L’aereo traballa e scuote le anime a tutti. Per un attimo siamo un concentrato di terrore. Sento che perdiamo quota quel tanto che basta per rimescolare la colazione nello stomaco. Poi il volo si assesta e riprende stabilità. La gente sorride, qualcuno fa lo spaccone. Però ci siamo tutti cagati sotto, perché nessuno pensa mai che si possa finire così, da un momento all’altro. E invece, a volte, si finisce così, da un momento all’altro. Ho stretto i poggiagomiti più del dovuto, ho le dita indolenzite. Guardo fuori, controllo il respiro e rimetto le cuffiette. C’è un mare di nuvole che sembrano colline. Non ascolto mai la musica durante il decollo perché non voglio perdermi nessun dettaglio in un momento tanto importante. Non so come faccia la gente ad addormentarsi appena salita a bordo. Ma davvero sono tutti così insensibili al loro destino, a quello che potrebbe capitare a loro insaputa?
Hanno annunciato che è di nuovo possibile sganciare le cinture di sicurezza. Non lo faccio. Sono ancora teso, anche se il motivo non è più il rischio di precipitare. Sono irrequieto perché tra poche ore sarò seduto ad una scrivania a parlare in una lingua straniera. Non è tanto il colloquio di lavoro a mettermi ansia, certe cose le so gestire bene. È più che altro la possibilità che vada tutto secondo i miei piani a darmi una scossa lungo la spina dorsale. Mi sono preparato a questo momento con grande dedizione. Giornate regolari, orari serrati, pochi, pochissimi strappi alla regola. Adesso però mi rendo conto che coltivare un obiettivo è più soddisfacente che raggiungerlo. Nel migliore dei casi mi troverò a star seduto per otto ore al giorno davanti a uno schermo in una città straniera, e dopo qualche mese di eccitazione anche questa novità diventerà ordinaria amministrazione.
Il pilota riesce a far scivolare l’aereo sulla pista senza nemmeno uno scossone, come per scusarsi dello spavento di un’ora fa. Grazie, dal profondo del cuore.
Vienna mi accoglie sempre ostentando una certa durezza, nonostante il clima mite della primavera. Nonostante la vita universitaria attorno a Votivkirche, gli aperitivi lungo il Donaukanal, le passeggiate al Prater, le colline verdeggianti sopra Grinzing, questa è una città dura, austera, che sorride poco, o così mi è sempre sembrato. Lo sguardo categorico dei palazzi lungo la Ringstrasse, o i monumenti imperiosi del centro, impongono il loro primato sopra ogni relazione, incastonando nello spazio le pose, i movimenti dei passanti. Come in una morsa. Anche i secessionisti avevano il loro mausoleo neoclassico, in fondo, e in loro dominava il primato della forma. E che dire di Strauss?
Questa volta, però, è la periferia che mi aspetta, e quella è uguale in ogni città europea. Percorro un lungo vialone che si lascia alle spalle ogni sfarzo mettendo in fila basse casette a schiera e capannoni commerciali. Lavorerò qui, se passo il colloquio. Ho già avuto modo di parlare con il responsabile della filiale in un paio di call, tutto è andato bene. Oggi incontrerò il direttore generale, un signore sui cinquant’anni che vive a Berlino e viaggia molto. Le porte scorrevoli della sede aziendale scorrono e dentro fa fresco e c’è un profumo gradevole, indecifrabile, come di macchina nuova e dopobarba. La segretaria mi fa cenno di attendere su una poltroncina in finta pelle color crema che stride all’attrito del mio corpo. Incrocio le gambe, sento un leggero odore di sudore e tasto sotto le ascelle senza farmi notare. Sono sudato. Dovrei andare in bagno e magari fare anche la pipì, così da allentare ogni tensione. Non faccio in tempo ad alzarmi che appare un uomo alto, vagamente sformato sui fianchi, con i capelli biondi tagliati corti e una camicia senza cravatta. Ha una faccia rossa e tonda che ispira simpatia. Infatti sorride e mi stringe la mano.
Lei deve essere il nostro uomo, mi fa.
Spero proprio di sì, rispondo io.
Il suo inglese è un tantino spigoloso sugli angoli, il mio morbido nelle consonanti. Ecco le differenze nazionali raggrumate in una questione di sfumature.
Ci avviamo verso una sala spaziosa, con grandi vetrate che danno sul cortiletto interno. Prima di entrare passiamo accanto a una porta dove è ben visibile l’effige stilizzata di un ometto. Avrei fatto meglio ad andare in bagno. Quando ci sediamo la cintura preme sul ventre e mi accorgo di avere la vescica colma.
Ha fatto un buon viaggio? chiede.
Si, anche se per un attimo ho creduto che non saremmo mai atterrati, rispondo.
Ha paura di volare? Sa, è una cosa comune. Ma ci si abitua a tutto, fa lui guardando l’ora.
La responsabile del personale, una donna bellissima che avrà dieci anni meno di me, compare alle nostre spalle, chiedendo scusa per il ritardo. Mi devo alzare per stringerle la mano. Ha una stretta vigorosa che sostengo trattenendo un’espressione di sconcerto. Sono al limite. E sono sudato.
Ora che ci siamo tutti, riprende il direttore con un gran sorriso, possiamo iniziare. Corinne, vuole aprire le danze?
Mentre lei snocciola informazioni sul piano di ampliamento dell’organico e le strategie di networking con le realtà innovative di Vienna, io sono tutto concentrato sul basso ventre. Stringo le pareti pelviche e mi deve sfuggire una smorfia, perché il direttore mi guarda e mi chiede se vada tutto bene.
Certo, certo. Prego, continuate pure, dico impegnandomi per eliminare il tremolio della voce.
Non posso chiedere di andare in bagno, non siamo alle scuole elementari.
Quando Corinne finisce di parlare il direttore sembra soddisfatto.
Lei parla tre lingue, dico bene? mi chiede.
Sì, è corretto. Mi sono specializzato nel Regno Unito, taglio corto.
Ma conosce anche il francese, giusto? Ci dica di più sul suo profilo professionale. La conoscenza delle lingue è un plus significativo, ma lei è un ingegnere altamente specializzato a quanto mi ha comunicato il dottor Steiner.
È esatto, bofonchio. Avevo preparato una lunga relazione sulla mia esperienza nel campo del cloud computing e sulla creazione di reti di scambio tra realtà innovative, ma non ce la posso fare. Sono un bagno di sudore.
Lei non sta bene. Le porto dell'acqua.
Il direttore riempie un bicchiere servendosi di una caraffa posta al centro del tavolone al quale siamo seduti. Il liquido scroscia rumorosamente e un po’ d’acqua straborda e bagna la superficie di legno smaltato. Quando mi porge il bicchiere sento che sto per cedere.
Mi scusi, dov’è il bagno? chiedo disperato.
Lo dicevo che sta male, asserisce convinto il direttore.
No, no, sto bene. Devo solo fare pipì.
La donna abbassa lo sguardo, piena di giudizio.
È proprio qui fuori, squittisce il direttore facendosi serio.
In un attimo sono fuori, corro letteralmente al cesso. La zip non si apre come dovrebbe e per un secondo penso che finirà malissimo. Poi, però, tutto scorre. Un flusso continuo, infinito, liberatorio. Non sono mai stato così bene mentre il sudore sulla schiena si condensa in goccioline fredde catturate dal tessuto della camicia. Ho la percezione di essere stato dentro almeno dieci minuti quando, finalmente, esco. Rinato.
Apro la porta della sala riunioni e gli occhi severi dei due mi trafiggono. Seduto al tavolo, al mio posto, c’è un giovane con la barbetta rossa, con le gambe incrociate e l’orlo dei pantaloni che lascia intravedere dei calzini blu elettrici.
Le faremo sapere, ora siamo nel pieno delle selezioni, mi inchioda il direttore.
Nemmeno a dirlo, saluto e esco. Prima di varcare le porte scorrevoli la segretaria mi guarda e sento che capisce. Cosa, non lo so.
Credo che andrò in centro, cercherò una stanza lì. Disdico la prenotazione nell’hotel vicino all’aeroporto, anche se non ho diritto al rimborso. Passeggerò tra i palazzi del centro, mi farò portare in alto dalle vertiginose torri della Cattedrale di Santo Stefano, mi perderò tra i turisti, facendomi inglobare dallo spazio, dall’ordine centenario dell’Impero che continua a impartire il suo sguardo severo sui negozi, sui caffè storici. Poi mi fermerò in un dehors a caso e mi berrò una birra o due. Domani si torna a casa, se tutto procede secondo i piani.
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