Due dischi (più uno). Il 2024 secondo Matteo Losi e Marco Biasio.


Il 2024 è già un ricordo, ma quando due firme della storica webzine StoriadellaMusica si riuniscono per parlare di musica vale la pena tornare a volgere, anche solo per un attimo, lo sguardo all'indietro. Nessuna operazione nostalgia, badate bene. Qui c'è solo roba freschissima. Matteo Losi e Marco Biasio ci regalano le loro considerazioni su due album che hanno caratterizzato i loro rispettivi ascolti durante l'anno appena trascorso. E il sottoscritto? Ovviamente non potevo esimermi dal partecipare al gioco, ed ecco che i dischi consigliati diventano tre.  

DILLOM – POR CESAREA (BOHEMIAN GROOVE)
Matteo Losi

Il festival Buenos Aires Trap, svoltosi il 7 e 8 Dicembre, ha richiamato più di centomila spettatori e simbolicamente consacrato, con tutte le sue contraddizioni, il ruolo primario del genere nei gusti delle nuove generazioni non solo argentine ma di gran parte dell'America Ispanica. Il ventitreenne Dillom è tra i massimi esponenti di questa cosiddetta “seconda ondata” dell'hip hop argentino insieme a Wos, entrambi artefici di proposte musicali ben più variegate/pregnanti della media. Dillom, in particolare, parla una lingua ibrida dove experimental hip hop e horrorcore convivono con l'indie rock, il trip hop, la trap, il latin alternative, il soul psichedelico

L'attesissimo secondo album “Por Cesárea” è coronazione del suo teatro delle crudeltà imbevuto di pop art, snocciolando in poco più di 35 minuti psicosi individuali che si fanno collettive (il punk dalle striature noise “Coyote”), disfunzionalità emotive (la ballad elettrica “Cirugía”), fragili sogni (“Ciudad De La Paz”, tra le più grandi (art) pop song mai incise). Non tanto una spirale discendente quanto un sistema di fratture spazio-temporali, che dall'orrorifico prologo “Ultimamente” (il tentato suicidio della madre del protagonista e le pillole lasciategli in “eredità” come motore del concept) testimoniano il disgregarsi della mente, delle forme, del reale, per giungere infine al miraggio di una possibile, salvifica riaffermazione dell'individuo e dell'arte (ancora “Ciudad De La Paz”). 

Specchio di tali premesse, i brani mutano in continuazione, alternando diverse sezioni e differenti setting strumentali: “Carie” deflagra senza preavviso in un crescendo orchestrale da thriller; il rap rock di “Buenos Tiempos” si liquefà in trap catatonica con voci mostruosamente deformate; la strumentale “Irreversible”, vero “cuore” di tenebra del disco, esordisce giustappunto con battito cardiaco e ansimi per evolvere in marziale cattedrale industrial. Dillom abita questi scenari con un flow mortifero/ciondolante e un cantato fragile ma aggraziato, laddove produttori di polso come Fermín Ugarte e Luis Tomás La Madrid, entrambi ben noti nell'ambiente, offrono un fondamentale contributo nel dare consistenza/fruibilità al patchwork. 

Di rilievo anche i due featuring vocali: l'icona del rock latino Andrés Calamaro nel downtempo noir “Mi Peor Enemigo”, e la pop singer/attrice Lila che in “Carie” intona i primi quattro versi di “Plegaria Desvelada” (1976), canzone originariamente composta ed eseguita dalla scrittrice/poetessa/compositrice María Elena Walsh, altra figura d'importanza incommensurabile nella cultura argentina. 


THE JESUS LIZARD – RACK (IPECAC) 
Marco Biasio 

Complicatissimo parlare oggi di un nuovo disco di inediti dei Jesus Lizard, il primo a ventisei anni di distanza da quel “Blue” che, con la pervasiva mestizia dei fine utopia (e con un pugno di canzoni obiettivamente, serenamente definibili non all’altezza del repertorio dei primi Noughties), aveva temporaneamente consegnato ai posteri l’avventura rivoluzionaria del quartetto di Austin, Texas. Per quanto, in barba all’inesorabile scorrere del tempo, sogni ancora di (trovare dentro di me il coraggio necessario per) lanciare tutte le pietre che quotidianamente carezzano la mia faccia, ogni giudizio più o meno ponderato su “Rack” sembrerebbe poter sfidare la tacita tenuta del quieto comun vivere (ma quale quieto comun vivere?). “Rack” è un capolavoro!, digita entusiasta Scribacchino 1; ci piaci / di più / appeso a testa in giù! ribatte composta la folla di chi ancora non ha digerito l’attacco di “Then Comes Dudley” (non fate loro sentire “Hide & Seek” o “What If?”, altrimenti vanno in iperventilazione). “Rack” è una merda!, si affretta a correggere Scribacchino 2; ecco l’ennesimo snob del cazzo!, rincara la dose la torma di quelli che non si ricordano mai se qualcun altro si scriva con o senza apostrofo (sarebbe riuscita la buona anima di Serianni a dire “senza” prima di prendersi del prescrittivista?). Bellino “Rack”, ma volete mettere “Goat” o “Liar”!, chioserebbe allora con prudenza strategica Scribacchino 3; un peccato di pleonastico fanfanismo che tuttavia, agli occhi del neomanicheismo turbocapitalista, suona peggio che sparare ad un cervo zoppo e legato in un armadio davanti ad una convention di fruttariani. 

Insomma, comunque la si pensi, integri non se ne esce. Ma proprio perché integri non se ne esce, chi in questo momento si sta rendendo responsabile dell’ecocidio di intere foreste virtuali per il tornaconto di nessuno vorrebbe aggravare volontariamente la propria posizione, popolando il manoscritto che va componendosi con postille egoriferite a margine. Ad esempio: “Hide & Seek”, primo singolo estratto e brano trainante dell’intero disco, si colloca senza alcun dubbio tra i dieci pezzi che più ho ascoltato nel corso del 2024. Perché? Beh, esattamente perché è un pezzo dei Jesus Lizard: una tonitruante cannonata punk che confina a forza il boogie woogie sulla sedia elettrica e lo passa da parte a parte con lame post-core (inconfondibili le invenzioni chitarristiche di Duane Denison, uno che di anni, tra parentesi-non-parentesi, ne sta per fare sessantasei). Per chi a leggere ‘punk’ pensa male immaginando di azzeccarci e subodora la più classica delle timbrate al cartellino, ecco un uno-due che metterebbe in ginocchio persino il più protervo maranza di Pioltello: da un lato il licantropesco crooning hc di “Falling Down” (stop and go! stop and go!), dall’altro lo schiumante r’n’r pneumatico di “Moto(R)” (palm! muting! palm! muting!). C’è chi va alla ricerca del tempo perduto e chi invece, par di capire, di tempo da perdere non ne ha più, anche quando l’estetica del cazzotto si sublima in una sua paranoica ipostasi (il caracollante noise-blues di “Armistice Day”) o il re si denuda in un luciferino monologo al bromuro che vede gli Oxbow sbronzarsi assieme ai For Carnation (“What If?” sta a ricordarci che uno degli ultimi dischi controfirmati dalla sei corde di Denison è il sottovalutato comeback dei Tomahawk, “Tonic Immobility”). 

Ha un bel da fare Scribacchino 4 per non corteggiare ulteriormente l’estetica dei meta-non sequitur e, al contempo, non far trasparire troppo del suo pensiero originale. Euristica forse ruffiana, ma efficace: se l’accolita del capopopolino Yow vi faceva venire l’orticaria già ai tempi d’oro, “Rack” non farà altro che gettare chicchi di sale rosa himalayano sui bordi rimarginati delle vostre ferite immaginate, specialmente quando il fantasma del Natale passato torna a manifestarsi con l’insidiosa pervasività delle rugginose progressioni morse di “Goat” (“Alexis Feels Sick”), dallo scalcagnato palco di un cabaret pentatonico Yow torna a pisciare sul gessato degli ambasciatori argentini di turno (“Lady Godiva”) o la dissonanza noise si sgretola in un muro di suono impressionistico ove qui e lì baluginano barbagli di melodia storta (“Is That Your Hand?”). Un appunto conclusivo, però, quello sì: quel gioiello post-crimsoniano di “Cost Of Living” doveva assolutamente trovare posto nella tracklist finale! 


HALEY HEYNDERICKX – SEED OF A SEED (BIG MAMA) 
Matteo Castello 

Perché tutti a volte abbiamo bisogno di un senso della tradizione, ed io ho bisogno di una mente silenziosa in un’inondazione di consumi”. Ecco, eccolo il punto della faccenda. Lo canta Haley Heynderickx, artista di Portland al di fuori dei radar nostrani, nella bellissima “Seed of a Seed”, da cui prende il nome il secondo lavoro, uscito a novembre per l’indipendente Mama Bird. E se ai tempi dell’esordio la necessità dichiarata era quella di coltivare un giardino ("I Need to Start a Garden", 2018), ora sembra proprio arrivato il momento della contemplazione, della calma, della raccolta. 

Quello che colpisce, in un lavoro così imbevuto di questa ricerca di un “senso della tradizione” (un senso ovviamente spurio, ibrido, reimmaginato: un bisogno profondo) è proprio la vitalità che lega lo sviluppo e l’espressività dei brani ad una contemporaneità che traspare, in negativo, tra visioni bucoliche e sogni ad occhi aperti, tra metafore panteiste e istantanee di storie familiari dai contorni ancestrali: una poetica frutto della gemmazione di un innesto tra narrativa americana escapista, realismo magico alla Toni Morrison e figlie delle figlie (seed of a seed of seed) di tutto quello che va da Linda Perhacs all’indiefolk degli ultimi anni. Il senso di Heynderickx per il songwriting è graziosamente artigianale, volutamente irregolare ma cesellato e impreziosito da una visione autentica, da una manualità gentile ed attenta. Arpeggi tondi che si diramano in contorsioni da piante rampicanti, arrangiamenti sontuosi al miele, vocalizzi limpidi che risuonano al meglio in spazi aperti. 

E allora come interpretare la richiesta di scuse di “Sorry Fahey”? Non certo come un senso di inadeguatezza tecnico-stilistica, anche perché la tecnica altro non è che il rapporto vivo tra le pratiche e il proprio tempo. Forse è la consapevolezza, invece, di una distanza storica, di un guasto più generale, insanabile, che vanifica ogni tentativo di fuga immaginaria (“I won’t buy it today”). Nonostante tutto, però, “daydream dies slow”: forse vale la pena fare il tentativo di protrarre ancora per un po’ l’incanto, di mettere in luce la contraddizione, di scacciare le seduzioni storte di ciò che preme appena al di fuori della stanza, o oltre il giardino. L’arte fa questo, trasfigura e critica. E Haley Heynderickx continua a rinnovare l’incanto.
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Tramontana

È da venti minuti buoni che aspetto. La cittadina che nella stagione estiva ribolle di persone ora sembra rattrappita nell’aria gelida dell’inverno. Soffia un vento di tramontana che si propaga tra i caruggi e i portici illuminati di un arancio fioco. La pietra del lastricato è scura e riluce, umida, mentre cerco di affondare nel cappotto, nascondendo la faccia nel bavero. 
Era da molto che non tornavo qui. 

Questo paesino di riviera riscopre una sua dura fierezza, d’inverno. Come se fosse costretto a guardarsi allo specchio dopo la baldoria, snaturato e infastidito dalle fiumane agostane, irretito dalle pretese dei turisti di trovare approvazione nelle prostrazioni riverenti dei venditori di vacanze, riscoprendosi l’eterno covo di pescatori. 
Una volta era tutto più semplice, i villeggianti avevano pretese meno simboliche. L'alberghetto dove lavoravo era tutto tranne che simbolico. Le premesse erano chiare: mangiare, dormire, punto. Nessuna aspettativa di vivere un’esperienza, o di essere vezzeggiati come stupidi piccoli budda all’ingrasso. Forse sto esagerando, a quel tempo ero giovane e il mio lavoro era un fatto di necessità, di fame d’indipendenza. Stavo in cucina e cucinavo, niente di più. Cucinavo quello che mi avevano insegnato e, in parte, quello che improvvisavo grazie all’eredità assorbita dal mio entroterra brusco, deindustrializzato. 

Chissà come è cambiata la signora Carla. La ricordo piccola e tenace, capace di mandare avanti la struttura senza fiatare, a testa bassa. C’era lei dietro alla pulizia delle camere, alla lista della spesa, alla gestione delle prenotazioni, alle faccende di contabilità, al servizio in sala. Passavano giornate intere senza vederla di persona, incappando però nei molteplici ed inequivocabili segni del suo passaggio. Il marito, dal canto suo, era il factotum dell’albergo. Risolveva i problemi, aggiustava le cose, rifocillava gli animi. All’inizio mi aiutava in cucina, poi aveva capito di preferire il rapporto con la clientela. E gli piaceva sentirsi utile, purché l’utilità fosse qualcosa di ben tangibile. Io dopotutto ero bravo, nel giro di qualche mese gestivo da solo la piccola brigata dietro ai fornelli. 

- Beviamoci una cosa. Quasi non mi ha salutato. Una pacca sulla spalla e gli occhi bassi. È passato troppo tempo. Nel frattempo è cambiato tutto. Però anche lui sa che serate come questa non sono fatte per star fuori nel nulla a prendere freddo. E io ho aspettato abbastanza qui nel mio giaccone sformato. Il posto dove ci sediamo è un bar qualunque, uno di quelli dove trovi di tutto, perché la sua funzione è quella di dare da bere alla gente che non ha voglia di starsene a casa. E allora beviamo. Non ci diciamo una parola. Lui saluta qualche avventore, scambia due parole di rito con la barista che lo chiama ancora figgeu. A me invece non mi conosce più nessuno. 
Finalmente, finito il primo bicchiere e iniziato il secondo, si scuote. 
- Ricordi? 
- Belin se ricordo. Bei tempi. 
- Sì, perché eravamo giovani e non ce ne fregava un cazzo. Ricordi quel viaggio? 
Sorrido. Scappati in Francia da un giorno all’altro perché a lui l’aveva mollato la ragazza. Per partire avevo lasciato anche la mia, tanto una valeva l’altra. Alla fine non avevamo nemmeno i soldi per fare l’ultimo pieno, ci siamo giocati cinquantamila lire a calcio con un gruppo di francesi senza nemmeno una posta da puntare. I nostri avversari sono andati sulla fiducia ed erano pronti a prendersi la macchina come trofeo, o che ne so io. Però abbiamo vinto. 
- Abbiamo vinto quella volta, dico come illuminato. 
- Quella volta sì. Mi risponde tornando a guardarsi le scarpe. 

Quando usciamo camminiamo verso il mare, ripercorrendo i viottoli che inghiottono i nostri passi sordi. Evitiamo di passare lì davanti, a nessuno fa piacere vedere quel posto ora, così diverso ed estraneo. Sono stato io a prendermi cura di tutto quando il proprietario è stato male all’improvviso. Per fortuna la stagione era agli sgoccioli, rimanevano pochi clienti, gente che frequentava l’albergo da decenni e che sceglieva quella stagione crepuscolare per lasciarsi cullare nel torpore della luce preautunnale, per godere degli spazi liberati e placati dopo le invasioni barbariche, riscoprendo un'intimità possibile solo in quel periodo dell’anno. L’albergo aveva un suono diverso in quei giorni. Dalle scale del primo piano si sentivano tintinnare le vettovaglie giù in sala, i profumi della cena si propagavano nella penombra desolata della hall deserta, i pochi avventori entravano e uscivano a ritmi regolari come in una pensione, li si sentiva calpestare il corridoio mollemente, adagio. Una volta partito l’ultimo cliente non era rimasto che pulire a fondo la cucina, rassettare le camere, stipare la biancheria dopo svariati cicli di lavaggio (il profumo di bucato aveva ammantato per giorni il perimetro dell’albergo), controllare le ultime bolle e saldare i conti in sospeso. E poi le telefonate per avvisare i clienti abituali della situazione. Riaprite la prossima estate? Non si sa, speremu. Ero stato colmato da un sentimento sacro nello svolgere quel compito, l’avevo officiato come un rito, prendendomi del tempo, facendo le cose con estrema cura. Al momento di girare la chiave del portone di ingresso, dopo aver chiuso le ante e staccato la corrente, mi sono sentito un nodo in gola. Avrei voluto recitare una preghiera, come alla fine di una veglia funebre. Invece ho lasciato il mazzo nella cassettina della posta e sono tornato a casa masticando una mezza bestemmia. 

- Ci tenevamo a ringraziarti. La mamma, sai, non è più tornata qui. E tu non so cos’hai fatto, dopo. Ma alla fine siamo tutti andati avanti. Ci tenevamo a ringraziarti... 
Lo bofonchia con le mani infilate nei tasconi della giacca, guardando fisso il mare che si gonfia e si sgonfia come una creatura severa e mansueta. Poi mi porge un documento da firmare. Siamo qui per questo, serve la mia dichiarazione di non avere crediti nei confronti degli ex proprietari. La chiusura dell’attività è stata gestita in modo frettoloso, brusco. 
Firmo. Guardo anche io la distesa nera adattando il respiro all’ondeggiare della marea. 
- Io invece volevo dirti che i Liguori prima di partire si sono raccomandati di far aggiustare la finestra della numero 6, che passano gli spifferi. E il rubinetto della 3 sgocciola, il signor Gino non ci dormiva, la notte. Ho provato a darci un po’ di giri di chiave ma non serve. E Walter non vede l’ora di andare a totani con il gozzo del papà, di notte, come tutti gli anni. Dice che se la pesca va bene offre lui la frittura a tutta la sala. 
Mi guarda per la prima volta negli occhi, come scosso dal torpore. Strizza le palpebre e accenna un sorrisetto. 
- Ti o saiæ proprio nescio! 
- Io vado di qua. 
- Io dall’altra parte. 

Ci salutiamo, la stretta di mano questa volta più forte, in qualche modo definitiva. Quel che era da fare è stato fatto. 
Ripercorro i vicoli. Non passo lì davanti, prendo altre strade, come sto facendo da anni ormai. Pensavo di essermi lasciato alle spalle questo mondo, eppure sento che questa cittadina, quest’atmosfera sospesa nel freddo pungente di gennaio, mi vibra sotto la pelle. Alzo il bavero e mi chiudo nel cappotto. Queste folate di tramontana sanno entrarti dentro più di certi ricordi, a volte.
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Rimini

 Che orrore, che orrore questo entusiasmo riversato in faccende che non mutano di una virgola l’equilibrio del mondo. Eppure l’impegno che esonda tutt’intorno, che tracima da questi personaggi affannosi, lanciati a testa bassa verso una qualche strada maestra, verso un senso da dare alla propria vita, una vocazione da cavare fuori da qualsiasi cosa purché sia, ecco, questo chiassoso celebrare il proprio sforzo di stare al mondo mi provoca un prurito, un rigetto, un malessere che esonda, riempie ogni fibra e sollecita un fastidio impudico, sprezzante, forse anche ingiusto. 

 La spiaggia è infinita. Cammino da ore sul bagnasciuga riminese mentre i giovani si radunano attorno a innumerevoli sound system pulsanti messi in fila uno dopo l’altro, uno per ogni stabilimento balneare. Molteplici e uguali. Sono tutti euforici mentre il sole si abbassa all’orizzonte e il caldo allenta la morsa implacabile di questi giorni, lasciando spazio a una brezza leggera che scompiglia appena i capelli, asciuga il sudore e diffonde nell’aria gli odori di sigarette accese, di profumi caotici, di mare e salmastro. Un mare basso e macchiato di mucillagine verdastra. È sabato, la gente si vuole divertire, e questo è il tipo di divertimento più consono. C’è una bella conchiglia, la raccolgo. Può sempre servire una conchiglia. 

 La musica, i balli, l’euforia, le pelli abbronzate, sane e seducenti, eppure tutto stride come un costante acufene dei sensi. Sento che chiunque, dico chiunque, ha abbracciato una forma di esistenza che è un affronto a ciò che è desiderabile. È come se una vocina nella testa ci costringesse, senza esercitare alcuna coercizione palese, ma anzi titillandoci gentilmente, esponendoci a una continua sollecitazione (un solletico a fior di pelle), a fare della nostra vita una cieca corsa in avanti, un severo praticantato a ostacoli. L'ambizione ha soppiantato il desiderio, e la parabola dei talenti è diventata il metro della nostra autopercezione. Se non hai un’ambizione a cui votare la tua immagine pubblica non sei niente, se non valorizzi la tua vocazione non puoi nemmeno dire di essere davvero qualcosa, di avere una personalità, un’identità (il che è strano: essere identici a sé stessi è una tautologia).

[ Terminologia obbligatoria per costruire il sé contemporaneo: 
- Vocazione; 
 - Ambizione; 
 - Autovalorizzazione; 
 - Impegno; 
 - Motivazione; 
 - Esperienza; 
 - Personalità; 
 - Identità. ]

 In realtà però ci identifichiamo con una sostanza aliena, con una bambagia estranea e pruriginosa di cui siamo stati imbottiti e che nutriamo dedicandole ogni nostro pensiero ed energia. E così, pensando di aver chiuso il cerchio, illudendoci di essere allo specchio con la nostra immagine più autentica, non ci accorgiamo invece di stare al cospetto di qualcos’altro da noi, un parassita che ci divora e si impone in tutto il suo bisogno di attenzioni. Una volta incastrati nella trappola non se ne esce: il gioco delle parti si struttura su questa rete di attese reciproche fondate su un virus inoculato a tradimento. 

 Mentre cammino - la ruota panoramica sempre più vicina - penso a due cose, la terza non si può dire. La prima è che amo quando i comici, nel bel mezzo del loro spettacolo, non riescono a trattenersi dal ridere della propria battuta. La seconda è che mi commuovono i gesti di fair-play sportivi. E non sono uno che segue lo sport. In un caso e nell’altro c’è un doppio movimento, una dialettica, quella del ritorno in sé susseguente all’uscita dal proprio ruolo, quella della riscoperta dell’altro al di fuori delle leggi che regolano il gioco. C’è l’umanità che riaffiora, che si impone. 

 Rimini è un po’ così: un continuo tornare a sé dopo essersi allontanati. Il lungomare caotico e dozzinale, sterminato e insensato, si trasfigura nella quieta e sonnacchiosa austerità del centro storico, tra piazze medievali e vicoli di pescatori, resti di antichità romane e tipici scorci da entroterra romagnolo (vicoli, portici, colori tenui di mattoni e pietre, cielo aperto). Qui sì è bello perdersi, di quelle perdite fatte di piccoli abbandoni, non di stordimenti ottusi. Non quel sentirmi reciso che percepisco su questa spiaggia che rimbomba. A Rimini ondeggio indolente tra le promesse disattese della vita balneare e le vedute del centro, “tra gelati e bandiere”, i pensieri ridotti a un nocciolo schiacciato e atterrito dal caldo e dall’attesa, da un’attitudine vaga alla pazienza impostami dal viaggio, dall’essere qui per caso, per poco, specchiato nei riflessi acquatici di Castel Sismondo, dove una sera ho immerso i piedi, oppure appoggiato ai parapetti del ponte di Tiberio, dove il cielo si apre immensamente. E poi i lunghi bastioni che costeggiano il canale, portando fino alla darsena e – ancora – alla ruota panoramica, costeggiati da imbarcazioni e chiatte, relitti da pesca, piccole navi cargo, traghetti turistici, yacht sontuosi, e quella sabbia fine della spiaggia infinita, color ocra, che si appiccica ai piedi e non va più via. Non va più via come questo fastidio, questo benessere, questa pace, questa inquietudine, questa sospensione vacanziera, questo orrore che rimane, che cresce.
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Ahmed

“Avete notato come mi guarda?” dice Canetti sollevandosi sui gomiti, tossicchiando e raspando. 
La stanza, disordinata e in penombra, è immersa in una spessa coltre di fumo, ma non importa, perché i genitori di Lonero non sono in casa, ci sarà tutto il tempo per fare aria. E poi fuori fa freddo. 
“Che robaccia avete comprato? Gratta come il mio cinquantino”. 
“Chi è che ti guarda?” 
“Sì fa cagare, ma che pretendi, Ahmed ultimamente ha cambiato giro”. Lonero quando dice le cose le dice come se fosse uscito da una bisca clandestina. 
“E chi è Ahmed?”. L’unico che fa domande è il Bambi, stracciato ai piedi del letto con lo sguardo fisso al soffitto. 
Lo sbuffo strafottente di risposta è di Lonero, come a dire, chi vuoi che sia, che domanda è?, che poi conclude tutto in un risolino perché in fondo che importa. 
“Guarda che non è marocchino quello lì. La mamma è più italiana di te, Lonero. E non si chiama Ahmed”. Canetti su certe cose è preciso e non tollera che si scambi questo per quello. 
Fuori le ombre del pomeriggio stanno facendosi sempre più oblique, eccetera eccetera, perché si sta facendo sera. 
“Chi è che ti guarda?” 
“Quando?” 
“Ma sei stupido, Canetti? Hai detto che qualcuno ti guarda.” 
“Tutti a lamentarvi che il fumo fa schifo però siete belli in botta”, ridacchia Lonero, che si sta schiacciando un foruncolo sulla spalla con estrema dedizione. Riesce a far sembrare tutto normale, Lonero. 
“E comunque ha la pelle scura. La mamma no, ma il papà secondo me è marocchino, o pakistano, chennesò. Ma non è italiano, cioè non del tutto, per quello che importa”. De Giacomi sta in piedi, quasi sempre. Anche a scuola è difficile farlo stare seduto. E se è seduto sembra che una forza lo pungoli di continuo. Non sta mai fermo, con quelle gambe sempre contratte in spasmi di impazienza. 
“Pakistan, Marocco, siam lì eh? Sei l’unico che non fuma tu, apposto stiamo”. Lonero ride sempre, ma sottilmente, come se buona parte della risata rimanesse incastrata dentro. 

“Il prof Tondelli, è lui che mi guarda”. 

Quando il gruppo è riunito si può dire più o meno tutto, più o meno in qualsiasi ordine, più o meno lasciando da parte la pretese di dover dire le cose in un certo modo per sembrare qualcuno che non si è. Insomma, il gruppo è fidato, una fiducia che si consolida in momenti come questo, in cui è vitale essere come un corpo solo, un solo cervello, nel segno di una complicità assoluta. Saltare la scuola in quattro, tutti assieme, non è stata una grande idea. Ma è stata un’idea condivisa, e questo è quello che conta. 

“L’altro giorno, quando mi interrogava, non mi mollava un attimo. Non lo sopporto”. Canetti a volte è capace di rabbuiarsi e rimestare, e in quei momenti il suo volto da ragazzino si fa improvvisamente adulto, deformato dal peso di certi pensieri improvvisi. 
“E chi doveva guardare mentre ti interrogava?”, bofonchia il Bambi. 
Nella stanza per un attimo tutto si è fermato. I tre guardano Canetti e si chiedono se quella sia una storia per cui valga la pena ritagliare un po’ di attenzione residua, bere dell’acqua e rimettere in sesto le bocche impastate e molli. 
“In che senso ti guardava, Canetti?”. Lonero si è fatto cupo. Vuole capire, quando non capisce si sente come un animale minacciato. 
“Mi guardava come non doveva, come se fosse interessato”. 
“Ma che dici? Ti guardava come si guarda uno che non sa un cazzo”, prorompe De Giacomi con un leggero tremolio nella voce, ma nonostante questo più deciso del solito. 
“De Giacomi, stai zitto, io lo so come mi guardava. E non mi piace per niente”. 
“Se ti guarda così la Barelli però non ti lamenti mica”. 
“Cosa centra, De Giacomi? Qui Canetti ci sta dicendo che il prof è frocio. Capisci la differenza?”. Lonero si è irrigidito e ha messo su il classico ghigno che tira fuori prima di uno scontro. 
“Ne giriamo un’altra?”. Bambi non ama il conflitto. 
“Certo che la so la differenza Lonero, datti una calmata. Dico solo che uno sguardo è solo uno sguardo, mica ha fatto nient’altro. E poi…”. De Giacomi, sempre in piedi, vaga con lo sguardo nella stanza fumosa, come a cercare un qualche punto fermo. Lonero lo scruta ma in fondo su questa faccenda non è che abbia molto altro da dire. 
“E poi?”, chiede Canetti che ora si sistema il ciuffo e si mette seduto. 
“E poi se è omosessuale che ce ne frega? A me piace come spiega le cose, punto”. 
“Anche a me piace come spiega Tondelli. Ed è uno che non caga troppo il cazzo. Questo è l’importante”. Anche il Bambi ora è seduto composto, e sta sminuzzando gli ultimi pezzettini in una cartina. 
“Ti piace come spiega le cose…”. Canetti guarda dritto De Giacomi che ricambia fisso, poi punta Lonero, che alza gli occhi al cielo e lancia uno sbuffo: “Canetti, però è vero che hai fatto una figura di merda l’altro giorno durante l’interrogazione, finiscila con le stronzate”. 

I quattro ridacchiano. 
“Se mi guardasse così la Barelli a quest’ora non sarei qui con voi sfigati”, taglia corto Canetti. 
Il Bambi ha finito il suo capolavoro, lo scatto dell’accendino irrompe nell’atmosfera di nuovo distesa. De Giacomi finalmente si accascia sul letto, Canetti si ributta a pancia in giù stringendo un cuscino, Lonero aspetta impaziente il suo turno, sempre col suo sorrisetto stampato sulla faccia, come quello di uno che ha capito le cose senza il bisogno di dire e pensare chissà che.
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Una canzone, un disco. "Endless Ladder", The Antlers (Undersea EP, 2012)

In un’epoca ormai lontana, gli Antlers potevano rappresentare un ragionevole punto di incontro tra le varie correnti di un indie americano che, tra fascinazioni sperimentali (Deerhunter), freak out post-post-post-qualcosa (Animal Collective), scioglievolezze dream pop (Beach House), riscoperte folk (Bon Iver) e pomposità rock autoriali (The National), forniva innumerevoli spunti per una formula capace di tenere assieme le parti. 

Purtroppo la formula senza capo né coda degli Antlers non ha saputo tenere fede alle aspettative. La speranza, tuttavia, è l’ultima a morire. Infatti, nell’EP Undersea, pubblicato nel 2012, c’è un brano che rappresenta quanto di meglio sfornato dalla band, dando forma compiuta – per quanto estemporanea - alle possibilità dischiuse da una scena musicale in fermento. Questione di ritmo, forse, o di gradazione delle componenti: sta di fatto che fin dal primo brano tutto sembra funzionare senza intoppi. "Drift Drive" procede elegantissima, senza alcuna ansia da prestazione, tra quel lamento di tromba che aggiunge un intelligente cromatismo ai rintocchi di piano e al motivo acquatico della chitarra, mentre Peter Silberman gestisce i vocalizzi in perfetta armonia minimalista. 

È però "Endless Ladder", con i suoi quasi nove minuti di durata, a raggiungere la perfezione. Il brano prende forma da pochissimi elementi: il feedback della chitarra elettrica, il loop vocale e lo sgocciolio di poche note di tastiera. Proprio mentre la sezione ritmica irrompe nella sua cadenza al cloroformio, ecco che il brano si schiude, punteggiato dagli intarsi chitarristici e dai fraseggi magnetici del piano elettrico, mentre tutt'attorno vortica un pulviscolo elettronico immerso nell’eco, solleticando lo spettro uditivo e infondendo allo sviluppo del brano una connotazione psichedelica e kosmische. “If I seem much different, more removed, if I seem distracted, its not from you”. E così, cullato da questo dolce incedere anestetizzato, il lirismo di Silberman sembra non voler porre troppa resistenza alle forze che lavorano incessantemente al suo riassorbimento, al suo inabissamento. Anzi, il testo è un lento inno al perdersi, allo sciogliersi, al domandare lasciato piacevolmente senza risposta, cullato dalle sensazioni ben più soddisfacenti delle dinamiche sonore, in sviluppo continuo e allo stesso tempo ineffabile. “So i feel refracted, split in twenty two”, canta Silberman, enfatizzando il senso di smarrimento e di scioglimento in cui anche l’ascoltatore è ormai invischiato, complici i sibili sempre più fitti e stordenti sullo sfondo, nonostante ogni elemento stia già iniziando lentamente a riassorbirsi, sottraendosi, sfumando, dalla pasta compositiva. Scopriamo quindi, in un decorso di pochi minuti, su quali fragili equilibri poggiavano le armonie lasciate crescere e gonfiarsi prima di questa fine subacquea, ennesimo espediente compositivo che proprio al vuoto, all'assenza, consacra il suo finale. 

Un brano che, da solo, salva una carriera. E che, forse, suona così bene proprio perché distante dall'approccio collagista e ipertestuale di molta musica contemporanea. Qui ci si immerge in una visione, in uno spunto intuitivo, dilatando la discesa a piacimento, senza fretta e pressione alcuna. Non è cosa da poco nel continuo baraccone pop degli ultimi anni.



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Una canzone, un disco. "Windowsill", Arcade Fire (Neon Bible, 2007)

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Gli Arcade Fire sono stati, almeno al tempo degli esordi, un’irripetibile celebrazione di togetherness. Il loro era un gruppo nel vero senso della parola: ogni brano si nutriva di un collettivismo che lasciava poco spazio al singolo, nonostante l’istrionismo di Win Butler. In Funeral questo senso della coralità era prorompente, esplosivo. In Neon Bible invece, pur non lesinando l’enfasi chamber tanto cara alla band di Montréal, tutto è ripiegato in una più densa riflessività, in un mood torbido e suburbano (dove su Bowie ha la meglio lo Springsteen di Nebraska), per una scrittura che strappa i climax a forza di intrichi di suono in lento, magmatico accumulo, dove la tensione crescente viene spezzata da improvvisi riflussi o da esplosioni repentine. Registrato in una vecchia chiesa presbiteriana, Neon Bible vive di risonanze, di impasti infittiti di eco, di un sound greve eppure in qualche modo vaporoso, espanso. 

Sounds and visions: le liriche del secondo lavoro degli Arcade Fire condividono con la gestione del suono la stessa ansia infervorata da predicatore millenarista, tra imponenti atti d’accusa fin du siècle, fino a passaggi dove si fondono – marchio di fabbrica della band, come già detto – percorsi personali e destini collettivi. “Windowsill” è quindi il perfetto apice di un disco che trasuda un’esigenza espressiva e raffigurativa che si strozza e tracima, che non riesce a stare nei margini, che respira affannosa tra slanci e ritirate. Quei tre accordi ripetuti di chitarra si fanno largo sul ronzio insistente, in sottofondo, dei fiati e degli archi che finiranno per prendere sempre più spazio, amplificando la potenza di un rifiuto disperato e ottuso: “I don’t wanna see it at my windowsill”. Sì, perché la consapevolezza è quella di una marea che monta, di una mente che vacilla, di una casa che brucia, di una guerra inarrestabile. Lo sguardo è però quello di un adolescente impaurito che scambia la volontà di fuga dalla casa di un padre abusivo con il rifiuto di un’America altrettanto nemica, che fa convergere l’intrusione della televisione spazzatura con le più minacciose intrusioni militariste in vista della nuova guerra santa. Profetico, lacerante, il piccolo grande rifiuto degli Arcade Fire coinvolge tutti noi, tutti quelli che per anni si sono trincerati nello slogan “non in mio nome”, pensando così di poter sfuggire al precipitare di una storia che si credeva di poter tenere virtualmente fuori dal campo visivo, di poter sigillare oltre gli spazi domestici, privati, nell’illusione di poter spargere scintille evitando il conseguente incendio. 

Lo slancio espressivo in Neon Bible, così ben tipizzato nel brano in questione, non è solo quello di una band capace di cogliere in qualche modo lo spirito del tempo, ma anche quello di un collettivo consapevole del suo aver portato su livelli di notorietà inediti le istanze di un movimento che da anni serpeggiava nel sottobosco indie: la wave canadese che, prima degli Arcade Fire, era rimasta un fenomeno in penombra, era ora al centro della scena. Come al solito la notorietà porterà ad album sempre meno ispirati e sempre più banali, ma la doppietta Funeral-Neon Bible rimane tra i caposaldi del pop del nuovo millennio. 



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