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Quarzo

 

Il cielo si sta tingendo di un rosso acceso, innaturale. La piana sottostante è sferzata dal vento gelido che scende dalle cime dopo che il sole ha calcato la steppa per tutto il giorno. Sarà una notte bastarda se non trovo subito un riparo. Con tutti i selvatici che infestano questa zona non ho nessuna intenzione di dormire sotto le stelle. Duecento metri più su, oltre il costone che accartoccia in un grugno di granito le curve di livello, c’è un villaggio dove non mette piede nessuno da chissà quanto tempo. Guardo in alto: i satelliti pulsano dietro la cortina celeste dalle tinte al neon, procedendo lungo le loro traiettorie misteriose e inesorabili, esattamente come faccio io da anni. Siamo rimasti in pochi da queste parti. Piccoli allevatori schivi. Impiegati doganali e tecnici degli impianti di stoccaggio delle acque alluvionali. Cercatori di reperti sputati fuori dai ghiacciai squagliati. Piloti di navicelle commerciali in quarantena forzata. Contrabbandieri di neoplasma per propulsori ionici. Riparatori di vele solari e smaltitori di batterie esauste. Locandieri, spacciatori di freeze e puttane. Tutta gente che non ha nemmeno avuto il lusso di potersi chiedere come fosse finita a fare questa vita di merda: sono semplicemente rimasti appiccicati qui come mosche sulla colla. E poi ci sono i ghiacciatori come me. Pochi, stupidi. Però solo io mi sono impuntato con questo versante abbandonato. Solo io salgo così in alto. Sarà che non voglio rimanere appiccicato. 


I ruderi puntellati da vecchi tiranti sono come escrescenze casuali spuntate tra i viottoli invasi dalle ortiche e dagli spinaci selvatici, ottimo materiale per una zuppa improvvisata. Tra una pausa e l’altra delle raffiche di vento percepisco un odore acre di erba bruciata: non sono solo. Spalanco l’uscio dell’unica rovina col tetto ancora integro e appena dentro riecco lo stesso odore, questa volta più intenso. In fondo, nella penombra di lievi bagliori rossastri, due occhi bucano per un attimo lo spazio. Uno sbuffo di fumo si allarga per disperdersi e rimanere attaccato alle travi spesse e ai pochi suppellettili di legno, una panca, un tavolo di pino, qualche seggiola da mungitura e sacchi pieni di lana ingiallita alla rinfusa contro le pareti. Proprio in mezzo alla stanza pulsa ancora un cumulo di braci. Prendo qualche rametto da un fascio adagiato sulla panca e ravvivo la fiamma. Gli occhi stanno bassi, semichiusi. Stabilire un contatto è un atto di eccessiva fiducia nell’umanità, soprattutto quassù. Soprattutto a stomaco vuoto.


Continuo a scrutare il volto nella penombra mentre aggiungo tocchi di proteine essiccate al brodo di erbe montane. Deve venire bello forte, il brodo, ci devo fare su un buon sonno. Però la presenza di un’altra persona, muta, sconosciuta, viva, mi manda ai matti. Non ha ancora fatto un cenno, questo maledetto, come se non esistessi. Devo capire cosa diavolo ci faccia quassù. Non è nemmeno stagione di caccia, dev’essere un vagabondo. Più ci penso più l’idea di passare la notte con uno sconosciuto diventa insopportabile.

- Non ti dispiacerà condividere un po' di quella tua zuppa.

Le parole si propagano nella stanza rintuzzando nell’aria come il volo di un pipistrello sorpreso in una grotta, facendomi trasalire.

Mentre riempio la gavetta fino all’orlo sento la mia ansia dissiparsi quel tanto che basta per tornare in me. Faccio scorrere la ciotola verso la voce.

- Ce n’è quanta ne vuoi. Hai del pane?

Ecco che sento un rimestio scomposto, e in un attimo un bel tozzo finisce a due passi da me. È pane nero, non ne trovavo da un sacco di tempo. Finiamo di mangiare in silenzio, lui riaccende la sua sigaretta d’erba e il fumo torna ad appiccicare l’atmosfera. Mi corico, la stanchezza è arrivata tutta d’un colpo, liberata dal cedere della tensione che ora si sta riassorbendo come un unguento per le cicatrici.

- Sei un ghiacciatore, si capisce.

La voce è granulosa, attutita dalle coperte spesse ammassate sul volto e inspessita da anni di catrame e abbandono.

- E da cosa lo capisci?

- Siete gli unici che vi ostinate a salire in alto. Non c’è più niente che valga la pena cercare da queste parti.

- Questo è tutto da vedere. Comunque mi pare che anche a te non faccia schifo l’altitudine.

- Bah, io non ho nessun altro posto dove andare. E poi qui è roba mia.

- Roba tua? Pensavo che fosse tutto abbandonato.

- Ci puoi scommettere che è tutto abbandonato, dice raspando con la gola, per poi lanciare uno sputo diretto nell’oscurità, ma è mio comunque.


Avere qualcosa di proprio di questi tempi è un gran lusso, penso, anche se dovesse trattarsi di quattro sassi. La proprietà è un appiglio solido in un mondo che slitta e frana. La proprietà te la possono togliere solo ammazzandoti. 

Non sono ancora del tutto convinto riguardo al perché lui sia qui, lo confermano le piccole scariche elettriche di sospetto che irrigidiscono le mascelle e continuano a tenermi sulle spine. Quanto avrei preferito starmene per i fatti miei. Non è la prima volta che finisco da queste parti e di tracce umane non ne ho mai notate. Lassù, molto oltre la quota degli ultimi arbusti rinsecchiti, rimane ancora una lingua di ghiaccio nascosta tra le pieghe di roccia. E ghiaccio vuol dire acqua. E l’acqua è facilmente convertibile in denaro, di questi tempi. Incredibile pensare a quanta acqua si riesca a ricavare da un giacimento di ghiaccio. Basta avere la giusta attrezzatura, un grossista fidato e delle buone gambe. E bisogna saper perdere, ogni tanto.


Ora il silenzio si è imposto come una terza presenza, più invasiva e pervicace di quella dell’uomo che tace di nuovo, inglobato dalla cappa ottundente fatta di nulla. Mi giro su un lato e mi avviluppo in posizione fetale per trattenere quanto più calore possibile. Le mani strette nelle tasche sembrano più grosse di quel che sono: sento le dita gonfie e spesse, appiccicate l’una all’altra come propaggini aliene, quasi si stessero espandendo ciucciando linfa vitale dal braccio. Mi capita sempre quando sono irrequieto. I polpastrelli tesi giocano con il sassolino bianco che tengo con me come una reliquia. Non riesco a non pensare alle opportunità che questo piccolo frammento minerale potrebbe dispiegare. Lui non deve vederlo. Lo sfilo con discrezione dalla tasca e lo osservo come ho già fatto centinaia di volte. Le superfici opalescenti paiono catturare il brillio della brace, rifrangendolo sulle molteplici imperfezioni screziate. Una volta si pensava che questo fosse ghiaccio fossilizzato. Tutto torna. 

Non riesco a dormire. Frugo nello zaino che uso come cuscino ed estraggo l’inalatore per asmatici già carico di una buona dose di freeze. Premo l’erogatore e la sensazione di gonfiore degli arti recede di botto. Le ondate di gelo bollente si irraggiano lungo ogni mia terminazione nervosa, fino a che un formicolio diffuso mi stringe in una morsa per poi sciogliersi in un gocciolio di colori e lievi spasmi. La notte si schiude e mi abbraccia. Sarà un sonno senza sogni.


A queste altitudini la mattina arriva sempre come una promessa tradita. I raggi del sole feriscono di striscio i cristalli di brina e pare che tutto, l’erba gelata, gli arbusti rinsecchiti, i massi erratici sparsi, prendano un gran respiro. Non c’è una nuvola in cielo, anche oggi farà caldo. La brace è ridotta a un cumulo di cenere e non vale la pena sprecare fatica per il fuoco, masticherò qualche pezzo di pane camminando. Non ho tempo da perdere, entro questa sera voglio riempirmi il muso e sparire in qualche bordello giù in città. Sono stanco, stanco, eppure esiste una forza dentro che mi obbliga a muovermi, una forza che mi impedisce di stendermi vicino a un albero qualsiasi, più a valle, e caricare troppo l’inalatore. Quella forza è la mia febbre distruttrice e, distruzione per distruzione, fanculo, preferisco muovermi.


Supero i muretti a secco che una volta delimitavano campi di patate e vigne. Impossibile sapere se risalgono a cinquanta o cento anni fa, qui è stato un continuo avanzare e rinculare secondo le capricciose variazioni dei limiti climatici, nella speranza di conquistare nuove terre fertili strappate al gelo. Ormai è da tanto che nessuno ci prova più: anche se dovesse crescere qualcosa non ci sarebbe un cane a cui venderla. Quello per cui sono qui io, invece, sì che vale la pena. Mi ci rompo volentieri il culo per una cosa del genere. La mia vena di quarzo è da qualche parte lassù, ne sono sicuro, come sono sicuro che nessuno ha mai sospettato di un tale ben di dio incastonato nel sottosuolo di questi pendii. Ci si può fare una fortuna con tutto quel minerale, anche perché quel che fa la differenza è la briciolina di paglia luccicante incastrata tra i tetraedri cristallini del mio frammento color neve. Si percepisce a malapena, eppure quello è oro. È oro, perdio!


Le gambe sono ancora dure a causa del sonno artificiale che mi sono voluto concedere, ma la testa è limpida, i sensi accesi. Stringo il sassolino mentre supero respirando forte il limite degli ultimi arbusti odorosi: tra poco entrerò nel regno delle pietraie, ed è lì che passerò il giorno, lungo il greto del vecchio torrente, con un metal detector e con i suoi bip, bip, bip, bip.

-Toc!

La mano smette di accarezzare il minerale e tutte le sue promesse, andandosi a posare sul calcio della pistola nascosta sotto il cinturone. Si sente ogni passo in questo sbriciolio diffuso e qualcuno, dietro di me, non troppo distante, ne ha fatto uno di troppo. E oggi, si intende, di passi voglio sentire solo i miei. Vecchio maledetto, potevi continuare a farti i fatti tuoi, penso sfilando un poco l’arma, ora pronta all’uso, attento a non far notare la mia allerta. Simulo naturalezza ma sono teso come un’antenna. A spezzare il silenzio arriva stridulo e netto il fischio di una marmotta che ci ha visti e segnala la nostra presenza. Si goda pure lo spettacolo. Pensandoci – stringo più forte il calcio - potrebbe farmi comodo un tetto tutto mio da queste parti, nei mesi che mi aspettano. E la proprietà, si sa, te la possono togliere solo ammazzandoti.


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Caro Giovanni (una lettera)


Caro Giovanni Lindo Ferretti, 

sono uno dei tanti che, da anni, ascolta la tua musica, segue il tuo percorso pubblico e accoglie le tue riflessioni con interesse (e, devo dire, con una certa apprensione). Mi sono chiesto sovente il perché: solitamente non concedo tutta questa rilevanza alle dichiarazioni degli “artisti”, e tendo a separare l’oggetto artistico dalla persona che lo produce. Credo che alla base di questo ci sia la convinzione (o il pregiudizio) che l’artista sia una creatura insopportabilmente vanitosa che, confondendo il proprio talento con la prova di possedere una sensibilità superiore, corra sempre il rischio di dire banalità confondendole per oro. Le tue parole, invece, hanno un insolito peso specifico ed è come se mi riguardassero direttamente. Ho il sospetto che questo effetto non sia del tutto casuale. Immagino che tu abbia imparato a comunicare adeguatamente con un pubblico fatto di persone che non conosci ma che hanno sviluppato una sorta di indebito rapporto intimo con la tua figura, nel bene e nel male (c’è chi ti scomunica e chi ti razionalizza, chi ti sconfessa e chi ti capisce, tutti ti interpretano). Addirittura chi scrive su di te finisce con lo scrivere come te. È come se il Lindo Ferretti pubblico che, nella musica e nelle interviste, parla del Lindo Ferretti privato, sia il frutto di un dosaggio cosciente: mi sfugge sempre un sorriso quando parli recitando i tuoi stessi aforismi. Tutto questo, però, mi pare che tu lo faccia senza mai abbandonarti all’autoillusione: il mea culpa, il richiamo alla vanità, l’autodafé, testimoniano un confine, un limite consapevole tra essenza e rappresentazione. È così? 

Allo stesso tempo, però, il palco, la telecamera, il microfono, la pagina, sono anche occasioni di testimonianza. In questo, forse, sta la problematicità della tua figura pubblica: se molti si illudono che possa esistere un’assenza di mediazione tra palco e pubblico, tu dai l’impressione di essere cosciente di ciò che si frappone tra i due piani. Questo crea una tensione, un’attenzione particolare nella scelta dei toni e delle parole (lo noto sia nelle tue canzoni sia nelle tue dichiarazioni) che induce chi legge o ascolta a mettersi alla ricerca di segni, di significati (che forse non ci sono). Mi chiedo se le mie siano speculazioni oppure facciano parte anche delle tue riflessioni. Certamente sei consapevole dell’esistenza di un interesse nei tuoi confronti, e trovo interessante immaginare quali siano i confini che tu ti sei (im)posto per gestire questo aspetto della vita: l’essere di rilievo per gli altri. 

Fatte queste premesse ti confesso che trovo piuttosto ambigua la tua critica alla modernità: da un lato perché è romantica e ideologica (il passato è visto come dominato da una regola armonizzante, capace di alleggerire anche la brutalità), dall'altro perché integra elementi che stonano sia con la tua dichiarata volontà di raccoglimento (mi riferisco al rumoroso e violento baraccone politico della destra identitaria), sia con il tuo prestare il fianco alla retorica di questa nuova destra, appiattita sulla brandizzazione - cosa tutt'altro che mistica - dei valori tradizionali. 

La modernità, in fondo, non si contrappone nettamente alla tradizione, se non quando diviene essa stessa bandiera ideologica. Direi piuttosto che la modernità è la tradizione lasciata libera di camminare. Chi invece vuole fissare la tradizione in normatività ne blocca ogni spinta genuina e autentica. La consapevolezza della grettezza della contemporaneità non dovrebbe essere la scusa per volerla costringere in forme sformate. Non ne faccio una questione di coscienza, che come tale è e deve rimanere libera (e questa, credo, è una delle conquiste più alte del pensiero laico e liberale). Ne faccio una questione di integrità e coerenza: chi crede che l’identità urlata, semplificata, categorizzata sia la soluzione ai mali del mondo non fa altro che plasmare un feticcio di ciò che potrebbe essere più alto, più bello, più vero di com'è. E che verità c’è se l’identità è costrizione, coercizione, confronto brutale e asfittico, mimesi grossolana e conformista? Per questo non vedo nella Meloni (nella politica Meloni) un esempio di virtù: semmai riconosco la sua creatività nel rimasticare vecchi adagi con parole nuove (ritorniamo all'ego degli artisti, quindi). Ma che virtù c’è nel dissimulare, nel non parlare chiaro, nel mettersi al servizio di forze che compattano e schiacciano ciò che invece dovrebbe potersi dispiegare? Che virtù c’è nel mettere al centro dello scontro ideologico questioni private (come la maternità, la fede?) facendone slogan pubblicitari? Che virtù c’è nell'asserragliarsi nella difensiva rabbiosa dell’animale che si sente in trappola? Forse qualcuno impedisce a questi orfani dei bei vecchi tempi andati di dire, fare e credere ciò che vogliono? 

Prima scrivevo che è come se le tue parole mi riguardassero direttamente, ma in fondo il punto è che riguardano direttamente la generazione di cui faccio parte (che è una generazione estesa, direi storica più che anagrafica), una generazione che vive con sconcerto e disorientamento il crollo del Novecento e che non vuol limitarsi a registrarlo o assumerlo su di sé come il peccato originale. Per questo alcune parole toccano la carne viva: perché paiono assecondare lo svilimento della riflessione e la negazione della forza vitale delle possibilità insite in questo pur contraddittorio navigare a vista nel presente. 

 …Ma sono piccole cose, in fondo, quelle della politica. Era da molto che volevo scriverti, anche solo per manifestarti la mia stima, e spero che le mie divagazioni non ti abbiano dato troppa noia. Un abbraccio e un augurio, 
Matteo
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Strade


Il casermone in lamiera ondulata è sempre stato qui, immutabile come un elemento geologico. Quando ero bambina la fabbrica doveva essere ancora in attività, eppure, nei miei ricordi, se ne stava lo stesso muta e immobile, come se il suo destino di relitto industriale fosse iscritto nella sua struttura fin dal principio. 

 “Cosa fanno lì dentro mamma?”. 
“Non sporgerti dal finestrino piccola” 
“Va bene… Cosa fanno lì dentro ma’?” 
“Fanno i bastoncini che usi per andare a sciare, Lia”. 
 “E quanti ne fanno?”. 
 “Ne fanno milioni e milioni!”. 

Credo che nemmeno mamma sapesse se stava esagerando o no. 

La macchina scorre sibilando sull’asfalto brullo, lungo un tratto impegnativo di curvoni e gallerie. Da tantissimo tempo non guardavo dal finestrino questo paesaggio che ora si srotola lungo il tragitto. Mi sono abituata a guidare meno, ad essere circondata da palazzi e vetrate. La natura, nelle mie città, è diventata poco più di un elemento scenografico. Qui invece sembra che siano gli edifici ad essere fuori posto. 

Il ricordo che ho di questi luoghi si ancora a pochi appigli. La fabbrica. Il tornante che innescava sempre un incredibile mal d’auto. Un lungo e altissimo viadotto da cui si poteva vedere il campo da calcio. Lo spettacolo di un brutto incidente lungo la carreggiata che aveva preoccupato molto i miei genitori riguardo agli effetti che una tale visione avrebbe potuto avere sulla mia fragile psiche di bambina. Il cane bianco dei nonni. L’altalena appesa al ramo del grande castagno del vicino. Poi, pian piano, i viaggi si sono fatti sempre più radi, fino ad azzerarsi. Fino ad oggi. Sono sedici anni che non metto piede da queste parti. 

“Da grande cosa vuoi fare mamma?” 
“Be’ Lia, io sono già grande…” 
“È più grande la nonna di te! E lei dice sempre che si può cambiare vita tutti i giorni, e che nella vita di prima era una guaritrice indiana”
“La nonna dice un sacco di cose. Sai, lei è sempre stata eccentrica. A volte non bisogna prendere per oro colato tutto quello che dicono le persone”
“Ma la nonna a me sta simpatica. Cosa vuol dire che è centrica?”
“Vuol dire che… a volte ha delle idee particolari. E dice certe cose solo per far colpo sugli altri”
“Tu cosa vuoi fare da grande mamma?”
“...Io voglio fare… io voglio viaggiare lontano e pensare solo a dove andare il giorno dopo”
“Viaggiare non è un lavoro! Ma poi viaggi da sola? E io cosa faccio?”
“No che non viaggio da sola. Ti porterei con me piccola Lia”
“E papà?”
“E papà…”

Maggy sta ancora dormendo. Buon segno, vuol dire che non ho perso la mano al volante. Affronto le curve e i salti di pendenza con dolcezza. Mi dicevano tutti che ero una brava guidatrice. Ho imparato qui. Guardando fuori dal finestrino mi stupisco che tutto sia rimasto esattamente come lo ricordavo. Mi chiedo se valga il contrario: io sono la stessa? Tutto quello che è successo in questi sedici anni come si manifesta sul mio corpo, sul mio essere nello spazio? Probabilmente il semplice fatto di trovarmi qui, e non da un’altra parte, è il solo cambiamento significativo che ci si aspetta di registrare in una persona. Sì, ci sono le rughe, qualche capello bianco. Però sono sempre la stessa, no? Come la fabbrica. 

 “Dove siamo ma’?” 
“Ben svegliata Maggy. Siamo quasi arrivati” 

Il fatto che si sia svegliata proprio ora mi colma di una soddisfazione imprevista. La vedo dallo specchietto retrovisore: un poco imbronciata come tutti i bimbi appena usciti dal sonno, osserva il paesaggio fuori dal finestrino. Chissà come dev’essere per lei confrontarsi con queste montagne, con il cielo che, per quanto stretto tra le cime, appare comunque più ampio che in città. Mi immedesimo in lei, ma provo anche invidia. Vorrei tornare ad ammirare anche io tutto questo per la prima volta, con meraviglia. Tornare bambina. Non sa quanto sia fortunata. 

“Dove vuoi andare se fai quella che viaggia, mamma?”
“Non lo so Lia, in posti che non ho mai visto. Ad esempio in Canada”
“Cosa c’è in Canada?”
“Ci sono grandi foreste, laghi, e poi ci sono le alci, che sono come dei cervi ma più grandi, con corna imponenti sulla testa”
“Anche qui ci sono le foreste, mamma. Andiamo al mare, su un’isola!”
“Mi piacciono le isole. Potremmo pescare e dormire sulla sabbia, ti andrebbe?”
“...io non so se voglio andare via. Qui c’è Clara, e poi Laura, e poi Luca. E la nonna. E la scuola? Mi piace andare a scuola"
“…” 
“...mamma?” 
“Dimmi, Lia”
“Io non voglio cambiare vita tutti i giorni. Mi piace stare qui con una vita sola”
“E allora stiamo qui, piccola Lia”

In realtà di cose ne sono cambiate tante. Mentre lo penso squilla il telefono. Ecco la città che cerca di intrufolarsi ancora nella mia vita. Cerco il tastino per spegnere questo coso. Ne voglio comprare uno più piccolo, con meno funzionalità. La vita urbana genera una tendenza alla complicazione, alla moltiplicazione dei bisogni. Le cose finiscono per stringertisi attorno fino a soffocarti. Ho bisogno di più spazio. 

Siamo quasi arrivate. La strada sale e si fa impervia. I prati intorno sono come irrigiditi dalle prime gelate dopo la calura estiva. Gli alberi cominciano a colorarsi di tonalità ocra e arancioni. Chissà come sarà la casa. Sono anni che non ci entra nessuno. Per certi versi io e Maggy siamo nella stessa condizione: stiamo per vedere entrambe qualcosa per la prima volta. 

 “Devi fare pipì?”
“No”

Dice sempre di no, poi mi tocca fermarmi, o peggio cambiarla, in posti improbabili. Fortuna che qui ormai ci sono solo prati. 

“Sei sicura sicura?”
“Quanto restiamo qui?”
“Non lo so, il necessario”

Dicono che ai bambini bisogna dare risposte chiare, e questa è la risposta più vicina alla verità che riesco a immaginare.
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Contemplazione

Per un tratto di strada mi sentii straordinariamente in sintonia con il paesaggio circostante, una piacevole armonia di concrezioni urbanistiche composta da cornicioni spioventi e dai loro ritagli obliqui di cielo, oltre che da facciate intonacate a tinte tenui che parevano l’ovvia propaggine dei lastroni di pietra scura stesa sul marciapiede. Tutto quell’ordine di inclinazioni variabili sembrava essere stato sistemato solo e soltanto per accordarsi alla pigra andatura di quel momento, per accompagnare la fuga in avanti della mia prospettiva in progressione. 

Non era un angolo di città su cui ero solito soffermarmi, forse perché troppo di passaggio, al contrario dei più adeguati spazi destinati all’attesa – di qualcuno, di un mezzo – che di tanto in tanto scandagliavo con l’attenzione di un esperto di architetture urbane. Allora notavo lo stile vagamente art nouveau dell’inferriata di un balcone, l’accenno brutalista di una facciata, gli stucchi tardo-barocchi dei palazzi istituzionali o le bizzarre contorsioni di una grondaia di rame scintillante al sole. Quella volta però, passeggiando per la via che dalla piazza centrale porta a sud in un infittirsi di rimandi al tempo in cui quel pezzo di centro era ancora periferia agreste, poco prima del momento in cui avrei svoltato per lo slargo che apre la veduta, slanciandola oltre le casette basse e in fila, proprio allora fui travolto da quella consonanza che a volte capita di percepire quando tutto sembra svolgersi secondo i nostri sviluppi intimi, interni. 

Cosa mi affascinava dello spazio che si organizzava come a volermi abbracciare? Mi venne in mente la concezione di città-museo narrata da Kogonada, dove la città e l’uomo sono entrambi concepiti per essere in costante interazione, come se il rapporto di contemplazione fosse reciproco, e le storie della vita non possano che svolgersi all’interno di scenari adeguatamente rappresentativi, rigorosamente estetizzati. 

Provai l’irresistibile tentazione – forse per quell’esigenza estetica di situarmi nel paesaggio come fosse un palcoscenico - di fermarmi con la scusa di bere del caffè, così mi sedetti ad uno dei tavolini attigui alla facciata intonacata a grana grossa, di colore grigio scuro, adiacente alla vetrinetta di un ferramenta. Fermo nello spazio, nell’attesa che un cameriere arrivasse per prendere la mia ordinazione, rivalutai la mia rinnovata posizione. Da quel punto d’osservazione potevo vedere scorrere i passanti, mentre gli edifici – prima in evoluzione, in movimento – erano fermi. Di fronte a me un caseggiato austero, la cui facciata di pietra locale e calce era appena scalfita dagli angusti solchi delle finestre, alcune delle quali sormontate da architravi in mattone intonacato che rimandavano ai timpani dei templi romani. Qualche fiore ai davanzali e poi, sotto il tetto, un cornicione in legno che poteva avere anche mille anni. Mentre l’edificio stava immobile la gente passava, e da quel flusso si staccò una ragazza che si sistemò pochi tavolini più in là del mio, sedendosi in modo che potessi guardarla di profilo senza essere notato. 

I capelli raccolti da un elastico colorato lasciavano scoperto un collo sottile ed elegante che si congiungeva con grazia alla schiena abbronzata, tagliata in due dal segno recente del costume. Mi soffermai sul punto in cui i capelli si arruffavano in riccioli delicati sulla nuca e improvvisamente mi prese la voglia di accarezzare lo spazio teso dietro l’orecchio. Desiderare una sconosciuta mi riempii di malinconia. Distolsi lo sguardo e notai un paio di piccioni sotto i tavolini del locale dirimpetto. Si inseguivano frollando le ali e tubando nervosamente. Compivano piccoli cerchi, poi avanzavano, e di nuovo si giravano fronteggiandosi per pochi istanti, il collo turgido e gonfio. Poi con uno scatto un piccione afferrò con il becco l’ala dell’altro, trascinandoselo appresso per un tratto, finché quello, con uno strattone, riuscii a divincolarsi e volare via. Andò a posarsi proprio nel sottotetto dell’edificio di fronte a me. L’altro si librò in aria vittorioso, descrivendo un paio di circonferenze ascendenti che lo portarono sul davanzale di una casa poco distante, ma opposta al riparo dell’avversario. Per cosa lottavano? Non vedevo femmine nei dintorni, e le mie conoscenze rudimentali sul tema mi suggerivano che, avendo entrambi gli esemplari mostrato il collo gonfio ed avendo esibito una certa aggressività, fossero da considerare maschi. 

Tornai a considerare la ragazza che ora, intenta nella lettura di un libricino, mostrava il suo profilo curvo, piegato come uno stelo. Una ciocca di capelli sfuggita dalla stretta dell’elastico formava una linea obliqua sul volto, e il braccio che reggeva il libro premeva delicatamente sul seno, che così compresso si rivelava d’una materia soffice e conturbante, facendomi quasi sussultare. Cercai di riportare i pensieri alle sensazioni che poco prima mi infondeva l’ambiente intorno. Eppure qualcosa si era incrinato. Mi tornò alla mente quanto avevo letto sui piccioni. I maschi non lasciano che nessuno si posi accanto alla propria compagna, a meno che il volatile non sia a sua volta accoppiato. In questo caso i maschi fanno attenzione ad appollaiarsi l’uno accanto all’altro tenendo le rispettive femmine all’esterno, il più lontano possibile da ogni tentazione di infedeltà. Se però sopraggiunge una terza coppia questa strategia non è più possibile: non esiste una combinazione soddisfacente. E allora succede che i due maschi ammettono il terzo tra loro, ma quest’ultimo scaccia la femmina, costringendola a rannicchiarsi lontana dal gruppo. A causa della sua insicurezza sessuale il maschio è disposto ad esporre la femmina alle intemperie, alla scomodità, alla lontananza. 

Quando tornai a volgere lo sguardo al tavolino dove era seduta la ragazza la sedia era ormai vuota, e lei stava raccogliendo le sue cose. Mise il libricino nella borsa, si rassettò i capelli riordinando il ciuffo ribelle e finalmente si diresse verso la via, piegando la vita elastica nella gincana di tavolini. Questo la portò verso di me, del tutto ammaliato dai suoi movimenti. La ragazza incrociò il mio sguardo, si fermò e mi sorrise. Si piegò leggermente come a volersi fare sentire meglio. 
“Bisogna trasfigurare la realtà, non limitarsi a rappresentarla” disse, per poi allontanarsi sciogliendosi tra i passanti, inglobata dai palazzi. 

Dopo poco mi alzai anche io. Lasciai qualche moneta accanto alla tazzina del caffè. Notai subito come lo spazio che poco prima mi aveva integrato ora non combaciava più, non stava dentro i margini. C’era qualcosa - in me o nella città, non saprei dirlo - in eccesso. La materia traboccava, o forse ero io che la sovrastavo, trovandola così angusta e inadatta a rappresentare qualcosa che non fosse un rimando infinito a sé stessa. Chissà cosa rimarrà di tutto questo, mi chiesi. E così, frastornato, come scontornato dal quadro generale, decisi di liberarmi dal centro cittadino come di un cappotto logoro fuori stagione. Mi avviai verso casa.
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Shirley (The true love knot)


Lui mi ha tolto tutto, non solo la voce. 

Shirley si guarda le mani. Sono mani giovani e belle, educate al contatto gentile con le corde, abituate ad accompagnare, con i volteggi leggeri delle dita, i ghirigori ariosi della sua voce. Quella voce che ora non c’è più. Shirley apre i palmi fino a sentir tirare la pelle. Lentamente, senza sapere il perché, porta le mani alla gola, ancora spalancate. Solo a quel punto comincia a serrare le dita attorno al collo. Se non può uscire nessun suono da quell’inutile bocca allora nemmeno un filo d’aria deve più penetrare nei polmoni, nemmeno un fiotto di sangue deve irrorare il cervello. 

Stringe forte, fino a sentire pulsare le vene sotto i polpastrelli. Invano. Non è possibile farla finita così. La volontà sfugge, la forza viene meno. Le mani non sono progettate per ucciderci, almeno non direttamente. Eppure questa voce maledetta non esce! Shirley contrae i muscoli del collo, sente i tendini tirare e la laringe serrarsi. Ne esce un fioco sbuffo rauco. Troppo poco per un essere umano, figurarsi per una cantante. 

Come è stato possibile farsi così male? La verità la sa: la verità è che l’amore è un nodo stretto stretto attorno all’anima. Le sue canzoni ne sono piene, d’amore che fa male. “I loved him so well, so very, very well, That I built him a bower on my breast”, diceva una di queste. Shirley aveva fatto lo stesso, facendo del suo corpo un riparo esclusivamente per lui. Quando però tutto è crollato, spazzato via dal presagio di quei versi, qualche detrito si deve essere incastrato tra il cuore e la gola. Dev’essere per questo che non esce più alcun suono. Tutti continuano a dire che il suo è un rifiuto inconscio. Le basterebbe una vacanza e tutto tornerebbe come prima. Dovrebbe tornare a voler parlare, tutto qui. Shirley rinuncerebbe a un braccio per ricominciare a cantare. Vorrebbe gridare, gridare, gridare fino a lacerarsi le corde vocali. Le piacerebbe essere come la protagonista di quel brano che lega un giunco di salice verde attorno al cappello in attesa che il suo amante torni: in questo modo si tratterebbe solo di un voto, e la pena avrebbe un termine. Invece la sua pena si è tramutata in una condanna inflessibile, severa, beffarda nel suo manifestarsi così duramente nelle sembianze impalpabili di un’assenza. 

Ogni tanto, anche se con sempre meno frequenza, Shirley fa un tentativo. Si sforza di dimenticare tutto, chiude gli occhi e svuota la mente. Poi, inscenando un risveglio improvviso, sputa di fretta una parola, come se prendendo alla sprovvista le corde vocali potesse eludere la loro sorveglianza. Anche quella sera Shirley ha in mente di darsi una chance. Si stiracchia allungando le braccia verso il cielo, dietro la nuca. Si guarda attorno e accenna qualche passo verso il tinello. All’improvviso però si butta sul divano gonfio di cuscini. Solo allora, girando di scatto la testa e facendo schioccare la lingua, mette in atto il suo stratagemma. Strabuzza gli occhi e in un attimo la delusione per non essere riuscita ad emettere alcun suono viene sostituita da un sincero stupore. Di fronte a lei, ad una spanna dal naso, levita un opalescente anello di vapore. 

Si stropiccia gli occhi ma lui è ancora lì, sebbene più fioco. Gira lentamente attorno al proprio asse mentre i suoi confini si fanno via via indistinguibili, finché non rimane altro che un inconsistente luccichio, e in un attimo quello strano grumo di fiato scompare nell’atmosfera immobile della stanza. Shirley è attonita. Possibile che si sia sognata tutto? Prova a far uscire il fiato come prima, a tossicchiare, a sputare aria, ricercando quello che potrebbe essere stato… l’effetto di… condensazione! Sì, l’effetto di condensazione dovuto a... dovuto ad un’espansione adiabatica dell’anidride carbonica contenuta nell’aria che esce dai polmoni! Non accade nulla. Lo sberluccichio di un timido sole che buca le nuvole grasse e piovose filtra dalle tende orlate e inonda la stanza di una patina cremisi, che ben si accorda con il momento, facendo come da cornice a quell’attimo di incredulità. 

Nei giorni successivi Shirley quasi dimentica il suo dolore, o meglio il suo dolore è come sigillato in un involucro: presente – sempre - ma contenuto. Il suo appartamento è diventato parte di quel morbido e rassicurante sigillo che tiene avviluppato lo scorrere del tempo, come in un sotto-vuoto incerto, non del tutto sterile, perché c’è pur sempre il pulviscolo che vortica lento alla luce del primo mattino e si posa sugli strumenti musicali e le mensole, gli odori gonfi del cibo che ribolle e soffrigge, le evacuazioni quotidiane, la noia e le lacrime. Tutto però è come attutito, soppesato e controbilanciato da una forza opposta che sembra voler tirare giù quel demone che invece vorrebbe librarsi in un volo tremendo e divorare ogni spazio, come un bombardiere nazista, o un rapace affamato. La sensazione è quella di un intorpidimento dei sensi, come se la mente fosse rimasta schiacciata sotto il cuscino e al mattino, al risveglio, sentisse le formichine pizzicare dappertutto, lasciando la coscienza offuscata e pigra. 

Col passare del tempo, però, ciò che era stato ricacciato in basso trova modo di infiltrarsi oltre la cortina di insensibilità vigile di quelle settimane. E il dolore torna. Si ripresenta bussando forte, come un esattore spazientito tenuto troppo a lungo fuori dalla porta. Ci si dimentica troppo in fretta del male, quando questo passa. Il corpo è formidabile nel depurare in un attimo ciò che per mesi, anni, si è accumulato scavando solchi profondi. E così Shirley ha già fatto in tempo ad illudersi che quello spiraglio di pace non si sarebbe più chiuso. Ripiombare nella disperazione e non poterla esprimere a parole, che tortura! Più Shirley si strugge, però, più l’esigenza di recuperare il perduto stato di quiete si fa pressante, essenziale. Nelle pause concesse dalle crisi di pianto e dai silenzi catatonici (ironia della sorte, si può stare in silenzio anche da muti), prova a rievocare il suo grumo di fiato, affinché avviluppi ogni cosa nei suoi contorni magici. Niente di più difficile: quando si conosce il rimedio ecco che questo si fa inaccessibile, restio a concedersi con tanta facilità. A volte sapere le cose rende tutto più difficile. È proprio quando Shirley sta per abbandonare ogni speranza, però, che il miracolo si ripete. Dopo un pomeriggio inerte frastagliato da singhiozzi di sonno scuro, Shirley sente l’impulso di sputare una parola a caso. Magari un nome. Magari quel nome che la fa tanto soffrire e che le è andato di traverso. Senza pensarci un secondo il meccanismo inceppato della sua vocalità innesca quella strana reazione, e l’anello luminescente è di nuovo lì, a un palmo di naso da una Shirley che ora piange di gioia, ben sapendo che quello è il sigillo di una nuova tregua. Una vacanza. 

E questa volta la tregua è più profonda e meno ottundente. Il cervello lavora, elabora piano, macina ricordi e tesse trame. Il tempo passa incredibilmente lento, ma dolce e paziente come l’effetto di erosione sulle montagne. Shirley sa di non poter evitare le ricadute della sua malattia dell’anima, ma sa anche che con un po' di dedizione le sarà possibile esorcizzare il patimento grazie alla sua nuova abilità. Le parole depositate nel fondo del cuore formano una condensa ad alta concentrazione, e quando questa entra a contatto con l’atmosfera vi si scioglie, formando una barriera protettiva, un balsamo di corpuscoli invisibili ma invincibili nel trattenere i demoni dispettosi. 

La vita andrà avanti a cicli, e ogni cerchio allargherà il suo diametro, tratteggiando una circonferenza più ampia. Entro quei cerchi in espansione Shirley coltiverà la sua pace, forse, e il ricorso all’espediente dei suoi sbuffi muti si farà sempre più controllato. E sempre più rado. Incredibile pensarci, si dirà Shirley durante uno dei suoi ultimi tentativi: questa volta mi è sembrato che assieme al grumo di fiato sia uscito un suono. Flebile, ma era un suono. E aveva tutta la consistenza ineffabile di una melodia.
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