Lei, di là, sta parlando con qualcuno. Sento che racconta più o meno quello che le ho detto poco fa. Ripercorre la vicenda mentre io sto immobile a masticare. La persona con cui sta conversando riesce a farla calmare un po’, ora parla più lentamente e continua a dire “sì, sì, va bene, chiudo a chiave, sì”. Da’ l’indirizzo, “fate presto”. 

Come posa il telefono io butto giù deglutendo sonoramente. Era l’ultimo pezzetto, nel piatto rimane solo il sugo brunastro. Lei riappare. 
“Sta arrivando la polizia”. 
La guardo un attimo, senza capire precisamente cosa voglia comunicarmi. Ci penso un attimo, rigirandomi la lingua in bocca. 
Riesco a dire, con un filo di voce, “non faceva poi tanto schifo”.
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Simonetta

Il personaggio di Simonetta è tratto da I piccoli maestri di Luigi Meneghello. Un romanzo meraviglioso che inizia cosi: “Io entrai nella malga e la Simonetta mi venne dietro; dava sempre l’impressione di venir dietro, come una cucciola. Aveva i capelli un po’ arruffati, era senza rossetto, ma bella e fresca. La guerra era finita da qualche settimana.” 

Ho immaginato di dedicare un po' di spazio a lei,  a Simonetta, per vedere cosa sarebbe successo.
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Lui aveva tanto insistito per portarla lassù. Lei, come mossa da un’obbligata condiscendenza, visti i fatti vissuti, visto il tempo spartito, aveva accettato di accompagnarlo. Gli teneva dietro con quel senso di responsabilità sodale che non sentiva appartenerle fino in fondo. Lo conosceva appena. Mentre camminava arrancando tra i cespugli irti e i sassi sparsi si osservava dall’esterno, come in uno sceneggiato, come in un romanzo, e così si figurava le mosse giuste da fare, quelle più convenienti al plot, allo sviluppo del personaggio. Per questo l’aveva seguito, sembrava la cosa più opportuna. Anche se non ne aveva nessuna voglia. 

Erano stati giorni trepidanti, con gli inglesi a Padova e i nazifascisti che se la davano a gambe come dei conigli, dopo aver contaminato quei luoghi con la loro sozza, bestiale stupidità. Avevano continuato ad ammazzare anche dopo la fine di tutto, i tedeschi, come cani rabbiosi incattiviti dalla catena sempre più corta. Si era sparato fino all’ultimo e, come se non bastasse, lui ora voleva recuperare proprio un fucile, il suo parabello. Le sembrava buffo quel nome così privo di fantasia, così ready to use. Parabello, ma bon! Non a caso erano stati i tedeschi ad aver dato quel nome alle loro pistole automatiche. A lei invece piacevano i nomi roboanti di certe automobili, così sofisticati ed esotici. Gli inglesi per Padova si erano portati appresso, assieme al rombo dei carrarmati, proprio quel linguaggio scintillante che tanto cozzava contro la rozza sbrigatività degli uomini delle sue parti, gutturali e come offesi dal dover proferire troppe parole. “Hey you, girl, would you like a real one?”, le aveva chiesto ammiccando un soldato. Si riferiva alle sigarette. Anche quelle sembravano sdrucite, quelle paglie improvvisate che di tanto in tanto fumava con i suoi compagni. Aveva detto di sì solo per poter rispondere “yes, thank you”. 

Lui invece era un gran parlatore, a volte non la smetteva più di raccontare, di far sofismi. Poi, d’un tratto, si ammutoliva colto da un ricordo, da un pensiero, da un tonfo del cuore. Ogni tratto di terra brulla era legato a una fuga, a un accampamento di fortuna, a qualche insegnamento da trarre sulla vita, sulla nazione, sul futuro. Mentre lui parlava, lei pensava. Aveva passato l’ultimo anno a sostenere i partigiani tra i paesini del vicentino spostandosi di qua e di là con la sua bicicletta, a creare contatti, a consegnar missive. Gli uomini, poi, facevano il resto. Gli atti di valore. Simonetta ne aveva fatti molti di atti di valore, ma aveva l’impressione che in fondo non fossero tutto questo granché agli occhi dei combattenti. I combattenti, quelli veri, si limitavano a riconoscerne l’utilità, magari intenerendosi un pochino pensando alla mamma e alla sorella, e bon. Un fucile l'aveva imbracciato solo gli ultimi giorni, più per figura che per altro. Perciò le era presa la voglia di sparare dei colpi: così, per sapere cosa si prova. 

Anche per quello era salita in montagna. 

L’aveva convinta a dormire in tenda, perché il punto preciso non si trovava e ci sarebbero voluti giorni. E anche perché voleva starle vicino, il più possibile. Simonetta mal sopportava quella brama di intimità, nonostante l’idea l’avesse intrigata, all’inizio. Lo ricordava trionfante, certo meno marziale dei militari inglesi, vestiti di tutto punto, mentre i "bandits” portavano camicie logore, capelli lunghi e sfatti, pantaloni alla zuava fuori taglia. Eppure erano belli, fieri, tenaci. Le era quindi preso il desiderio di lasciare la città per non perdersi gli ultimi vapori della vita avventurosa che già sfumavano dai racconti e che leggeva sui volti induriti dei giovani armati che, nonostante la vittoria, ancora si atteggiavano con le pose della clandestinità. 

Aveva lasciato il parabello in una fenditura del terreno dove si era rifugiato durante una rappresaglia. Sembrava impossibile trovare il posto, lo spazio era immenso e indistinto. Simonetta continuava a seguirlo perché ormai non poteva mica tornare indietro. Fino a che non si trovava l’arma ci sarebbero state altre notti passate vicini, mentre fuori scrosciavano i temporali e faceva freddo, e lui non aveva un buon odore, e lei si sentiva sporca, inelegante, stanca, inutile, annoiata. L’esaltazione da bambino mentre raccontava le sue cose di guerra, prendendosi un po’ in giro ma forse soltanto per amplificare l’effetto retorico delle sue parole, la intenerivano e indispettivano allo stesso tempo. L’istinto sarebbe stato di tenerlo a bada, dirgli di star buono, calmo, poggiargli una mano sulla testa e rassicurarlo. Rassicurarlo, sì, perché dopo una guerra ce ne sarebbe il bisogno. Lascia stare il fucile, le pallottole, gli atti di valore, stenditi e dormi, gioca, stai buono, calmo. 

Era anche sua, quella vittoria? Lo pensava mentre lui si esaltava una notte di temporale, sparando all’impazzata contro i tuoni e il vento dopo il ritrovamento incredibile dell’arma. Credeva che Simonetta dormisse, ma lei lo sentiva benissimo. Pensava che cosa ne avrebbe tratto, lei, dalla Liberazione. Gli atti di valore sarebbero continuati a rimaner affar loro? Loro, che parlavano, trigavano, facevano, disfacevano, tiravan su gran discorsi, piani, progetti, litigavano e si sentivano fratelli, tutti quanti. E noi?, pensava Simonetta, noi portiam le missive, facciamo le ancelle e veniam dietro. E basta? That’s all? 

Per questo voleva sparare. Sentiva che la sua vita non l’avrebbe vissuta stando alla cavezza. Voleva dirigere, godere delle cose belle, mandare avanti qualcosa di suo. Però, prima di tutto, bisognava imparare a sparare. Per quello lo aveva seguito. E così, una volta impugnata l’arma aveva esploso una ad una le ventuno palle. Ventuno, come la sua età. I primi colpi con le mani di lui strette attorno. Il botto, l’emozione, il tremore di immaginare lo stesso gesto nei momenti di lotta. Sparare a qualcuno. Come è possibile? Poi, man mano che le palle sparate erano diventate dieci, undici, dodici, quelle mani avevano lentamente alleggerito la presa. Non c’era niente di importante in quell’esercizio figurativo, per lui. Forse anche quella era solo un’altra scusa per tenersela appresso. Simonetta, però, gli ultimi colpi gli aveva sparati da sola, mirando bene, facendo attenzione, controllando il respiro. 

L’ultimo colpo, ne era sicura, aveva centrato in pieno il bersaglio.
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Tramontana

È da venti minuti buoni che aspetto. La cittadina che nella stagione estiva ribolle di persone ora sembra rattrappita nell’aria gelida dell’inverno. Soffia un vento di tramontana che si propaga tra i caruggi e i portici illuminati di un arancio fioco. La pietra del lastricato è scura e riluce, umida, mentre cerco di affondare nel cappotto, nascondendo la faccia nel bavero. 
Era da molto che non tornavo qui. 

Questo paesino di riviera riscopre una sua dura fierezza, d’inverno. Come se fosse costretto a guardarsi allo specchio dopo la baldoria, snaturato e infastidito dalle fiumane agostane, irretito dalle pretese dei turisti di trovare approvazione nelle prostrazioni riverenti dei venditori di vacanze, riscoprendosi l’eterno covo di pescatori. 
Una volta era tutto più semplice, i villeggianti avevano pretese meno simboliche. L'alberghetto dove lavoravo era tutto tranne che simbolico. Le premesse erano chiare: mangiare, dormire, punto. Nessuna aspettativa di vivere un’esperienza, o di essere vezzeggiati come stupidi piccoli budda all’ingrasso. Forse sto esagerando, a quel tempo ero giovane e il mio lavoro era un fatto di necessità, di fame d’indipendenza. Stavo in cucina e cucinavo, niente di più. Cucinavo quello che mi avevano insegnato e, in parte, quello che improvvisavo grazie all’eredità assorbita dal mio entroterra brusco, deindustrializzato. 

Chissà come è cambiata la signora Carla. La ricordo piccola e tenace, capace di mandare avanti la struttura senza fiatare, a testa bassa. C’era lei dietro alla pulizia delle camere, alla lista della spesa, alla gestione delle prenotazioni, alle faccende di contabilità, al servizio in sala. Passavano giornate intere senza vederla di persona, incappando però nei molteplici ed inequivocabili segni del suo passaggio. Il marito, dal canto suo, era il factotum dell’albergo. Risolveva i problemi, aggiustava le cose, rifocillava gli animi. All’inizio mi aiutava in cucina, poi aveva capito di preferire il rapporto con la clientela. E gli piaceva sentirsi utile, purché l’utilità fosse qualcosa di ben tangibile. Io dopotutto ero bravo, nel giro di qualche mese gestivo da solo la piccola brigata dietro ai fornelli. 

- Beviamoci una cosa. Quasi non mi ha salutato. Una pacca sulla spalla e gli occhi bassi. È passato troppo tempo. Nel frattempo è cambiato tutto. Però anche lui sa che serate come questa non sono fatte per star fuori nel nulla a prendere freddo. E io ho aspettato abbastanza qui nel mio giaccone sformato. Il posto dove ci sediamo è un bar qualunque, uno di quelli dove trovi di tutto, perché la sua funzione è quella di dare da bere alla gente che non ha voglia di starsene a casa. E allora beviamo. Non ci diciamo una parola. Lui saluta qualche avventore, scambia due parole di rito con la barista che lo chiama ancora figgeu. A me invece non mi conosce più nessuno. 
Finalmente, finito il primo bicchiere e iniziato il secondo, si scuote. 
- Ricordi? 
- Belin se ricordo. Bei tempi. 
- Sì, perché eravamo giovani e non ce ne fregava un cazzo. Ricordi quel viaggio? 
Sorrido. Scappati in Francia da un giorno all’altro perché a lui l’aveva mollato la ragazza. Per partire avevo lasciato anche la mia, tanto una valeva l’altra. Alla fine non avevamo nemmeno i soldi per fare l’ultimo pieno, ci siamo giocati cinquantamila lire a calcio con un gruppo di francesi senza nemmeno una posta da puntare. I nostri avversari sono andati sulla fiducia ed erano pronti a prendersi la macchina come trofeo, o che ne so io. Però abbiamo vinto. 
- Abbiamo vinto quella volta, dico come illuminato. 
- Quella volta sì. Mi risponde tornando a guardarsi le scarpe. 

Quando usciamo camminiamo verso il mare, ripercorrendo i viottoli che inghiottono i nostri passi sordi. Evitiamo di passare lì davanti, a nessuno fa piacere vedere quel posto ora, così diverso ed estraneo. Sono stato io a prendermi cura di tutto quando il proprietario è stato male all’improvviso. Per fortuna la stagione era agli sgoccioli, rimanevano pochi clienti, gente che frequentava l’albergo da decenni e che sceglieva quella stagione crepuscolare per lasciarsi cullare nel torpore della luce preautunnale, per godere degli spazi liberati e placati dopo le invasioni barbariche, riscoprendo un'intimità possibile solo in quel periodo dell’anno. L’albergo aveva un suono diverso in quei giorni. Dalle scale del primo piano si sentivano tintinnare le vettovaglie giù in sala, i profumi della cena si propagavano nella penombra desolata della hall deserta, i pochi avventori entravano e uscivano a ritmi regolari come in una pensione, li si sentiva calpestare il corridoio mollemente, adagio. Una volta partito l’ultimo cliente non era rimasto che pulire a fondo la cucina, rassettare le camere, stipare la biancheria dopo svariati cicli di lavaggio (il profumo di bucato aveva ammantato per giorni il perimetro dell’albergo), controllare le ultime bolle e saldare i conti in sospeso. E poi le telefonate per avvisare i clienti abituali della situazione. Riaprite la prossima estate? Non si sa, speremu. Ero stato colmato da un sentimento sacro nello svolgere quel compito, l’avevo officiato come un rito, prendendomi del tempo, facendo le cose con estrema cura. Al momento di girare la chiave del portone di ingresso, dopo aver chiuso le ante e staccato la corrente, mi sono sentito un nodo in gola. Avrei voluto recitare una preghiera, come alla fine di una veglia funebre. Invece ho lasciato il mazzo nella cassettina della posta e sono tornato a casa masticando una mezza bestemmia. 

- Ci tenevamo a ringraziarti. La mamma, sai, non è più tornata qui. E tu non so cos’hai fatto, dopo. Ma alla fine siamo tutti andati avanti. Ci tenevamo a ringraziarti... 
Lo bofonchia con le mani infilate nei tasconi della giacca, guardando fisso il mare che si gonfia e si sgonfia come una creatura severa e mansueta. Poi mi porge un documento da firmare. Siamo qui per questo, serve la mia dichiarazione di non avere crediti nei confronti degli ex proprietari. La chiusura dell’attività è stata gestita in modo frettoloso, brusco. 
Firmo. Guardo anche io la distesa nera adattando il respiro all’ondeggiare della marea. 
- Io invece volevo dirti che i Liguori prima di partire si sono raccomandati di far aggiustare la finestra della numero 6, che passano gli spifferi. E il rubinetto della 3 sgocciola, il signor Gino non ci dormiva, la notte. Ho provato a darci un po’ di giri di chiave ma non serve. E Walter non vede l’ora di andare a totani con il gozzo del papà, di notte, come tutti gli anni. Dice che se la pesca va bene offre lui la frittura a tutta la sala. 
Mi guarda per la prima volta negli occhi, come scosso dal torpore. Strizza le palpebre e accenna un sorrisetto. 
- Ti o saiæ proprio nescio! 
- Io vado di qua. 
- Io dall’altra parte. 

Ci salutiamo, la stretta di mano questa volta più forte, in qualche modo definitiva. Quel che era da fare è stato fatto. 
Ripercorro i vicoli. Non passo lì davanti, prendo altre strade, come sto facendo da anni ormai. Pensavo di essermi lasciato alle spalle questo mondo, eppure sento che questa cittadina, quest’atmosfera sospesa nel freddo pungente di gennaio, mi vibra sotto la pelle. Alzo il bavero e mi chiudo nel cappotto. Queste folate di tramontana sanno entrarti dentro più di certi ricordi, a volte.
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Rimini

 Che orrore, che orrore questo entusiasmo riversato in faccende che non mutano di una virgola l’equilibrio del mondo. Eppure l’impegno che esonda tutt’intorno, che tracima da questi personaggi affannosi, lanciati a testa bassa verso una qualche strada maestra, verso un senso da dare alla propria vita, una vocazione da cavare fuori da qualsiasi cosa purché sia, ecco, questo chiassoso celebrare il proprio sforzo di stare al mondo mi provoca un prurito, un rigetto, un malessere che esonda, riempie ogni fibra e sollecita un fastidio impudico, sprezzante, forse anche ingiusto. 

 La spiaggia è infinita. Cammino da ore sul bagnasciuga riminese mentre i giovani si radunano attorno a innumerevoli sound system pulsanti messi in fila uno dopo l’altro, uno per ogni stabilimento balneare. Molteplici e uguali. Sono tutti euforici mentre il sole si abbassa all’orizzonte e il caldo allenta la morsa implacabile di questi giorni, lasciando spazio a una brezza leggera che scompiglia appena i capelli, asciuga il sudore e diffonde nell’aria gli odori di sigarette accese, di profumi caotici, di mare e salmastro. Un mare basso e macchiato di mucillagine verdastra. È sabato, la gente si vuole divertire, e questo è il tipo di divertimento più consono. C’è una bella conchiglia, la raccolgo. Può sempre servire una conchiglia. 

 La musica, i balli, l’euforia, le pelli abbronzate, sane e seducenti, eppure tutto stride come un costante acufene dei sensi. Sento che chiunque, dico chiunque, ha abbracciato una forma di esistenza che è un affronto a ciò che è desiderabile. È come se una vocina nella testa ci costringesse, senza esercitare alcuna coercizione palese, ma anzi titillandoci gentilmente, esponendoci a una continua sollecitazione (un solletico a fior di pelle), a fare della nostra vita una cieca corsa in avanti, un severo praticantato a ostacoli. L'ambizione ha soppiantato il desiderio, e la parabola dei talenti è diventata il metro della nostra autopercezione. Se non hai un’ambizione a cui votare la tua immagine pubblica non sei niente, se non valorizzi la tua vocazione non puoi nemmeno dire di essere davvero qualcosa, di avere una personalità, un’identità (il che è strano: essere identici a sé stessi è una tautologia).

[ Terminologia obbligatoria per costruire il sé contemporaneo: 
- Vocazione; 
 - Ambizione; 
 - Autovalorizzazione; 
 - Impegno; 
 - Motivazione; 
 - Esperienza; 
 - Personalità; 
 - Identità. ]

 In realtà però ci identifichiamo con una sostanza aliena, con una bambagia estranea e pruriginosa di cui siamo stati imbottiti e che nutriamo dedicandole ogni nostro pensiero ed energia. E così, pensando di aver chiuso il cerchio, illudendoci di essere allo specchio con la nostra immagine più autentica, non ci accorgiamo invece di stare al cospetto di qualcos’altro da noi, un parassita che ci divora e si impone in tutto il suo bisogno di attenzioni. Una volta incastrati nella trappola non se ne esce: il gioco delle parti si struttura su questa rete di attese reciproche fondate su un virus inoculato a tradimento. 

 Mentre cammino - la ruota panoramica sempre più vicina - penso a due cose, la terza non si può dire. La prima è che amo quando i comici, nel bel mezzo del loro spettacolo, non riescono a trattenersi dal ridere della propria battuta. La seconda è che mi commuovono i gesti di fair-play sportivi. E non sono uno che segue lo sport. In un caso e nell’altro c’è un doppio movimento, una dialettica, quella del ritorno in sé susseguente all’uscita dal proprio ruolo, quella della riscoperta dell’altro al di fuori delle leggi che regolano il gioco. C’è l’umanità che riaffiora, che si impone. 

 Rimini è un po’ così: un continuo tornare a sé dopo essersi allontanati. Il lungomare caotico e dozzinale, sterminato e insensato, si trasfigura nella quieta e sonnacchiosa austerità del centro storico, tra piazze medievali e vicoli di pescatori, resti di antichità romane e tipici scorci da entroterra romagnolo (vicoli, portici, colori tenui di mattoni e pietre, cielo aperto). Qui sì è bello perdersi, di quelle perdite fatte di piccoli abbandoni, non di stordimenti ottusi. Non quel sentirmi reciso che percepisco su questa spiaggia che rimbomba. A Rimini ondeggio indolente tra le promesse disattese della vita balneare e le vedute del centro, “tra gelati e bandiere”, i pensieri ridotti a un nocciolo schiacciato e atterrito dal caldo e dall’attesa, da un’attitudine vaga alla pazienza impostami dal viaggio, dall’essere qui per caso, per poco, specchiato nei riflessi acquatici di Castel Sismondo, dove una sera ho immerso i piedi, oppure appoggiato ai parapetti del ponte di Tiberio, dove il cielo si apre immensamente. E poi i lunghi bastioni che costeggiano il canale, portando fino alla darsena e – ancora – alla ruota panoramica, costeggiati da imbarcazioni e chiatte, relitti da pesca, piccole navi cargo, traghetti turistici, yacht sontuosi, e quella sabbia fine della spiaggia infinita, color ocra, che si appiccica ai piedi e non va più via. Non va più via come questo fastidio, questo benessere, questa pace, questa inquietudine, questa sospensione vacanziera, questo orrore che rimane, che cresce.
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Ahmed

“Avete notato come mi guarda?” dice Canetti sollevandosi sui gomiti, tossicchiando e raspando. 
La stanza, disordinata e in penombra, è immersa in una spessa coltre di fumo, ma non importa, perché i genitori di Lonero non sono in casa, ci sarà tutto il tempo per fare aria. E poi fuori fa freddo. 
“Che robaccia avete comprato? Gratta come il mio cinquantino”. 
“Chi è che ti guarda?” 
“Sì fa cagare, ma che pretendi, Ahmed ultimamente ha cambiato giro”. Lonero quando dice le cose le dice come se fosse uscito da una bisca clandestina. 
“E chi è Ahmed?”. L’unico che fa domande è il Bambi, stracciato ai piedi del letto con lo sguardo fisso al soffitto. 
Lo sbuffo strafottente di risposta è di Lonero, come a dire, chi vuoi che sia, che domanda è?, che poi conclude tutto in un risolino perché in fondo che importa. 
“Guarda che non è marocchino quello lì. La mamma è più italiana di te, Lonero. E non si chiama Ahmed”. Canetti su certe cose è preciso e non tollera che si scambi questo per quello. 
Fuori le ombre del pomeriggio stanno facendosi sempre più oblique, eccetera eccetera, perché si sta facendo sera. 
“Chi è che ti guarda?” 
“Quando?” 
“Ma sei stupido, Canetti? Hai detto che qualcuno ti guarda.” 
“Tutti a lamentarvi che il fumo fa schifo però siete belli in botta”, ridacchia Lonero, che si sta schiacciando un foruncolo sulla spalla con estrema dedizione. Riesce a far sembrare tutto normale, Lonero. 
“E comunque ha la pelle scura. La mamma no, ma il papà secondo me è marocchino, o pakistano, chennesò. Ma non è italiano, cioè non del tutto, per quello che importa”. De Giacomi sta in piedi, quasi sempre. Anche a scuola è difficile farlo stare seduto. E se è seduto sembra che una forza lo pungoli di continuo. Non sta mai fermo, con quelle gambe sempre contratte in spasmi di impazienza. 
“Pakistan, Marocco, siam lì eh? Sei l’unico che non fuma tu, apposto stiamo”. Lonero ride sempre, ma sottilmente, come se buona parte della risata rimanesse incastrata dentro. 

“Il prof Tondelli, è lui che mi guarda”. 

Quando il gruppo è riunito si può dire più o meno tutto, più o meno in qualsiasi ordine, più o meno lasciando da parte la pretese di dover dire le cose in un certo modo per sembrare qualcuno che non si è. Insomma, il gruppo è fidato, una fiducia che si consolida in momenti come questo, in cui è vitale essere come un corpo solo, un solo cervello, nel segno di una complicità assoluta. Saltare la scuola in quattro, tutti assieme, non è stata una grande idea. Ma è stata un’idea condivisa, e questo è quello che conta. 

“L’altro giorno, quando mi interrogava, non mi mollava un attimo. Non lo sopporto”. Canetti a volte è capace di rabbuiarsi e rimestare, e in quei momenti il suo volto da ragazzino si fa improvvisamente adulto, deformato dal peso di certi pensieri improvvisi. 
“E chi doveva guardare mentre ti interrogava?”, bofonchia il Bambi. 
Nella stanza per un attimo tutto si è fermato. I tre guardano Canetti e si chiedono se quella sia una storia per cui valga la pena ritagliare un po’ di attenzione residua, bere dell’acqua e rimettere in sesto le bocche impastate e molli. 
“In che senso ti guardava, Canetti?”. Lonero si è fatto cupo. Vuole capire, quando non capisce si sente come un animale minacciato. 
“Mi guardava come non doveva, come se fosse interessato”. 
“Ma che dici? Ti guardava come si guarda uno che non sa un cazzo”, prorompe De Giacomi con un leggero tremolio nella voce, ma nonostante questo più deciso del solito. 
“De Giacomi, stai zitto, io lo so come mi guardava. E non mi piace per niente”. 
“Se ti guarda così la Barelli però non ti lamenti mica”. 
“Cosa centra, De Giacomi? Qui Canetti ci sta dicendo che il prof è frocio. Capisci la differenza?”. Lonero si è irrigidito e ha messo su il classico ghigno che tira fuori prima di uno scontro. 
“Ne giriamo un’altra?”. Bambi non ama il conflitto. 
“Certo che la so la differenza Lonero, datti una calmata. Dico solo che uno sguardo è solo uno sguardo, mica ha fatto nient’altro. E poi…”. De Giacomi, sempre in piedi, vaga con lo sguardo nella stanza fumosa, come a cercare un qualche punto fermo. Lonero lo scruta ma in fondo su questa faccenda non è che abbia molto altro da dire. 
“E poi?”, chiede Canetti che ora si sistema il ciuffo e si mette seduto. 
“E poi se è omosessuale che ce ne frega? A me piace come spiega le cose, punto”. 
“Anche a me piace come spiega Tondelli. Ed è uno che non caga troppo il cazzo. Questo è l’importante”. Anche il Bambi ora è seduto composto, e sta sminuzzando gli ultimi pezzettini in una cartina. 
“Ti piace come spiega le cose…”. Canetti guarda dritto De Giacomi che ricambia fisso, poi punta Lonero, che alza gli occhi al cielo e lancia uno sbuffo: “Canetti, però è vero che hai fatto una figura di merda l’altro giorno durante l’interrogazione, finiscila con le stronzate”. 

I quattro ridacchiano. 
“Se mi guardasse così la Barelli a quest’ora non sarei qui con voi sfigati”, taglia corto Canetti. 
Il Bambi ha finito il suo capolavoro, lo scatto dell’accendino irrompe nell’atmosfera di nuovo distesa. De Giacomi finalmente si accascia sul letto, Canetti si ributta a pancia in giù stringendo un cuscino, Lonero aspetta impaziente il suo turno, sempre col suo sorrisetto stampato sulla faccia, come quello di uno che ha capito le cose senza il bisogno di dire e pensare chissà che.
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Sables d'Or

Sables-d’Or-Les-Pins arriva dopo l’ennesima, lunga, dritta strada bretone. La mattina è iniziata presto, con un gran mal di testa. Questa cittadina balneare è stata pensata per ospitare personaggi del calibro di Scott Fitzgerald. Poi la crisi del ‘29 ha spazzato via ogni illusione. Di quel sogno rimane soltanto l’ordine desolato e rigoroso delle aiuole all’inglese, che nel ‘21 presero il posto delle dune di sabbia. Il viale alberato è un invito alle dolci passeggiate estive lungo villette in classico stile bretone e numerose licenze années folles sparse qui e là, tra piscine fluorescenti, hotel sfarzosi e bianchi casinò, fino ad arrivare alla grande rotonda dove convergono tutte le strade, risolvendo nella veduta sulla baia le eleganti fantasie della planimetria cittadina. La spiaggia, una bianca distesa di sabbia fine, raccoglie i profumi di una Manica che inizia a perdersi nell’Oceano. 

Fermo la macchina molto prima della rotonda, considerando l’opportunità di una passeggiata lungo il viale di questo posto così ricercato, eppure così arenato in un’impossibilità cicatrizzata nel tempo. Una città fantasma che fa finta di niente dal 1929. Un uomo taglia il prato, io lo guardo lavorare mentre le gambe si riabituano a camminare, dopo ore di viaggio. 
Ormai il mio scopo è soltanto quello di andare avanti, per quanto la sosta sia ancora un rito a cui assegno una certa sacralità. Ho ancora vive le sensazioni delle scogliere di cap Fréhel, che precipitano inesorabili nel mare annullando in un sol colpo le traiettorie disegnate dai sentieri brulli nascosti tra brughiere di erica e ginestre. E ora sono su questa promenade che doveva brulicare di facoltosi turisti inglesi e che è finita per diventare l’ennesima placida località per pensionati e viaggiatori casuali, di passaggio. 

Cent’anni fa, un soffio. In fondo continuiamo a ripercorrere le stesse illusioni. Solo le ripide falesie di granito sfidano le nostre pretese di piegare il caos alla nostra volontà. Visitando le città d’Europa ho sempre pensato che certi luoghi plasmati dall’uomo, come una grande piazza, un viale monumentale, il cortile di un palazzo signorile, possano strutturare anche chi li percorre. Le geometrie urbane esercitano una forza capace di disciplinare il movimento, di inserire l’uomo in un contesto, facendo della sua presenza un fatto scenico, estetico, come proiettandolo sul palco di un teatro. La stessa cosa non succede in natura, dove invece la presenza umana si perde, si scioglie, risultando ridimensionata e vana, costretta a un’improvvisazione di second’ordine. E cosa dire, invece, di questi luoghi che sigillano un fallimento, una vanagloria? Non è anche questo posto una sorta di scenario naturale, catastrofico, nonostante le sembianze ordinate, artificiali, immobili? Non sono forse questi passanti, io stesso, semplici figuranti immiseriti dalla percezione di questa forza che schiaccia, da questa resa inesorabile a potenze più grandi, da questo senso di sconfitta storica? 

Finito il viale, con le ultime arcate punteggiate da tavolini, non resta quindi che la spiaggia, che stride e stona, perché il confine non è netto. Niente precipita da nessuna parte, tutto si sfiora, si lambisce in modo ambiguo, nascondendo un mutuo disprezzo irrisolto. Torno indietro, sento che la malinconia del decadimento impregna questo luogo, una grande sabbia mobile dove si potrebbe tranquillamente affondare con un sorrisetto ebete stampato sul volto. Mi conforta il rombo del motore e il riacquistato senso del movimento. Un’altra fuga, la mia. Un dettaglio su cui preferisco non soffermarmi. Non mi inganno però sul fatto che Scott Fitzgerald fosse un ricco capriccioso e lunatico. E lasciarmi alle spalle un posto che per lui sarebbe stato perfetto mi placa, come una di quelle bugie delicate che si raccontano ai bambini perché dormano tranquilli.
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Saint-Brieuc

Il vecchio noce spacca in due lo stradone di ciottoli grossolani che, di fronte a quell'ostacolo, si sdoppia in diramazioni opposte, ognuna costretta a digradare per conto suo verso la cattedrale, tra antiche casette a graticcio dai colori tenui in elegante contrasto con la pietra scura che altrimenti si imporrebbe nello scenario medievale del borgo. Il noce è lì da chissà quanto, e ora una piazzetta lo circonda come a volerlo preservare. Pare che tutta la città si sia sviluppata partendo dal vecchio noce. Prima la strada deviata da quel tronco secolare, poi la piazzetta a cuneo, con i muriccioli su cui da secoli si adagiano gli avventori dei caffè intorno, e così tutta la morfologia della città sembra essersi organizzata per assecondare le forme a mano a mano imposte da quell'unico elemento immoto, fisso, eterno. Proprio come le onde che si formano attorno al tonfo di un sasso lanciato nell'acqua, così la città si propaga a cerchi concentrici, via via più frastagliati e immemori della loro necessaria origine. 

Io sono sotto al noce, la seconda birra fresca sul mio tavolino in ferro smaltato, seduto sul muretto che delimita il perimetro della piazzetta. Attorno a me poche persone, forse perché è ancora presto e gli abitanti di questa città devono ancora uscire da lavoro. Sono qui perché volevo viaggiare da solo, e invece non faccio che cercare lo sguardo degli altri. Potrei dire di essere proprio come gli strati più esterni di questa città nata dal lancio di un sasso: man mano che proseguo nel viaggio mi deformo e non combacio più con le intenzioni della partenza. 

Sono ormai un paio d’ore che sto seduto a questo tavolino. I bicchieri di birra si accumulano, lenti, per venire portati via da una cameriera simpatica, che ora mi sorride. Deve aver capito che, nonostante il tasso alcolico, non rappresenterò un problema. Con il passare del tempo è come se la città mi abbracciasse, dandomi l’illusione di una familiarità del tutto frutto del torpore dell’alcool. L’aria profuma, è sera. Una coppia vicino a me è impegnata in una di quelle chiacchierate abbandonate e intime, allacciata da una sinuosa prosodia straniera di cui colgo appena qualche frase. Vorrei allacciarmi a quel ritmo, prendere l’onda e unirmi alla discussione. Lui ad un certo punto ha un moto, un impeto delicato, gira il tavolino rettangolare di novanta gradi, in modo da accorciare le distanze. Un bel gesto. Lei apprezza, perché approfittando della nuova vicinanza, gli stringe un braccio. Si guardano. Distolgo l’attenzione, questa non sembra una scena destinata ad essere consumata da qualche estraneo a caso. 

Prendo il taccuino lasciato aperto sul tavolo e segno tre strofe tremolanti: 

“Non è che una speranza vana nel tempo 
Lo sguardo che rivolgo al vuoto astratto 
Che si sdoppia di continuo tra te e me” 

Tutto in questo viaggio è doppio. Il rifrangersi del cielo sui vasti bagnasciuga inumiditi dalle maree, il confronto continuo tra terra e oceano, la quiete dei borghi e la furia agitosa del vento che spinge le onde contro le scogliere a precipizio, le intenzioni che mi spingono e mi frenano. Ora, però, è tempo di alzarsi. Mi guardo ancora attorno ma non trovo nessun appiglio al quale aggrapparmi. Devo continuare a spingermi oltre, proseguendo verso ovest. Non è per niente scontato abbandonare di continuo ciò che ci fa star bene. L’istinto mi suggerirebbe di fermarmi, di allungare il soggiorno in questa città che mi pare tanto accogliente, tanto mia. Star fermi è la forza seducente più insidiosa da contrastare durante un viaggio. Mi alzo a fatica, le gambe indurite dalla seduta prolungata e dalle tante birre. Lancio, con la coda dell’occhio, una sbirciata alla coppia vicino. Non si stringono più, nemmeno si parlano. Lei mi rivolge un’occhiata svogliata, mentre io raccolgo lo zaino e cerco di tenermi saldo, consapevole di apparire per quello che sono: uno straniero solitario e ubriaco che sta lasciando per sempre questo posto, senza lasciare niente di sé. 

Dal canto mio, invece, c'è molto in gioco. Rescindo un legame effimero, ma pur sempre un legame. Mi decido, saluto i due, schiarendomi la voce e incespicando in un “au revoir” che suona vano. Loro, però ricambiano entusiasti e mi sorridono. Hanno pochissimo da perdere. Mi basta così poco per ritrovare il coraggio. Mi allontano senza voltarmi, pago e saluto ancora la cameriera, la mente già oltre, già a domani. La strada che ho fatto prima la ripercorro all'incontrario, per l’ultima volta. So dove andare. Accetto tutto. Solo il noce, come sempre, resta fermo, immobile.
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I fiori non ti fanno del male

I petali si arricciano al contatto con la pelle deformando la loro consistenza di velluto. Un fatto non percepibile ad occhio nudo, ma io lo sento. Sento che fremono di piacere assieme a lei. Sento anche che tutto questo sta diventando sempre più pericoloso. Mentre mi infilavo nel viottolo che scende verso il suo appartamento avrei giurato di avere mille occhi addosso. Dev’essere solo paranoia, qui è facile sentirsi osservati: i nativi più estremisti non sono per niente clementi con gli alieni trovati a insidiare una di loro. Lo considerano ancora peggio delle concessioni farlocche che gli strappiamo per la nostra fame di acqua salata. Giusto qualche mese fa uno dei nostri è stato rimandato alla base con le mani legate penzoloni attorno al collo. Mentre mi perdo nelle mie congetture un sussulto le spezza la voce, geme. Una leggera scarica si diffonde dallo stelo ai miei polpastrelli. Al contatto con i petali i microscopici bulbi piliferi si irretiscono e tirano, tendendo l’epidermide. È tutto connesso, dall’uno all’altro capezzolo, un intreccio invisibile di fibre eccitate che si saldano dietro la nuca e si allacciano poi in misteriosi punti nevralgici lungo la schiena, attraverso il costato, sotto le ascelle. 

- Questa cosa sta diventando troppo intima. Lo dice mentre una rugiada sottile inghiotte le corolle sgualcite. 
- In che senso? Noi? 
- No, non noi. I fiori. Sono di troppo. E a volte mi sembra che tu sia più interessato a loro che a me

Come darle torto. Loro, i fiori, sono un tripudio di connessioni nuove. L’interazione che si crea con il mondo vegetale di questo posto mi ha affascinato fin da subito. Non si può parlare di creature senzienti, non sarebbe del tutto esatto. Qui i fiori, le piante, trasmettono flussi di energia. Assorbono e amplificano le sensazioni. Che da questo scambio ne ricavino qualcosa anche loro è dubbio. Io però ne sono sempre più persuaso. E questa sua gelosia improvvisa non fa che confermare la mia convinzione. La vegetazione del luogo da cui arrivo non è minimamente paragonabile: fusti coriacei, sgorbi di intrichi contorti, escrescenze sgraziate, trionfo della funzionalità. Roba che stocca carbonio e rilascia ossigeno in gran quantità. E basta. 

- Ma davvero tu non senti niente? Non è la prima volta che cerco di sondare le sue sensazioni a riguardo. 
- Io sento solo te. E mi basta. Voi alieni avete un’elettricità che mi lascia ogni volta senza fiato. Quindi se vuoi continuare a giocare con i fiori va bene, ma pensa anche un po’ a me
Mentre esprime questo desiderio mi stringe le dita attorno. Decido che i petali possono aspettare e decido anche di sorvolare su quel “voi”. 

Amo vederla splendere nella luce magnetica della sera quando si tira su per mettersi a sedere e la schiena inarcata, irrorata di goccioline di sudore, rifrange in un caleidoscopio i riflessi dei raggi lunari che filtrano da fuori. Siamo uguali, noi e loro. Solo che noi siamo arrivati dopo. Nessuno sa come sia possibile che apparteniamo alla stessa razza. Ogni differenza tra le nostre due specie sembra, o così ho avuto modo di constatare, legata puramente a fattori ecologici. Poco da fare, dalle nostre parti c’è meno bellezza. E quindi ci siamo sviluppati senza la stessa frastagliata gamma comportamentale che qui tutti hanno, tanto nel sesso quanto nella violenza, fin nelle più innocue attività quotidiane. Lei in particolar modo. Il tempo però ha indurito questa gente, perché nessuno sembra disposto a riconoscersi in un simile potenziale, mostrando invece un cinismo affettato, una spudoratezza forzata. Sono sicuro, però, che anche lei sente i fiori. 

Quando esco dall'appartamento, dopo averle dato un ultimo bacio, stacco una delle tante primule colorate dal suo stelo e me la appunto alla giacca termoregolante. I due materiali a contatto stridono, ma non importa. Ogni volta non riesco a resistere alla tentazione di portarmi appresso un po’ del suo mondo, per quanto ciò significhi condannarlo a sciuparsi e morire. 

Oltre questo gruppuscolo di case dove sembra non abitare nessuno regna la desolazione più totale. Gli arbusti e le sterpaglie si ammucchiano qua e là, secondo geometrie casuali, lasciando che la propulsione del mio levitatore a trasmissione magnetica compatti sul suolo un solco nudo e brullo, che visto dall’alto sembra un confine naturale, magari uno di quei sentieri un tempo battuti dagli zoccoli coriacei di qualche bestia della steppa montana. Il mio mezzo scorre rapido fendendo con un sibilo l’aria gelida di queste latitudini boreali: sono così abituato a percorrere la mia solita porzione di spazio, talmente monotona da far venire la nausea, che mi accorgo troppo tardi di una scatoletta metallica circolare posizionata proprio nel bel mezzo della traccia. Me ne accorgo solo dopo esserci finito sopra. 

Merda!”. Lo penso mentre lo stomaco mi finisce in gola, sbalzato nel vuoto improvviso dei campi magnetici inversi generati dalla trappola. Riesco a imprimere una sterzata a pochi centimetri da terra, recupero potenza e levito debolmente verso l’alto, ma è troppo tardi, perché un’altra forza mi trattiene spingendomi all’indietro. Sono impigliato in qualcosa, filamenti sintetizzati dalla tela di certi ragnetti di queste parti. Scelgo di disarcionarmi e attivare le cellette laser della mia tuta. Il mezzo si schianta a pochi metri sollevando un polverone. Io sono di nuovo libero ma il tonfo al suolo è così forte che perdo il fiato. So già che, nonostante la mancanza di respiro e lo stordimento, devo fare una sola cosa: allontanarmi subito, in fretta. In lontananza, alle mie spalle, dei lumicini pulsano nel buio. Un brusio elettrico di eccitazione e voci si diffonde attraverso l’aria percorsa da intense folate di vento. Arrancando mi inoltro verso est, dove i cespugli si fanno più fitti per addensarsi in una macchia insolitamente rigogliosa. Cerco istintivamente la primula che avevo ancorato al bavero: ovvio, non c’è più. Tenendomi basso supero la prima fascia di vegetazione, lasciando tracce di brandelli di tessuto raccolti da spine e rami irti. Non ho nessuna speranza, se non quella offertami dal buio, dalla fortuna e dal paio di deflagratori a microfissione che tengo alla cinta. Approfittando del fronte rigonfio di cespugli di ginepro che, come una barriera, spezzano la steppa circostante, mi acquatto e mi appiattisco a terra. Il silenzio è rotto solo dal tonfo sordo del cuore e dal frusciare del vento sulle superfici. Non sento più le presenze di prima, devono essere all’erta pure loro. Sanno che nessuno di noi gira disarmato. 

Non devo essermi reso conto della foga con cui ho attraversato i cespugli, ma ora sento le lacerazioni sulla pelle. Niente di così grave. La caduta di poco prima invece continua a spezzarmi il fiato. Mi trascino ancora per qualche metro, fino a trovare un avvallamento del terreno nel quale accovacciarmi. Mi accorgo, una volta posizionato in modo da risultare il meno visibile possibile, di essermi addentrato in una piccola ed inattesa oasi, probabilmente sorta grazie al riparo offerto dai muri di ginepro. Sparsi a casaccio su tutta la superficie una serie di tronchi si contorcono tenendosi bassi, attorcigliati come a voler aumentare la presa sulla scorza di terra dura e accigliata. Le fronde, rade ma spesse, devono offrire piacevoli trame d’ombra nelle giornate assolate e aride. Il satellite bianco di questo pianeta proietta la sue luce riflessa dando vita ad ombre delicate, permettendomi di distinguere i contorni traslucidi delle cose notturne. Poco lontani da me vi sono alcuni cespugli di rosa canina, e la tonalità accesa delle loro bacche rosse si sposa alle colorazioni bluastre del ginepro, al color sabbia dei rami, alle foglie scure. 

Improvvisamente percepisco una presenza che mi scava sotto pelle, facendomi vibrare i muscoli esausti. A pochi passi dal mio riparo, incastrata nella spaccatura di un masso erratico avviluppato negli arbusti rinsecchiti, spunta come una fiammella viva un mucchietto di petali rosa scuro, sorretti da larghe e spesse foglie dentellate. Un pugno di primule accende quell’anfratto crepitando nell’oscurità. Carponi raggiungo il mucchietto e allungo una mano. Non appena il polpastrello entra a contatto con la materia soffice dei fiori una scarica mi percorre la spina dorsale: sento ogni fibra del mio corpo assorbire quella che è a tutti gli effetti una melodia, o una lingua calda passata sulla pelle tra sequenze di morsi teneri. E poi, a ritroso, senza volerlo davvero, restituisco la stessa sensazione alle corolle, e mi pare di vederle flettersi e respirare, dilatandosi in un moto di gratitudine. Non capisco come ma c’è stata una comunicazione, un amplesso. Mi sento appagato, estatico, tanto da non curarmi del motivo per cui mi trovo rannicchiato nella steppa. Fisso lo scapo ricco, mi concentro sulle fluttuazioni che i gambi restituiscono ad ogni alito di vento, il quale arriva carico degli scambi odorosi con le foglie spinose dei ginepri. Mi accorgo d’un colpo di avere una mano pronta a far scattare la sicura del primo deflagratore. Mi stupisco di me stesso: come potrei mai incenerire tutto questo? Questi fiori non mi hanno fatto niente di male. Rimetto in sicurezza l’ordigno e lo ricaccio nel cinturone, e sento che anche il ramo contorto, a pochi metri dal mio fianco destro, lancia segnali di riconoscenza attraverso gli scricchiolii secchi prodotti dalla sua danza sinuosa. Il vento ora si fa più forte e tutto attorno a me si scuote, danzando e sorridendo. Mi immergo nella sinfonia prodotta dal vento che suona ogni elemento rispettando la sua consistenza. È tutto così madido di reciprocità, qui. Mi rannicchio e come per magia le piante intorno si fanno più vicine, come a volermi avvolgere. Il brusio di prima riprende, vicino, assieme ai tonfi sordi di passi avventati. 

Non me ne curo. Chiudi gli occhi e accarezzo i petali, pieno della sensazione di un dialogo amoroso che, in fondo, unisce quello interrotto con la mia terrestre, poche ore fa, e riassume il ricordo dell’amore di domani, di dopodomani. I fiori sanno fare questo. Come sto bene qui. Niente a che vedere con la vegetazione delle mie parti. Troppo funzionale, solo ammassi di carbonio e rigurgiti di ossigeno.
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Lo scaccia fantasmi

  
racconto matteo castello fantasmi case
 I nomi degli africani sono il vero problema. In fondo per gli altri siamo prima di tutto una faccia e un nome. E questi come arrivano? Arrivano con la faccia nera e dei nomi impronunciabili. Pregiudizi, barriere culturali, ostacoli ideologici, linguistici, per non parlare della pulsione xenofoba che alberga nemmeno troppo sopita in ognuno di noi: tutto questo è molto meno rilevante di quanto si pensi. Prima di ogni altra cosa c’è una faccia nera e un nome strano. Ad esempio Sissouko. Oppure Djallo, o Oghenero, Babukar, Danjuma, Ghiamfy. Niente di insormontabile, dirà qualcuno. Quel qualcuno forse non si è mai chiesto perché, nonostante sembri tutto così facile, si continui a sbattere la faccia contro i soliti ostacoli. Sicché la pretesa di poter arrivare a gestire con naturalezza quell’insieme esotico di vocali e consonanti suona come una sfida al buonsenso. 

 Diamo un nome alle cose per renderle familiari. Il nominativo è la vera chiave per entrare in quella rete consorziale che ci garantisce un volto, un ruolo. E non è carino vedere ingarbugliata la nostra mappa di riferimenti con suoni che vi si impigliano dentro, evocando qualcos’altro, costringendo la mente e la lingua ad allacciare nuove sospette articolazioni. Davvero pensiamo che potrà essere mai considerato un fatto normale chiamarsi Hauhouot ? La gente non tollera le novità, e così nel migliore dei casi affibbia soprannomi semplificati per restituire una sembianza di riconoscibilità a universi alieni. Per riconquistare il controllo dell’ignoto. Abu, Ibra, Ime, Oghe, Lami, Ghia. Sigle, dittonghi, brandelli ciancicati capaci di restare in testa come rassicuranti e innocue onomatopee. La persona portatrice del nome così storpiato, dal canto suo, paga più che volentieri lo scotto, nella speranza di eliminare le distanze che lo separano dal tanto agognato universo di riferimenti altrui, illudendosi di essere così incluso magicamente in una comunità che, però, gli rimane ostile. Perché in verità un nome è un nome: un groviglio di parole. O forse no? Sbagliano tutti: chi si illude che un nome faccia tanta differenza e chi è convinto del suo non essere altro che un inutile ammasso di suoni. In entrambi i casi è il feticcio ad essere preso in considerazione, mai tutto il mondo retrostante. 

 Questo rimestarsi di pensieri accade ora mentre imbocco la stradina che sale verso casa. “Tu sei troppo serio, rimugini troppo sulle cose e finisce che te le perdi proprio mentre succedono davanti a te”, dice la vocina del mio fantasma. Come darle torto? Eppure in testa tutto funziona come dovrebbe, molto meglio che nella realtà, e lo svolgimento dei vari passaggi sembra srotolarsi come in una messa in scena: limpido, compiuto, stilizzato a dovere. Con un inizio e una fine. Niente rimane in sospeso, magari incastrato da qualche parte e lasciato lì a marcire e a infestare tutto il resto. Ogni volta che mi perdo nelle mie elucubrazioni mi stupisco di quanto io sia capace di illudermi, ogni volta, della loro ingannevole solidità: si snodano agili e articolate, per poi perdere consistenza al primo tentativo di esprimerle a parole. Cosa accade di tanto disastroso e disfunzionale durante i processi di traduzione pensiero --> voce? Non me lo so spiegare. Molti della mia età, quando si accorgono di non essere capaci di spiegarsi qualcosa, smettono semplicemente di farsi domande. 

 Le case intanto si allineano l’una dopo l’altra frastagliando i contorni della linea retta che mi porta in alto, alternando profili di facciate cangianti, in una piacevole sequenza ritmica di mura sfondate dal tempo e altre intonse nella loro ruvidità contadina, mentre altre ancora sembrano essere state calate dall’alto tutte intere, dalla mattina alla sera, frutto di qualche visione al passo con le mode del momento eppure così fuori luogo. Le case brutte - ne rimangono alcune preservate dalle visioni degli architetti - reclamano comunque il loro diritto a poggiare le fondamenta in questa stratificata collina borghese. Ce n’è una in particolare che ho sempre trovato bellissima e inquietante. Sembra un castello, con i diversi piani affastellati l’uno sull’altro fino ad arrivare alla torre a pianta quadrata che, eretta e fiera, domina la città. Il muro è tinto di un rosso granata, lo è sempre stato dacché mi ricordi. Le finestre sono impenetrabili e lasciano soltanto immaginare la vastità degli spazi interni. Li immagino labirintici e polverosi, nonostante la struttura sia stata ristrutturata di recente. Il castello si erge altezzoso tra i villini-parvenus di ultima generazione di quest’ultima parte di collina: strutture funzionali e squadrate dove domina il vetro e il metallo. 

 Le case ci assomigliano? Gli abitanti del castello non si abbandonano forse alla noia serale davanti alla televisione? Non riscaldano cibi artificiali al microonde dopo essersi abbandonati a un rapporto orale svelto, oppure a una sega di fronte allo schermo di uno smartphone? O forse no? Le case non ci assomigliano, le case sono la proiezione esterna di come vorremmo essere. Eppure là dentro tutti sono uguali, fanno le stesse cose, rimestano nello stesso fango esistenziale. 

 Mi passa accanto un cane piccolo, bianco, portato al laccio da un padrone sulla settantina, dal passo più lento di quanto non vorrebbe il quadrupede sovreccitato che tira e ansima. Che paura mi fanno gli anziani. 

 D’improvviso, scacciando in un colpo solo i densi pensieri in cui ero invischiato, irrompe un sogno fatto l’altra sera, non so perché. Uscivo da un’abitazione, probabilmente dopo una serata passata tra amici. Le finestre spargevano i loro fiochi bagliori iridescenti verso l’esterno. Fuori era buio pesto. Mi avviavo verso la macchina parcheggiata al lato della stradina a pochi passi dal selciato che contornava la casa, incastonata in una notte sorda e sconfinata. Una casa contadina simile ad alcune di quelle che mi sto lasciando alle spalle proprio ora, mentre procedo in salita immerso nel mio nuovo pensiero. Sono dentro il sogno e lo rivivo, non faccio caso a una macchina che mi sorpassa gorgogliando, sfiorandomi. L’erba ai lati della stradina è alta e si piega piano al soffio della brezza notturna. Sono calmo ma presto mi accorgo di qualcosa. Una presenza mi osserva. Da dove? Non lo so, ma percepisco distintamente di essere sotto tiro. Finché non le vedo. Ci sono delle code che si confondono tra gli steli d’erba, manifestando però la loro coriacea consistenza carnosa, risolta in un ciuffo terminale che oscilla lento nell’oscurità. Non vedo i leoni ma ora so che sono lì, quatti quatti tra la vegetazione, sento i loro sguardi concentrati e so che sono pronti a scattare. Sono braccato ed ecco sopraggiungere un’ansia primordiale, la stessa che abbiamo covato nei millenni e che ci tormenta ancora. L’uomo predatore si porta ancora appresso il terrore primigenio della preda. Mi affretto verso la macchina ed è come se percepissi il fiato dei felini sul collo. La chiave, la maledetta chiave non si trova. Rimesto nelle tasche ma non c’è niente da fare, e più passano i secondi più ho l’assoluta certezza che le bestie mi prenderanno. È solo questione di secondi, poi sarà solo carne lacera e dolore. Le chiavi saltano fuori ma è troppo tardi, ne sono consapevole. Il sogno finisce e mi sveglio sudato. Quella sensazione di allerta mi sommerge ancora. 

 Siamo i riflessi dei nostri sogni. Non c’è niente da interpretare, bisogna solo sentire, senza mediazioni e razionalizzazioni. O forse no? 

 - Sei troppo cerebrale, lo sei sempre stato, rilassati. È solo un sogno. 
- E tu sei sempre stata troppo diretta. Però è per questo che mi piaci, perché noi due ci compensiamo. 
- Quindi non ti piaccio per quello che sono, ma per l’effetto che ho su di te? 
- Ecco, qui sei tu quella cerebrale, non ti pare? 
- Sei il mio cervellino preferito. 

 Le voci si perdono nel sibilare del traffico sulla statale che taglia in due la collina, rompendo l’equilibrio verticale della salita e dissipando anche le ultime tracce del fantasma appena rievocato. Buffo come la sostanza di quello che ci tiene in vita durante il sonno sia talmente effimera da disperdersi come fumo. Siamo così poco? Le chiavi di casa si infilano nella toppa mentre rivoli di sudore colano lungo la schiena. Vorrei entrare e ricevere un saluto. 

 - Ciao, bentornato! Vieni qui, dammi un bacio. 

 Dentro è fresco e buio. Mi chiudo la porta alle spalle e rimango nell’ombra, respirando piano e sentendo un fremito che mi percorre come se uno spettro stesse giocando con le mie fibre. La giornata è finita, lascio le scarpe sulle scale dell’ingresso e mi trascino verso il divano. È come se la respirasse ancora, questa casa. 

 - Sono tornato, dico sussurrando, vittima del mio stesso inganno. 

 Mi irrigidisco. Anche oggi farò quello che mi capita di fare da troppo tempo, ogni volta che varco quest’uscio. Manderò via il suo spettro, come uno scaccia fantasmi, impedendomi di pronunciare ad alta voce le frasi che vorrei dire, che vorrei dirle. È così difficile ondeggiare tra realtà e fantasia, tra vividi desideri e dure prese di coscienza. È solo un nome, mi dico. Eppure non riesco a farlo uscire dalla testa. Magari fosse uno di quegli strani fonemi stranieri, forse sarebbe tutto più facile, saprei mettere dei confini netti tra me e ... Eppure no, quella che ho di fronte, seppure nella sua consistenza incorporea, è il mio mondo, il mio universo di riferimenti, la mia mappa concettuale. E mi bracca, mi sta col fiato sul collo facendomi sentire la preda dei suoi capricci, la vittima dei suoi agguati improvvisi. Tiro un profondo respiro. 

 - Anche oggi ti devo mandare via, cara. 

 Accendo le luci. La casa appare, lei scompare. Ci sono solo io, un interno ammobiliato e tutto il resto fuori. Chissà se la mia casa mi assomiglia, vista da un osservatore esterno. Ma va, anche lei, come le case di prima, non è che un involucro vuoto, impersonale, a disposizione della fantasia indisciplinata dei passanti. 
O forse no?
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Ora potrei

Fuori sembra che il sole si stia mangiando tutto. 
“Non mi era mai capitato.” 
“Cosa non ti era mai capitato?” 
“Di non riuscire a farti… Di non essere capace di. Insomma, hai capito.” 
La luce che divora la stanza è appena smorzata dalle tende leggere, immobili nell'aria pesante. Non c’è un filo di vento, eppure un brivido mi percorre il corpo, scorrendo dalle unghie dei piedi al cuoio capelluto. 
“Non sei tu, sono io che sono stanco. E ho altro per la testa” dico bofonchiando, consapevole che certe situazioni richiederebbero un rigido protocollo, non questa stentata improvvisazione. 
“E a cosa pensi?” 
Magari fosse così facile. Ho la sensazione di non avere niente in testa. Mi accendo una sigaretta nella speranza che l’attesa e il fumo smorzino l’imbarazzo che impregna l’aria del salotto. 
“A volte non è facile sapere a cosa si sta pensando. Ho la testa sia piena che vuota. Come se i pensieri, sai, come se tutto quello che penso faccia da tappo”. Dico proprio così, suona piuttosto bene. 
“Ho sbagliato qualcosa?” 
Non ha attecchito. 
“Ma no, che dici?” 
“Non ti piaccio più?” 
È convinta che sia colpa sua. 
“Sei bellissima, lo sai”. 
Non se la beve. Vorrei stare zitto ma tutti questi vuoti sono insopportabili. 
“Guarda che non è colpa tua. Succede. Capita”. 
“E quand'è che capita?!” 
Butta fuori la voce scossa da un improvviso fremito, di botto, come se si fosse rotto l’incantesimo che la teneva invischiata nel torpore di poco prima. Non mi aspettavo tutta questa insistenza. 
“Te l’ho detto, capita quando si ha la testa piena”. 
“Ma cos'hai nella testa?”. Ora è arrabbiata. “Guarda che non sono mica stupida, non dirmi che non ti è venuto duro per caso. Sei un cazzo di fantasma, è chiaro che... che non mi ami più”. 
Eccolo il famigerato punto della questione. 
‘La verità è che non mi piaceva il tuo odore’. Vorrei dirglielo ma sarebbe brutale, oltre che ingiusto: anche io non sono un fiorellino dopo questa giornata lunga e caldissima. Come le è venuto in mente di farlo così all'improvviso, con tutta questa fretta? E poi perché proprio su questo divano che non mi appartiene? 
La guardo: ha messo su il broncio da bambina che compare sempre quando litighiamo. D’un tratto la sua nudità mi appare come una minaccia, come una corazza frapposta tra le nostre intimità separate. Eppure è lei a sentirsi esposta, e infatti si rimette la maglietta senza badare a quale sia il verso giusto. Si rimette solo quella. Mi copro anche io, rialzando i pantaloni rimasti attorcigliati alle caviglie, e tutto pare così tragico e ridicolo che vorrei fare qualcosa - qualsiasi cosa - per smorzare la tensione. 
Invece mi limito a guardare intorno con occhi stanchi mentre lei annaspa di fronte a me, lo sguardo fisso su un punto vuoto oltre il vaso di fiori sul tavolo del soggiorno. Le gambe incrociate lasciano trasparire un ciuffo scuro. Mi scappa un sorrisetto nervoso. 
“Non c’è niente da ridere, sei proprio... cattivo”. 
D’improvviso sento che ora potrei, ma è tardi. Dobbiamo uscire. 

Il lampione davanti a casa proietta riflessi fosforescenti sulle cromature dell’auto. Non ci parliamo. Le faccio segno, sfiorandola, di aspettare che passi una macchina prima di attraversare. Fa uno sbuffo, si sporge oltre il marciapiede e l'automobilista rallenta appena, proseguendo la sua corsa. Lei tira dritto come niente fosse verso il posto del passeggero. È avvolta in un lungo vestito a fiori che lascia la pelle della schiena scoperta, aggrappandosi ai fianchi per poi scendere in caduta libera fino a un paio di sandali color sabbia. I capelli vaporosi ondeggiano sulle spalle, ingoiando la luce nel loro nero profondo. È bella, elegante, sensuale (mentre lo penso deglutisco: ora potrei). L’eleganza non è mai sembrata richiederle troppi sforzi, le viene naturale. Io invece sono un disastro. Mi sbottono il collo della camicia, fa ancora troppo caldo. 

La macchina scorre nel traffico rado della sera. L’ambiente ovattato che si crea all'interno dell’abitacolo mi rilassa, l’aria condizionata diffonde un sentore di plastica nuova e pino silvestre. Lei è muta, il viso nascosto dai capelli, lo sguardo rivolto fuori dal finestrino in ostentata immobilità. 
Un gatto attraversa la carreggiata all'improvviso, inchiodo e sbando, mentre la macchina dietro scarta sulla sinistra superandomi per non centrarmi in pieno, il tutto in un tripudio di clacson. 
“Cazzo!” 
Per un attimo è solo silenzio. 
“È sempre così, sbucano fuori all'improvviso e non ci puoi fare niente”. 
Mi stupisce riascoltare la sua voce. 
“Almeno non l’ho messo sotto”. 
“Sì, ma vediamo di arrivarci interi al Bristol”. 
“Sai che voglia…”. 
“Oggi con le voglie non ci vai forte”. 
Mi pare l’abbia detto con un accenno di sarcasmo. Mi abbandono anche io ad uno sbuffo. “Colpito e affondato”. Le accarezzo la mano, me lo lascia fare. 

Il Bristol è come al solito colmo. I camerieri fluttuano come ectoplasmi tra le luci soffuse, aggirandosi per i tavoli e lanciando cenni di intesa in risposta ad ogni sguardo bisognoso. Qualche strillo eccitato si solleva dalle portate e dalle bevande colorate, contrappuntando il vociare indistinto che ristagna nello spazio e il levare meccanico di un sottofondo musicale lounge. In posti come questo la socialità si concentra e articola intorno alle scelte del drink, alle tonalità dei colori portate alle labbra. Laura e Marco sono già lì, l’uno di fronte all'altra, cellulari alla mano. Soli. Sembrano ondeggiare come canne in una palude, irrorati dai toni bluastri e liquidi degli schermi accesi. È Laura a vederci per prima. Alza un braccio sfoggiando un sorrisetto di sincero sconcerto, come se non si aspettasse di trovarci insieme. “Eccovi finalmente, pensavamo foste scappati via!”. 

Appena prendo posto Laura mi bacia con una certa ostentazione sulla bocca. Nello scostare le labbra dalle mie la sento indugiare, come se stesse cercando di trattenere qualcosa dai miei umori, dei miei segreti. Il suo profumo dolciastro si mescola all'alcool. Ha già bevuto. 
“Grazie di essere andato a prenderla tu”, mi dice Marco. Poi si rivolge a lei, ancora imbronciata ma per motivi nuovi. “Scusa ancora se non sono passato io, ma non saremmo arrivati più questa sera, il traffico è una pazzia”. Tutto è superfluo ma serve per rimettere le cose al loro posto. Non è certo la prima volta che capita. 
“Non ti preoccupare, meglio così, casa nostra è sulla strada”. Mi guarda. “Però il tuo amico stava per investire un gatto”, aggiunge mentre cerca una posizione comoda nella poltroncina di fronte. Marco le stringe un avambraccio per riaffermare un possesso sospeso. “L’importante è che non l’abbiate schiacciato”, fa lui già rivolto verso gli altri tavoli, distratto. 
“Sì, ho detto la stessa cosa...”, risponde lei continuando a fissarmi. 
Passiamo i seguenti minuti a ristabilire le reciproche appartenenze, io col braccio adagiato sullo schienale di Laura, Marco con le dita che accarezzano il polso di lei. Lei, che però si ritrae con una scusa, per capire cosa ordinare. La guardo, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. “Tu cosa bevi?”, mi chiede Laura, e in quella domanda ce ne sono altre mille. Scopi con la nostra amica comune? Te lo ha succhiato bene prima di venire qui? Che senso ha stare insieme dopo tanti anni se non ti interessa che io sia qui con Marco ad aspettarti, mentre tutti pensano che siamo un gruppo di scambisti? C’è nell'aria una tensione collettiva che sembra fare il verso alle tante frustrazioni private. Il tutto si infiltra come una perdita dietro un muro, sgocciolando tra i respiri e i silenzi e il casino gonfio tutt'intorno. Si respira un’elettricità strana quando la rabbia repressa, indicibile, si manifesta in questi piccoli sfiati di nervosismo. 

La tensione e il fastidio di Laura non mi turbano più da anni. Ora penso con un certo grado di convinzione che potrei far saltare tutto, magari allungando esplicitamente un piede verso la caviglia scoperta di lei che sporge dal lato del tavolino e godermi gli effetti imprevisti di quel gesto. Sarebbe sicuramente un buon diversivo. “Per me è uguale”, rispondo, “tu bevi ancora qualcosa?”. Laura si irrigidisce. “Be’, sai, è da quaranta minuti che vi aspettiamo”. Devo essere suonato provocatorio. “Non essere permalosa, era solo una domanda. Magari mi sai consigliare qualcosa, avendo già fatto esperienza”. 
Lei mi guarda, sa di essere al centro del nostro screzio. Ricambio lo sguardo e sorrido. Laura percepisce tutto, mentre Marco si ostina a non prendere parte alla situazione, continuando ad estraniarsi tra i tavoli, le luci, il movimento diffuso del locale, le cameriere solerti e imbronciate. “Tu almeno hai le idee chiare?”, chiedo a Marco. 
Lui si gira ed è come se d’un tratto riacquistasse la sua corporeità, incarnandosi su quella poltroncina scomoda e rispondendomi secco “prendo quello che prende Marta”. 
Lei, Marta, ora è definitivamente al centro dell’attenzione. Laura la accusa di essersi scopata suo marito, Marco le riversa addosso la responsabilità di dover far funzionare una serata inutile tra le tante, io la guardo sorridendo, tenendole gli occhi incollati addosso in cerca di una risposta, di un oracolo. Lei invece abbassa i suoi, che luccicano acquosi nella penombra stagnante del locale. Non ne può più. Anche io ne ho abbastanza. 

Mi alzo. Mi guardano. Prendo la mano di Marta: “mi concedi un ballo?”. Laura diventa viola, Marco mi guarda incredulo, pare divertito ma percepisco un primo fremito di avversione. “Ma che dici? Non sai ballare, tu”. Faccio forza e lei si lascia sollevare, guardando i due al tavolo come per trovare in loro una giustificazione, una possibile strada da percorrere con il loro muto consenso. La trascino via e la porto in fondo al locale, dove poche coppie - gente più matura di noi - stanno muovendosi al ritmo di musica. La stringo cingendole i fianchi. Voglio farle sentire il mio umore. “Ora potrei”, le sussurro all'orecchio. “Ma che dici?”, fa lei guardando verso il nostro tavolino dissimulando tutto il suo imbarazzo. Glielo sento scorrere sotto pelle, l’imbarazzo. “Dico che ora ti prenderei qui, davanti a tutti”. Lo farei davvero se solo me lo chiedesse. Basterebbe anche un leggero aumento della pressione con cui si appoggia incerta alle mie spalle. “Stai facendo il coglione, finiscila. Mi metti in imbarazzo così”. Continua a guardare al tavolo sorridendo, come se stessimo scherzando di qualche battuta come due vecchi amici. La stringo più forte e le sussurro ancora all'orecchio: “andiamo da qualche parte, voglio te soltanto”. Lei si scosta di scatto, lasciandomi solo, eccitato e impotente, tra le altre coppie in movimento. Marta è ferma, immobile, mi guarda. Esprime così tante cose assieme che pare congelata, sembra una statua di sale. Con la coda dell’occhio scorgo Laura mentre si alza ed esce. Marco si decide a smuovere quella sua posa pigra ed ecco che inizia a venirci lentamente incontro, senza però dar l’impressione di avere un vero motivo per portare un passo davanti all'altro. Marta mi guarda ancora, ma ora lo fa con intensità. Quell'intensità mi gela il sangue nelle vene. Rimango sbigottito di fronte al suo muto giudizio, al suo disprezzo, alla sua condanna senza appello, alla sua decisione che non necessita di parole. Ho solo un unico pensiero sconnesso e ossessivo in testa, anche lui raggelato, incastrato come un loop su un nastro magnetico danneggiato. Più gira nella testa più si fa labile e impreciso. “Ora potrei... Ora potr i... Or p tr i... Or p t i”. 
Poi perdo anche quell'ultimo rimasuglio e lei non mi guarda più. 

“È tardi, ora. Troppo tardi. Lo è sempre stato in fondo”, dice. E fa quello che avrei dovuto fare io molto prima. Marta esce dal Bristol scartando suo marito che, sorpreso a metà strada, si irrigidisce senza più sapere come dare un seguito alla sua ormai inutile avanzata. Non sapendo se continuare o arretrare si blocca tra i tavolini. Anche io sono fermo. Lo guardo. Nei suoi occhi galleggianti leggo il riflesso speculare di una consapevolezza che inizia a farsi strada, materializzandosi nei miasmi dei commenti e dei risolini tutto intorno: da qui non si torna più indietro. Nella manciata di secondi in cui tutto questo accade penso che a volte la cosa migliore è prendersi del tempo. Mi lascio cadere su uno sgabello a poca distanza dal bancone del bar. Chiedo finalmente un drink, uno qualsiasi. Poi lo guardo ancora, Marco. Mi sembra che stia dissolvendosi, sfumando come uno spettro. 
Sorrido. Ora sì, ora potrei.
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