La media del Festival della canzone italiana, comunque, si assesta su un magro 4,7. Niente male davvero.
Achille Lauro – Incoscienti Giovani (5,5/10)
Scuola romana in salsa sanremese (senza sorprese). Il pezzo procede privo di colpi di scena, optando per una monotonia sonnacchiosa levigata da scialbe partiture d’archi che non spiccano il volo nemmeno quando potrebbero. Il ritornello imprime una piacevole svolta melodica senza però crederci fino in fondo. Poi arriva il sax che fa molto urban, così, come complemento. Lo preferivo quando faceva il pazzerello da prima serata tivvù.
Marcella Bella – Pelle Diamante (2/10)
I russi ci adorano per queste oscenità.
Elodie – Dimenticarsi alle 7 (5,5/10)
In fondo sono stati artisti come Elodie e Mahmood ad aver contribuito maggiormente al mutamento del gusto di uno dei pubblici più imbolsiti e conservatori del mondo. Qui Elodie fa il suo mestiere, senza particolari guizzi nella scrittura: base electro che fa da preludio agli archi leziosi del ritornello, colorati per fortuna dalle modulazioni di synth. Nessun vero colpo di scena, brano piacevole ma incapace di spiccare il volo.
Modà – Non ti dimentico (3/10)
Vabbè bisogna far sentire accettato anche il pubblico di Maria De Filippi.
Serena Brancale – Anema e core (7/10)
Interessante il tripudio tropical-house di Serena Brancale. Un brano in costante movimento, con il suo attacco sinuosamente etno-lounge che evolve in un tripudio di percussioni, torpori balearic e basso groovy. E finalmente anche gli arrangiamenti orchestrali – impegnati in volteggi arabeggianti - sembrano funzionali alla resa armonica del brano e non una mera giustapposizione messa lì a caso. Sorpresa.
Giorgia – La cura per me (4,5/10)
Giorgia scrive lo stesso pezzo da sempre, dedicando ogni sforzo alla prestazione vocale, al climax verticale, con uno sviluppo compositivo sapiente ma tutto sommato ordinario. La musica? Un mero accompagnamento. Potrebbe cantare qualsiasi cosa, in fondo. Ah ma come canta bene, qualcuno l’ha già detto?
Clara – Febbre (4/10)
Il problema è che il genere di Mahmood e Elodie è passato nel giro di un secondo da novità a standard trito e ritrito. Lo schema compositivo è sempre quello, una copia carbone di una copia carbone. Pulsazioni torbide da basso ventre su cui si innesta la pedante dizione cadenzata di una voce forgiata da un qualsiasi vocal coach per aspiranti vincitori di X Factor. E poi la solita orchestra laccata. Uff. La noia assoluta.
Lucio Corsi – Volevo essere un duro (7,5/10)
Quella di Lucio Corsi è una canzone. Ha un testo, uno sviluppo, diversi momenti di estro, una dinamica melodica tutto fuorché banale, un equilibrio espressivo tra musica e testo dove ogni componente ha il suo giusto spazio (e se un brano tende all'assolo di chitarra siamo sempre sulla strada giusta). Piano rock anni settanta, pose glam, canzone d’autore. Qui siamo ad un altro festival.
The Kolors – Tu con chi fai l’amore (3/10)
La ricerca del tormentone estivo a tutti i costi. Fare il sonoro degli stacchi pubblicitari per le estati italiane come ambizione di vita. Ci sanno fare i Kolors, ne sanno a pacchi, hanno un futuro da gelatai per interposta persona assicurato. Anche a causa loro i russi ci adorano.
Olly – Balorda nostalgia (3/10)
Un titolo che è un programma. Un brano che è una merda.
Coma_Cose – Cuoricini (5,5/10)
I Baustelle che incontrano Albano e Romina (ma anche i Dari, ahimè). Interessanti, la gestione del brano è divertente, il ritornello è azzeccato, il ritmo è coinvolgente, la melodia rimane appiccicata in testa. Ad intrattenimento ci siamo, mancherebbe giusto avere davvero qualcosa da dire. "Come dire, poca soddisfazione", tanta pucciosità per la stupenda generazione di eterni giovani d’oggi.
Fedez – Battito (6/10)
La cosa peggiore del brano di Fedez è il ritornello, dozzinale e capace di spezzare tutta la tensione creata nelle strofe. Sì, perché l’atmosfera cupa e vagamente horrorcore del brano, con quel profondo basso wobble che squaglia il flow, è parecchio convincente. Non mi sarei mai aspettato qualcosa di vagamente decente da parte di Fedez.
Brunori Sas – L'albero delle noci (6/10)
Brunori non ha bisogno di presentazioni. Lui rappresenta la quota di cantautorato DOP del Festival, quello che ci deve essere e che sempre ci sarà. Quindi De Gregori e compagnia bella. Che dire, pezzo posato, ricercato, scritto con eleganza e savoir faire. Però vorrei arrivare a quarant’anni senza sentirmene addosso cinquanta.
Irama – Lentamente (3/10)
Non saprei neanche cosa valutare, esattamente, per dare un parere su questa ballad strappalacrime a tutti i costi. Il testo da diario delle scuole medie? La melodia leggerissima da italo pop di serie b? Mi sembra tutto troppo vuoto. Sono spiazzato, ha vinto lui.
Bresh – La tana del granchio (6/10)
Si potrà dire che un brano pop è fatto di strofa, bridge, ritornello. Va bene, le variazioni non sono infinite. Però qui sembra davvero di assistere a un abuso dello schema aureo della tradizione melodica sanremese. Bresh parte molto bene con le sue armonie mediterranee tra chitarre e bouzouki, ma poi la solita dinamica patinata con ritornello sgolato e un po’ cafoncello da stadio ha la meglio. Il risultato è comunque discreto.
Simone Cristicchi – Quando sarai piccola (4/10)
No, dai. Per favore, no. Ok, bisogna scrivere canzoni drammatiche perché così si consegna “il tema” ai commenti dei giornaletti nostrani. E più l’argomento è peso più non si potrà fare a meno di lodare le buone intenzioni di chi canta. L’artista mette a nudo il suo dolore. E come si fa a dire che è uno stronzo, poi? Infatti non sarò certo io a prendermi questa responsabilità. Musicalmente il brano è un incrocio tra Samuele Bersani e Massimo Ranieri, super gonfio e madido di drammaticità disneyana. Brividi, ma non quelli giusti.
Francesco Gabbani – Viva la vita (5,5/10)
Soul-pop cantato alla Ramazzotti dove alla fine si butta tutto in caciara con uno svolgimento da positività tossica. Peccato, perché tra le righe ci sento anche inflessioni di buon cantautorato rock (lo dico? Non lo dico? Va bene: Benvegnù). Non un disastro, ma il brano perde sostanza man mano che si accumulano gli ascolti.
Joan Thiele – Eco (7/10)
Un po’ Levante un po’ Joan as Police Woman, lei sa il fatto suo e inaugura il brano con una bella distorsione di chitarra elettrica che male non fa. Un bel groove grassoccio e quella chitarra twang ferrosa spezzano piacevolmente il mood prevalente del Festival, accennando a un sound internazionale che profuma di Black Keys. Scritto bene, un brano piacevole che spazza via la sovrabbondanza di glassa sanremese.
Toni Effe – Damme ‘na mano (3/10)
Mi chico latino, damme ‘na mano a reggere questa cafonata. Califano piange e sbuffa dal suo piccolo nasino buffo.
Rose Villain – Fuorilegge (4,5/10)
Vale il discorso fatto con Clara, Elodie e che si potrebbe fare anche con Gaia: lo standard r’n’b sanremese ormai è un grande classico decadente. Elettronica discotecara che si fonde con la grande tradizione melodica italiana. Ok, abbiamo capito. Ora anche basta, grazie.
Francesca Michielin – Fango in Paradiso (4,5/10)
Me la ricordavo più creativa la Michielin. Ora fa la parte della brava ragazza devota alla musica leggera, alle delusioni amorose di bassa lega, al bel canto pulito senza arte né parte.