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Caro Giovanni (una lettera)


Caro Giovanni Lindo Ferretti, 

sono uno dei tanti che, da anni, ascolta la tua musica, segue il tuo percorso pubblico e accoglie le tue riflessioni con interesse (e, devo dire, con una certa apprensione). Mi sono chiesto sovente il perché: solitamente non concedo tutta questa rilevanza alle dichiarazioni degli “artisti”, e tendo a separare l’oggetto artistico dalla persona che lo produce. Credo che alla base di questo ci sia la convinzione (o il pregiudizio) che l’artista sia una creatura insopportabilmente vanitosa che, confondendo il proprio talento con la prova di possedere una sensibilità superiore, corra sempre il rischio di dire banalità confondendole per oro. Le tue parole, invece, hanno un insolito peso specifico ed è come se mi riguardassero direttamente. Ho il sospetto che questo effetto non sia del tutto casuale. Immagino che tu abbia imparato a comunicare adeguatamente con un pubblico fatto di persone che non conosci ma che hanno sviluppato una sorta di indebito rapporto intimo con la tua figura, nel bene e nel male (c’è chi ti scomunica e chi ti razionalizza, chi ti sconfessa e chi ti capisce, tutti ti interpretano). Addirittura chi scrive su di te finisce con lo scrivere come te. È come se il Lindo Ferretti pubblico che, nella musica e nelle interviste, parla del Lindo Ferretti privato, sia il frutto di un dosaggio cosciente: mi sfugge sempre un sorriso quando parli recitando i tuoi stessi aforismi. Tutto questo, però, mi pare che tu lo faccia senza mai abbandonarti all’autoillusione: il mea culpa, il richiamo alla vanità, l’autodafé, testimoniano un confine, un limite consapevole tra essenza e rappresentazione. È così? 

Allo stesso tempo, però, il palco, la telecamera, il microfono, la pagina, sono anche occasioni di testimonianza. In questo, forse, sta la problematicità della tua figura pubblica: se molti si illudono che possa esistere un’assenza di mediazione tra palco e pubblico, tu dai l’impressione di essere cosciente di ciò che si frappone tra i due piani. Questo crea una tensione, un’attenzione particolare nella scelta dei toni e delle parole (lo noto sia nelle tue canzoni sia nelle tue dichiarazioni) che induce chi legge o ascolta a mettersi alla ricerca di segni, di significati (che forse non ci sono). Mi chiedo se le mie siano speculazioni oppure facciano parte anche delle tue riflessioni. Certamente sei consapevole dell’esistenza di un interesse nei tuoi confronti, e trovo interessante immaginare quali siano i confini che tu ti sei (im)posto per gestire questo aspetto della vita: l’essere di rilievo per gli altri. 

Fatte queste premesse ti confesso che trovo piuttosto ambigua la tua critica alla modernità: da un lato perché è romantica e ideologica (il passato è visto come dominato da una regola armonizzante, capace di alleggerire anche la brutalità), dall'altro perché integra elementi che stonano sia con la tua dichiarata volontà di raccoglimento (mi riferisco al rumoroso e violento baraccone politico della destra identitaria), sia con il tuo prestare il fianco alla retorica di questa nuova destra, appiattita sulla brandizzazione - cosa tutt'altro che mistica - dei valori tradizionali. 

La modernità, in fondo, non si contrappone nettamente alla tradizione, se non quando diviene essa stessa bandiera ideologica. Direi piuttosto che la modernità è la tradizione lasciata libera di camminare. Chi invece vuole fissare la tradizione in normatività ne blocca ogni spinta genuina e autentica. La consapevolezza della grettezza della contemporaneità non dovrebbe essere la scusa per volerla costringere in forme sformate. Non ne faccio una questione di coscienza, che come tale è e deve rimanere libera (e questa, credo, è una delle conquiste più alte del pensiero laico e liberale). Ne faccio una questione di integrità e coerenza: chi crede che l’identità urlata, semplificata, categorizzata sia la soluzione ai mali del mondo non fa altro che plasmare un feticcio di ciò che potrebbe essere più alto, più bello, più vero di com'è. E che verità c’è se l’identità è costrizione, coercizione, confronto brutale e asfittico, mimesi grossolana e conformista? Per questo non vedo nella Meloni (nella politica Meloni) un esempio di virtù: semmai riconosco la sua creatività nel rimasticare vecchi adagi con parole nuove (ritorniamo all'ego degli artisti, quindi). Ma che virtù c’è nel dissimulare, nel non parlare chiaro, nel mettersi al servizio di forze che compattano e schiacciano ciò che invece dovrebbe potersi dispiegare? Che virtù c’è nel mettere al centro dello scontro ideologico questioni private (come la maternità, la fede?) facendone slogan pubblicitari? Che virtù c’è nell'asserragliarsi nella difensiva rabbiosa dell’animale che si sente in trappola? Forse qualcuno impedisce a questi orfani dei bei vecchi tempi andati di dire, fare e credere ciò che vogliono? 

Prima scrivevo che è come se le tue parole mi riguardassero direttamente, ma in fondo il punto è che riguardano direttamente la generazione di cui faccio parte (che è una generazione estesa, direi storica più che anagrafica), una generazione che vive con sconcerto e disorientamento il crollo del Novecento e che non vuol limitarsi a registrarlo o assumerlo su di sé come il peccato originale. Per questo alcune parole toccano la carne viva: perché paiono assecondare lo svilimento della riflessione e la negazione della forza vitale delle possibilità insite in questo pur contraddittorio navigare a vista nel presente. 

 …Ma sono piccole cose, in fondo, quelle della politica. Era da molto che volevo scriverti, anche solo per manifestarti la mia stima, e spero che le mie divagazioni non ti abbiano dato troppa noia. Un abbraccio e un augurio, 
Matteo
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Valle d'Aosta: dieci anni costituenti


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INTRODUZIONE 

Il lungo decennio 2007-2020 ha inaugurato una nuova fase di carattere economico e politico per la Valle d'Aosta, durante la quale sono crollate le fondamenta del quarantennale consenso politico unionista ed è mutato irreversibilmente il tessuto socio-economico valdostano. La crisi finanziaria prima e quella dei debiti sovrani poi hanno determinato l’ulteriore marginalizzazione del territorio valdostano, già duramente compromesso dalla ristrutturazione degli anni Settanta e Ottanta. Una fase, quella, attutita dalla legge sul riparto fiscale e dal conseguente afflusso “illimitato” di risorse finanziarie, capaci di ammortizzare gli effetti altrimenti devastanti della crisi dell’industria: nonostante la continua deindustrializzazione e desertificazione produttiva del territorio, la Valle d’Aosta ha conosciuto decenni di stabilità grazie al patto sociale clientelare-assistenzialista della classe dirigente unionista (oltre che dei suoi satelliti). 

Un patto che non ha coinvolto tutte le categorie economiche, ma che ha saputo consolidare un blocco di interessi solido e fidelizzato, fondato anche, come hanno dimostrato le recenti inchieste giudiziarie, sui rapporti di lungo periodo con esponenti della criminalità organizzata. La fase attuale si apre invece con la riforma del federalismo fiscale e la legge di stabilità del 2011, che hanno comportato il ridimensionamento della disponibilità finanziaria della regione, con la soppressione della compartecipazione all’imposta sul valore aggiunto. Nonostante un bilancio relativamente alto e un livello di spesa pro-capite tra i maggiori d’Italia (sebbene in calo), la nuova configurazione normativa (nazionale e comunitaria) impone una più oculata razionalizzazione delle risorse e una minore discrezionalità in merito al loro impiego. Si sono così incrinate irrimediabilmente le condizioni di stabilità dell’assetto politico, a sua volta condizionato da problemi interni (l’incapacità di esprimere un ricambio della classe dirigente e una credibile proposta di sviluppo) e infine delegittimato dalle indagini sull’utilizzo dei fondi dei gruppi consiliari e, soprattutto, dal terremoto delle inchieste sul radicamento della ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. 

La frammentazione estrema della politica valdostana poggia le sue basi nel più ampio processo di scomposizione politico-economica e di ininterrotti scandali giudiziari. La crisi legata alla pandemia, nonostante un precario effetto politico di ricompattamento attorno alle forze moderate, non ha fatto che inasprire le tendenze di lungo corso, pesando su un’economia sempre più precaria e su lavoratori e lavoratrici sempre più confinati in settori a basso reddito e a scarse tutele. Nel frattempo, però, corpi “estranei” al contesto valdostano si sono sviluppati e rafforzati nutrendosi sia di parte dell’elettorato autonomista che di quello moderato-progressista, sia di fasce finora ininfluenti o marginali da un punto di vista politico (si consideri, in questo senso, la fugace scalata del M5S e il più consistente consolidamento della Lega). 

Ci troviamo a vivere in una crisi costituente, che intercetta e declina la più ampia e secolare crisi del capitalismo neoliberale, la quale determina fratture profonde negli equilibri delle democrazie liberali occidentali, funestate da rigurgiti reazionari, tendenze oscurantiste e spinte disgregative. Si apre, però, un campo di possibilità. È in questo campo che occorre trovare le condizioni per una svolta progressista ed emancipativa. 

I. CONTESTO ECONOMICO 

La Valle d’Aosta è da tempo una realtà post-industriale, per quanto esistano poli di specializzazione e importanti realtà storicamente consolidate. In un contesto caratterizzato, tra il 2007 e il 2019, da una riduzione del numero delle imprese pari al -14,5%, il settore industriale ha perso numerosi posti di lavoro (20,4% tra il 2008 e il 2019), dinamica confermata da una contrazione delle attività manifatturiere pari al -1,1% nel 2019 e esacerbata dalla crisi del comparto delle costruzioni (che ha conosciuto una perdita occupazionale del 34%). Non è tuttavia immaginabile l’abbandono di una strategia di rilancio del settore secondario, che deve essere ristrutturato e ammodernato, e che deve essere incluso in una più ampia strategia di sviluppo economico sostenibile, tecnologicamente avanzato, energeticamente efficiente e socialmente inclusivo, nonché capace di dare origine a processi di agglomerazione e di sviluppare forme di connessione reticolare tra unità produttive e tra comparti (ispirandosi, inoltre, a modelli di economia circolare), oltre a fornire un contributo in termini di innovazione tecnologica e attrazione sul territorio di settori ad alta intensità di capitale.

La mancanza di un settore capace di trainare l’economia locale è aggravata dagli ampi divari territoriali riscontrati sul territorio valdostano. Il turismo è infatti un settore che si concentra nell’Alta Montagna, mentre la Media Montagna e la Campagna urbanizzata (dove ha sede un settore agricolo potenzialmente innovativo e dove si hanno i tassi di vecchiaia più bassi d’Italia) si collocano su livelli del valore aggiunto simili ad alcune regioni del Mezzogiorno. Per quanto riguarda il Capoluogo (dove è più alto il livello di senilizzazione della popolazione) è l’amministrazione pubblica il vero traino in termini di valore aggiunto pro-capite. Questa grossolana tripartizione (cui si potrebbe aggiungere la concentrazione industriale della bassa valle) suggerisce una profonda fragilità strutturale, legata alle fratture e alle discontinuità territoriali di una regione dove i salari privati rimangono bassi rispetto alla media nazionale, dove la disoccupazione ha conosciuto una forte accelerata a partire dal 2010-2011 e pare recuperare solo di fronte a un aumento degli inattivi, e dove proprio i settori in crescita durante gli anni passati (il turismo e il settore alberghiero) si trovano ora ad affrontare enormi difficoltà legate all'emergenza sanitaria, unendosi così alle imprese del commercio, dell’agricoltura, delle attività immobiliari e del settore industriale. 

Le difficoltà, tuttavia, sono frutto di un’eredità storica: un’economia dominata dalla piccola e micro impresa, tipicamente sotto-capitalizzata (e quindi incapace a reggere shock improvvisi o prolungati periodi di crisi), dove i salari sono tendenzialmente più bassi, dove i settori ad alto valore aggiunto scarseggiano, dove la produttività ristagna, così come gli investimenti, e dove manca una coerente e lungimirante politica industriale e di sviluppo. In tale contesto di precarietà e frammentazione produttiva non si può immaginare un rafforzamento strutturale del mondo del lavoro: senza un piano di uscita dalle condizioni di valorizzazione capitalistica, le condizioni dei salari e dell’occupazione dipendono dalla capacità del sistema economico di produrre ricchezza e crescita. Il mercato, tuttavia, non è in grado di coordinare un processo virtuoso e generalizzato di sviluppo rispettoso delle persone e dell’ambiente: serve per questo un forte ruolo di strumenti di programmazione e pianificazione pubblica, uniti a sforzi altrettanto consistenti per demercificare e democratizzare il più possibile i processi che coinvolgono l’occupazione e l’organizzazione del lavoro. 

Lo sviluppo di un welfare pubblico inclusivo e non assistenzialista, oltre alla promozione di forme cooperative di impresa (assieme a strumenti di recupero d’impresa e maggiore partecipazione dei lavoratori all’interno delle imprese) e al sostegno e al rafforzamento del terzo settore, vanno coniugati con un piano di investimenti nei settori innovativi e a maggiore prospettiva di sviluppo, di formazione e qualificazione dei lavoratori, di incentivazione di rapporti di lavoro stabili, a tempo indeterminato. La presenza di settori in permanente affanno va a pesare sulla vita di chi in quei settori lavora. Occorre dunque investire sul rafforzamento dei processi di potenziamento effettivo del ruolo dei lavoratori e delle lavoratrici (che siano autonomi o dipendenti) all’interno di un duplice paradigma: quello della programmazione pubblica degli investimenti e delle principali direttive di sviluppo regionale e quello della maggiore interconnessione e autonomizzazione degli operatori economici (le interconnessioni tra imprese risultano contenute rispetto al dato medio italiano), all’interno di un quadro complessivo dove il sostegno pubblico si coniughi con un potenziamento reale degli attori dello sviluppo locale. 

II. CONTESTO POLITICO 

L’autonomismo rappresenta oggi più che mai una risposta conservatrice e inadeguata, incapace di delineare una via d'uscita coerente e realistica ai problemi e alle fratture sociali emersi durante il lungo decennio di crisi. Per quanto la tendenza conservatrice sia sempre stata un elemento costitutivo della narrazione autonomista, la sua funzione regressiva e difensiva (invece che affermativa) è esacerbata dalla crisi di egemonia che investe il gruppo dirigente dell’Union e i suoi svariati satelliti e contendenti. L’arretramento politico (la compagine autonomista valeva quasi l’80% nel 2013, scendendo al 42% nel 2020) e la perdita di presa ideologica in tempi di ristrettezze finanziarie ne indeboliscono la capacità di controllo del territorio, mentre gli scandali giudiziario-morali ne hanno eroso la credibilità e l’autorevolezza, oltre che l’agibilità politica (in questo senso vanno letti sia i tentativi esterni di minare il ruolo del Presidente-Prefetto, sia quelli di promuovere una legge elettorale presidenzialista). 

Tutti questi “colpi” hanno determinato una involuzione identitaria e una più venale lotta per il potere: da una parte la ricerca di una nuova purezza - in chiave neanche troppo sottilmente etnica - ha portato all’espulsione delle componenti “estranee” (in particolare quelle calabresi, oltre a qualche capro-espiatorio interno) dai propri ranghi, determinando un rischioso divaricamento tra componenti sociali, dall’altra lo scontro tra fazioni ha infittito la frammentazione politica. L’insistenza identitaria, comunque la si voglia declinare, rappresenta un arretramento verso posizioni microsovraniste di chiusura e di rivendicazione di esclusività particolaristica ed escludente. La risposta agli stimoli esterni, sempre visti come potenzialmente minacciosi in quanto disgregatori della “comunità” locale, è sempre illustrata nei termini di un “Noi” coeso e unitario contro un “Loro” definito arbitrariamente. 

La prevalenza del soggetto comunitario sul variegato tessuto sociale rende dunque particolarmente inefficace la risposta politica di fronte alla frammentazione socio-economica determinata dal lungo decennio di crisi. In questo contesto il ruolo della destra è particolarmente preoccupante e trova un inedito terreno fertile. Per decenni gli spazi di agibilità e di rappresentanza della destra (tanto quella moderata quanto quella più radicale) sono stati occupati dalla “balena rossonera” e dalla sua retorica dell’equidistanza opportunistica (ni droite ni gauche) in nome degli interessi locali. Oggi la crisi della classe dirigente autonomista e della sua rispettabilità percepita aprono spazi consistenti per un ricambio del ceto politico e per un ruolo inedito di forze che mai avevano attecchito nell’agone elettorale e nella rappresentanza delle istanze sociali. Sotto questa luce va’ vista la consistente forza acquisita dalla Lega: un processo certamente guidato dalla ribalta nazionale e dall’operazione di trasformazione nazionalista e populista operata da Salvini, ma capace di attecchire in Valle d’Aosta proprio grazie agli spazi lasciati aperti dalla crisi della storica nomenclatura locale. Spazi entro cui un ceto sociale prima sufficientemente tutelato dalla classe dirigente localista, oppure marginalizzato e schiacciato sotto la sua mole (penso alle frazioni superiori delle libere professioni e del commercio), può ora trovare occasioni di rappresentanza e rilevanza, nella lotta per l’accaparramento di risorse scarse e per la rivendicazione di un maggiore peso politico. 

Non vanno certo sottovalutati gli appigli reazionari ed escludenti propri della narrazione etno-redistributiva della Lega salviniana (narrazione che ha trovato peraltro terreno fertile nella retorica comunitaria e identitaria autonomista), ma la rivalsa leghista ha una sua specifica configurazione legata al ricambio della classe dirigente, oltre che alla “questione morale” che investe l’autonomismo valdostano. La frammentazione sociale, l’aumento delle disuguaglianze e i processi di impoverimento relativo di lavoratori e lavoratrici non fanno che creare terreno fertile per un ulteriore radicamento delle istanze populiste di destra. Il centrosinistra valdostano non ha saputo inserirsi adeguatamente in questo processo di scomposizione, mantenendo un profilo subalterno e condizionato ai posizionamenti del mondo autonomista, senza mostrare un profilo autonomo e in grado di imporre al dibattito pubblico e agli alleati di governo temi specifici e distintivi. 

Il Partito democratico è stato travolto dalle inchieste legate alle spese dei gruppi consiliari, dimezzando i propri voti e non riuscendo ad eleggere alcun consigliere nel 2018: un vuoto coperto, a riprova dell’esistenza di un consistente spazio per una proposta progressista, dalla coalizione di Impegno Civico. Una coalizione, tuttavia, particolarmente legata a nomi provenienti dalla diaspora autonomista (con il 30% delle preferenze attribuibili a un solo candidato) e legata ai flussi elettorali in uscita dal centrosinistra locale. Il Partito democratico è oggi riuscito a rientrare in Consiglio regionale solo grazie a un’opportuna politica di alleanze, ma riveste un ruolo minoritario all’interno di un sistema (conflittuale) di rapporti di forza. 

Entro questa dinamica pare esserci spazio potenziale per colmare il vuoto rimasto aperto a sinistra, coltivando una linea alternativa e indipendente che sappia inserirsi negli spazi lasciati aperti dall’assenza sostanziale di una formazione per il Lavoro e per l’Ambiente, di ispirazione antiliberista e di sinistra in Valle d’Aosta. 

III. DALLA PARTE DEL LAVORO 

La composizione sociale della Valle d’Aosta ha conosciuto profondi mutamenti nel tempo, alcuni di questi ancora in via di sviluppo. Nel 2017 il reddito pro-capite e la spesa per consumi delle famiglie non avevano ancora recuperato i livelli del 2007, per un’erosione sostanziale della ricchezza pro-capite. In questo processo di erosione progressiva dei livelli di benessere che avevano storicamente caratterizzato il territorio valdostano, si sono approfonditi i divari interni al mondo del lavoro: le condizioni lavorative sono peggiorate, in linea con la dinamiche di dequalificazione e frammentazione del mondo del lavoro su scala nazionale ed europea. 

Da un lato, sul piano demografico, è diminuita la componente lavorativa delle fasce più giovani, parallelamente all’aumento della quota di lavoratori ultracinquantacinquenni: segno non solo della scelta giovanile di abbandonare, a favore di altre regioni o dell’estero, un mercato locale poco orientato al ricambio generazionale, poco innovativo e caratterizzato da un basso livello di qualificazione, ma anche dell’esistenza di forti barriere all’ingresso, come dimostrato dall’elevato tasso di disoccupazione giovanile (21,7% nel 2019). Dall’altro le condizioni contrattuali e retributive del lavoro sono peggiorate fortemente: aumentano i part-time (+36,5% tra il 2007 e il 2019) e gli avviamenti a tempo determinato (43mila nel 2019, pari all’89% degli avviamenti, 15mila in più rispetto al 2009; nel complesso il lavoro a tempo determinato è cresciuto del 50,7% tra il 2007 e il 2019), con un'incidenza del 18,6% dei lavoratori assunti con contratti a termine e un aumento dei lavoratori irregolari. 

A livello retributivo, inoltre, la Valle d’Aosta è caratterizzata da livelli salariali più bassi della media italiana nel settore privato, segno dell’inadeguatezza della struttura produttiva locale. Tra chi subisce maggiormente questa situazione troviamo i giovani, le donne, gli stranieri, i dipendenti delle micro-imprese. Come se non bastasse, la crisi legata all’emergenza sanitaria ha interrotto i segnali di ripresa dell’occupazione e ha comportato un forte calo degli avviamenti rispetto al 2019. Per quanto riguarda il personale pubblico ha pesato, a partire dal 2012, il blocco del turnover, che ha limitato le assunzioni e ha portato a un calo consistente dei dipendenti pubblici, colpendo in particolar modo gli assunti con contratti flessibili (la cui quota è scesa dal 18 al 6% tra il 2008 e il 2018). La crisi legata all’emergenza sanitaria peserà particolarmente, e in parte ha già pesato, sui lavoratori stagionali, sui lavoratori autonomi (gli indipendenti sono diminuiti del 14,7% tra il 2008 e il 2019, con un particolarmente calo delle lavoratrici indipendenti), sugli addetti del commercio, sui contratti precari e a tempo determinato, sulle donne, sugli stranieri e sui giovani. Molti di questi lavoratori sono concentrati nel settore del turismo, del tempo libero e della ristorazione, tra quelli più colpiti dalle restrizioni legate all’epidemia. 

Il malcontento, la perdita di reddito, l’erosione della sicurezza economica e occupazionale sono dinamiche che si sommano a una crisi di lungo periodo che investe svariati settori dell’economia valdostana. Una disgregazione del tessuto sociale che avviene parallelamente all’erosione dei servizi pubblici territoriali, sempre più carenti, inefficienti e esclusivi. Una tale pressione non può che comportare consistenti cambiamenti, sia a livello della tenuta sociale che a livello di turbolenze del quadro politico (ne è un esempio l’elevato tasso, ormai strutturale, di astensionismo). 

Serve dunque ridare centralità al mondo del lavoro, dando voce e rappresentanza a una soggettività ampia e trasversale che comprenda le componenti tradizionali dell’occupazione dipendente e le nuove identità occupazionali marginalizzate e precarie. Occorre costruire un’alleanza di classe tra il blocco dei lavoratori e lavoratrici della conoscenza, dell’istruzione, del campo socio-sanitario-assistenziale, e le frazioni di classe emergenti, in declino o a rischio di arretramento (oppure quelle che si vedono tarpare le ali dalle attuali - disfunzionali - relazioni di produzione e di potere). Occorre proporre una visione emancipatrice e unificante capace di uscire dalla narrazione dell’assedio e del contrasto tra lavoratori tutelati e non tutelati tipica della destra, costruendo invece legami solidaristici e unitari tra precariato giovanile, dipendenti del ceto medio e della classe popolare, autonomi appartenenti alle fasce relativamente più precarie e subordinate del mondo del lavoro indipendente (lavoratori a progetto, freelance, lavoratori esternalizzati e a monocommittenza, formatori ed educatori), all’interno di un quadro che sappia unire una prospettiva di rilancio economico e una strategia di uscita dalla precarietà e dalla marginalità, e che al contempo privilegi una strada cooperativa e solidaristica intersezionale. 

Servono proposte innovative e realistiche per porre le basi di una tale alleanza sociale: misure per il recupero di impresa, per la riconversione cooperativa delle imprese in fallimento o in difficoltà (in particolare nei settori emergenti), oltre a strumenti per incentivare le alleanze reticolari e consortili tra micro/piccole imprese, misure di incentivazione dei contratti a tempo indeterminato, potenziamento del campo di azione degli operatori di settori emergenti o ad alto potenziale di sviluppo, unitamente a una rivalutazione del ruolo di un welfare universalistico e di un settore pubblico a sostegno dei processi virtuosi ed emancipatori in campo economico e sociale. È necessario coprire il vuoto lasciato da decenni di politiche ciecamente localiste e prive di qualsiasi prospettiva di lungo periodo. 

NOTA A MARGINE - Piccole imprese

La Valle d’Aosta è dominata dalla piccola e micro-impresa (le imprese con 0-9 addetti rappresentano il 95% del totale). Di questo fatto va tenuto conto per la ricerca di analisi e di soluzioni realistiche alle problematiche socio-economiche del territorio. Tuttavia va notato come il valore prodotto dallo 0,1% delle imprese valdostane (4 unità con almeno 250 addetti) sia pari al 25,6% del totale, a cui si potrebbe aggiungere il 13,5% delle imprese con 50-249 addetti (che sono lo 0,5%, cioè 68 unità). Quasi il 40% del valore aggiunto valdostano è prodotto da una settantina di imprese, il restante da oltre 11mila (dati Unioncamere-Sisprint). 

Nota politica: Occorre individuare linee di azione comune che coinvolgano i settori più precari e disgregati del mondo del lavoro, tanto di quello dipendente che di quello autonomo, in un processo di costruzione di rivendicazioni e strategie capaci di ridefinire un blocco progressista politico-sociale fondato sul lavoro. Non vanno trascurati gli elementi della piccola e micro-impresa e del lavoro autonomo disposti ad abbandonare la retorica proprietaria e competitiva in nome di strategie reticolari, mutualistiche e cooperative. 

Nota economica: Le piccole e micro-imprese valdostane si concentrano in particolare nei seguenti settori: imprese artigiane (manifatturiero e costruzioni), del commercio, dell’alloggio e della ristorazione, senza contare le attività professionali e scientifiche. 

Problemi tipici della piccola impresa. In Italia le retribuzioni medie nelle piccole imprese sono poco più della metà di quelle nelle imprese maggiori. Il fenomeno è legato alle caratteristiche proprie della piccola impresa, tenendo anche conto della loro incidenza in settori specifici. Una prevalenza di piccole imprese operanti nel settore dei servizi, dove il valore aggiunto e soprattutto la produttività sono particolarmente bassi, comporta di conseguenza basse retribuzioni (oltre a un maggior numero di ore lavorate, una minore creazione di occupazione, una minore spesa in investimenti) e una sensibilità alla competizione tutta spostata sull’elemento di costo (principalmente del lavoro). 

Il miglioramento delle condizioni del lavoro dipende da dinamiche oggettive, economiche. In un sistema capitalistico i salari dipendono dal processo di accumulazione capitalista. Con ciò occorre, entro i limiti del possibile, tentare di inserirsi nei processi in atto per innescare processi di scala capaci di rispondere ai problemi oggettivi e alle fragilità della piccola impresa. Uno degli esempi storici di come tale salto di scala sia stato realizzato in un contesto di piccole unità produttive è quello dei distretti industriali. Un modello di cui tenere conto ma, allo stesso tempo, da adattare non solo ai tempi nuovi (quelli della digitalizzazione e dell’economia della conoscenza), ma anche a forme nuove e innovative di “socializzazione” della produzione e della ricchezza. Oggi si possono immaginare modelli a rete, forme di cooperazione tra unità imprenditoriali, sistemi mutualistici di sostegno e di welfare per il lavoro autonomo, consorzi di operatori, strumenti di sviluppo pubblico di piattaforme digitali, ecc. 

L’obiettivo comune a tutte queste ipotesi è quello di attivare e rafforzare gli elementi virtuosi presenti nelle piccole imprese (in termini di flessibilità, di creatività, di motivazione, di professionalità) sfruttando al tempo stesso i vantaggi di scala derivanti dai processi di agglomerazione. I vantaggi aggregativi derivanti dalla messa in connessione delle singole unità possono essere di diverso tipo: diffusione delle conoscenze, compartecipazione del rischio, riduzione dei costi, maggiore capitalizzazione e internalizzazione delle imprese, aumento delle risorse disponibili per investimenti, del rafforzamento della forza contrattuale, maggiore capacità di resistenza ai processi di assorbimento da parte delle grandi unità, ma anche inserimento nei circuiti di welfare aziendale, senza contare la possibilità di ridefinire, attraverso una maggiore capacità di pesare nel contesto locale da parte di “culture professionali diffuse”, il ruolo delle politiche pubbliche di sviluppo economico.


Fonti:

- Da una crisi all'altra: economia e società di fronte alla pandemia. Nota sulla situazione economica e sociale della Valle d'Aosta - Anno 2020

- Una ripresa dal passo incerto: segnali positivi, criticità e disomogeneità dei trend. Nota sulla situazione economica e sociale della Valle d'Aosta - Anno 2019 

- Banca d’Italia, Economie regionali, L’economia della Valle d’Aosta, giugno 2011-2020 Ires-Cgil, Analisi economica della Valle d’Aosta, Tendenze di breve periodo, 2019

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Le conseguenze della solitudine

 


 

Di Matteo Amatori


«Si nasce e si muore soli». Me lo ha ripetuto spesso una persona a cui ho voluto bene. Devo essere sincero, non sono mai riuscito a dare a questa espressione un peso specifico. Mi è sempre sembrata una frase che vuole esprimere un fatto profondissima ma privo di un collegamento ad un (mio) dato esperienziale.

Di recente, di fronte alla prospettiva di un nuovo lockdown, mi è tornata in mente questa frase e, paradossalmente, ora mi sembra abbia acquisito un senso e un riscontro con la realtà che ho già vissuto e che mi appresto a rivivere nuovamente.

Il lockdown e il conseguente isolamento producono effetti collaterali particolarmente dannosi. Amplifica le fobie, le ansie, aumenta gli stati di paranoia e, conseguentemente, produce anche effetti regressivi nelle relazioni e nei rapporti interpersonali. L’isolamento forzato, conseguenza della pandemia in corso, ci mette a nudo. Ci obbliga a ragionare su qualcosa che non ha a che fare con l’esperienza della vita ma semmai con la dimensione della morte.

L’isolamento ha il volto e le sembianze di una morte anticipata.

L’identità si nutre di un confronto costante con sé stessi e con gli altri. Se è pur vero che il ruolo che abbiamo assunto nel tempo nei confronti di tutte le persone che fanno parte della nostra vita non cessa in un periodo di isolamento, la difficoltà di condivisione dell’esperienza della solitudine forzata accresce ancora di più la nostra distanza con gli altri.

La solitudine aumenta l’introspezione e accentua il dialogo interiore. Ma un eccesso di solitudine ci porta, col tempo, a costruire barriere e a cambiare il nostro rapporto con la realtà. Realtà che viene reinterpretata più volte proprio a seguito del nostro fitto dialogo interiore. Quando la realtà non è più condivisa con altri, l’interpretazione stessa della realtà cessa di essere “negoziata”. In questo modo il mondo in cui viviamo diventa a stretta misura individuale. Nel “nuovo mondo” c’è spazio solo ed unicamente per “l’io”.

In questo senso, l’isolamento produce due effetti opposti: da una parte l’individuo sperimenta un forte senso di espressione di libertà alimentando, giorno per giorno, la costruzione di un mondo a misura del sé. D’altra parte, l’individuo che si affranca dal mondo produce anche l’effetto contrario: quello della morte del “sé” in rapporto agli altri. Se viene infatti a mancare la realtà condivisa con altri viene a mancare lo spazio in cui avviene la costruzione di una parte fondamentale dell’identità di ciascuno di noi.

In tempi normali, entrambe le dimensioni, “il mondo del sé” e la realtà condivisa con gli altri, possono coesistere e convivere in maniera più o meno armonica. Ma se prevale una dimensione a scapito dell’altra il rischio è quello di perdere una parte fondamentale del nostro “sé” e quindi della nostra identità.

Anche la morte ha due dimensioni. Una strettamente “fisica”, ovvero l’assenza di vita biologica. Ma la morte è anche “immateriale”; è assenza dei meccanismi che producono le relazioni umane e che generano senso e identità per l’individuo.

Cos’è la morte se non assenza di identità? E che cosa vuol dire, in questo senso, “essere di fronte alla morte”?

Pensando alla morte ci viene subito in mente l’ultima tappa della vita, l’esperienza dell’avvicinamento di un’”assenza del sé”. Un’esperienza che nessuno può dirsi preparato ad affrontare. Esattamente come l’esperienza della nascita, di cui non abbiamo un ricordo, nessuno potrà mai raccontarci l’esperienza della scomparsa del sé e quindi della vita. Vi è quindi una totale mancanza di condivisione dell’esperienza e questo ci fa sentire legittimamente angosciati.

La solitudine e l’isolamento forzato ci nega la possibilità di un confronto con la medesima esperienza vissuta da altri. Anche se abbiamo a disposizione supporti tecnologici, come pure molteplici occasioni di confronto su piattaforme online, non riusciamo a placare la nostra esigenza di condivisione in rapporto a ciò che stiamo vivendo in solitudine. Il dialogo interiore accelera ma, all’opposto, la comunicazione con gli altri peggiora. Abbiamo come l’impressione che una parte di noi non possa emergere, possa scomparire o, peggio ancora, possa essere ignorata dagli altri. Sintetizzando, è paura di “assenza di sé”, una morte anticipata.

In questo momento molti di noi sentono rifiorire alcune sensazioni percepite durante il primo lockdown. Sappiamo a cosa stiamo andando di nuovo incontro. Ci arrabbiamo, coviamo forme di ansia ed esplodono tutte le tensioni latenti.

È un momento delicato ed ognuno di noi si trova di fronte ad una prova difficile, soprattutto chi vive da solo e lontano da famiglia e amici stretti. Non serve sottovalutare l’impatto di questa esperienza e occorre non nasconderla. Al contrario, è sano far emergere la necessità di condivisione che ciascuno di noi cova legittimamente in questo specifico momento.

 

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Il secondo tragico Matthew Lovers e l’indice di profiling ANPAL

 


 

 



 

Di Matthew Lovers

 

È un disastro. Continuo a fare figure barbine durante le mie partite a scacchi on-line serali. Serali… meglio forse definirle notturne. Alle due del mattino gioco solo contro utenti americani e canadesi. Gente orribile. Mi perculano con le loro faccine ironiche inviate in chat. D’altronde me lo merito: come ti è venuto in mente di spostare quel cavallo che teneva in piedi la tua già debolissima struttura pedonale centrale? Continuo a fare errori da principiante; sto perdendo inesorabilmente punteggio. Cristo! Forse dovrei semplicemente smetterla di giocare a quest’ora. Ma non so proprio come impegnare il mio tempo. Non voglio pensare. Se mi metto a letto so già che non dormirò ed inizierò a riflettere sul vuoto e sull’inutilità che contraddistingue l’esistenza umana. A dire il vero, mi fa molta paura la ripetitività dei pensieri che scorrono nella mia testa in queste ultime settimane. Appena chiudo gli occhi vengo catapultato in pensieri strazianti sulla morte e sul tempo che scorre. Alterno ricordi del mio passato con immagini di me su di un ipotetico letto di morte. Continuo a girarmi e a rigirarmi nel letto provando a scappare da queste immagini angoscianti. Non voglio nemmeno stordirmi con l’alcool. Stamattina ero un cadavere; quest’idea di bagnare appena la lingua con un po’ di grappa per combattere l’insonnia ha effetti pessimi sul mio fisico da trentenne in pietosa forma.

 

L’ultima notte è stata davvero un calvario.

 

Ho spento la luce all’una ma alle due del mattino avevo ancora gli occhi aperti. Mi sono alzato e ho fumato l’ennesima sigaretta; dopodiché ho riempito un altro bicchiere per la disperazione. Alla fine, mi devo essere addormentato intorno alle due e mezza. Ricordo perfettamente il sogno che ho fatto. Ho sognato di essere in guerra. Unico soldato vivo rimasto in trincea in mezzo al nulla. Ero ferito, vedevo scorrere il mio sangue ma non capivo da dove partisse l’emorragia. Ero spaventato e in affanno. Sentivo freddo ed ero completamente solo. Avevo una ricetrasmittente da cui sentivo le voci di alcuni miei cari amici. Dicevano cose totalmente assurde.

 

«Ale! Dié! Siete vivi? Dove siete?»

«Ehi Matthew! Giornata di merda, sono ancora a lavoro. Stasera ci facciamo una bevuta al Rossini?».

«Compagni! Io sono rimasto solo, ho perso il mio battaglione. Sono ferito!».

«Eh Matthew... io purtroppo non riesco a liberarmi prima delle 21:30».

«Compagni ma io perdo sangue! Sto per morire!»

«Avrai preso un po’ di freddo Matthew. Mettiti sotto le coperte, pare che giri una brutta influenza».

 

Sentivo che mi si stava gelando il corpo. Ed ero ancora più angosciato dal fatto che non riuscivo a chiedere aiuto ai miei amici.

Mi sono svegliato alle ore 04:37. Sono andato in cucina e mi sono versato un altro bicchiere. Poi ho camminato nevroticamente per casa circa un quarto d’ora. Alla fine, mi sono sdraiato sul divano e poco dopo mi sono riaddormentato. Mi sono svegliato alle 10:30 con un mal di testa devastante e un gusto in bocca orribile. Ho acceso la radio e mi sono fatto un caffè. Subito dopo me ne sono fatto un altro. Era iniziata una nuova giornata di merda. Quale senso potevo dare a questo martedì di inizio settembre? A chi avrei mandato il mio curriculum vitae oggi?


Guardo la mail e vedo subito che mi è arrivato un messaggio del centro dell’impiego e uno da parte di ANPAL (l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro). Pochi giorni prima avevo mandato la “DID” ovvero la “Dichiarazione di Immediata Disponibilità al lavoro”. Sono anni che mi ritrovo a fare questi passaggi burocratico inutili. Ci penso su un attimo: sono otto anni di esperienza continuativa nel settore del precariato, mica male. Purtroppo, sembrerebbe una contraddizione, sopravvivere a lavori intermittenti non è considerata una competenza per il mercato del lavoro. Quasi dieci anni di solida esperienza in “sopravvivenza in assenza di reddito” eppure, secondo i recruiter, pare non valga la pena di segnarlo sul CV. Un vero peccato. Continueremo quindi a scrivere le solite quattro cazzate: “laurea”, “master” e, tra le “soft skills”, inseriremo la magica frase “capacità di lavoro in team” (detto tra noi, io lavoro molto meglio da solo).

La mail dell’ANPAL mi coglie impreparato. C’è una novità inaspettata rispetto alla solita routine del disoccupato in carriera. Il breve testo della mail dice:

 

OGGETTO: DID Online - conferma aggiornamento a sistema indice di profiling

 

Gentile sig.ra/sig. MATTHEW LOVERS,


si conferma che in data 07/09/2020 è stato aggiornato il suo indice di profiling, che attualmente corrisponde a: 0.719.

Cordiali saluti


Non rispondere a questo messaggio. È stato inviato da un indirizzo di posta elettronica automatico. Non è possibile quindi rispondere ad alcun messaggio inviato da questo indirizzo.

 

Mi chiedo: che diamine è “l’indice di profiling”? All’ANPAL assumono criminologi? Calcolano le possibilità di un disoccupato di intraprendere carriere criminali? effettivamente avrebbe senso. Penso: «Ehi! Se l’indice si calcola su di una scala da 0 a 1 il mio è piuttosto alto». Dovrei darmi al crimine, finalmente una buona idea! Apro subito la Partita IVA!

Ovviamente mi metto a fare una breve ricerca e scopro che questo “indice di profiling” dovrebbe misurare il “grado di difficoltà” nel ricollocare una persona all’interno del mondo del lavoro dopo un periodo di disoccupazione. Per farla breve, se il tuo indice è più vicino allo zero sei considerato “facilmente collocabile” e “poco distante dal mercato del lavoro”. Viceversa, qualora il tuo punteggio si avvicinasse all’uno, sei un povero stronzo “difficilmente ricollocabile” e in evidente conflitto con “il mercato del lavoro”.

 

Devo dire che queste sono notizie che ti svoltano l’intera giornata. Nello specifico, il mio punteggio è inaspettatamente basso. Per l’ANPAL io sarei un soggetto che rischia una disoccupazione di lunga durata. Ma come hanno fatto i calcoli? Dalle pagine che consulto sul web non trovo nulla di dettagliato. L’unica cosa certa è che c’è un operatore dell’ANPAL che raccoglie informazioni generiche dal CV inviato al centro per l’impiego e le inserisce in una banca dati. Sinteticamente sul portale web dell’agenzia si legge che l’indice è calcolato «sulla base delle informazioni fornite in sede di registrazione. (…) gli utenti dei servizi per l'impiego vengono assegnati ad una classe di profilazione, allo scopo di valutarne il livello di occupabilità, secondo una procedura automatizzata di elaborazione dei dati in linea con i migliori standard internazionali». In sintesi: ti comunico che sei un povero stronzo. Lo faccio nella maniera più fredda e informale possibile attraverso un messaggio di posta elettronica automatizzata. Non ti dico quali sono le possibilità di “politiche attive” che hai a disposizione per migliorare la tua “occupabilità” e per ridurre quindi “la distanza con il mercato del lavoro”. E non ti dico nemmeno come abbiamo fatto i calcoli. In compenso ti assicuriamo che gli strumenti utilizzati per calcolare quanto sei un cretino fanno riferimento ai “migliori standard internazionali”. Beh, che dire… Grazie mille di tutto!

 

Decido di non fare un cazzo per tutta la giornata. Mi sembra la migliore risposta morale alle novità sopravvenute a seguito dei calcoli ANPAL. Dopo pranzo dormitina di un’ora e mezza. Mi sento più rilassato. Perché ostinarsi a cercare un lavoro? Perché sforzarsi a trovare un senso a questa esistenza? Meglio riscoprire l’ozio e recuperare le ore di sonno perse durate queste settimane. Mi metto a giocare a scacchi e perdo come un allocco contro “Alibaba815”. Penso: la vita fa schifo a qualsiasi ora. Devo cambiare gioco. Ad un certo punto mi arriva una mail di risposta ad una candidatura inviata qualche giorno prima a Lidl Italia per svolgere la mansione di “Operatore di Filiale”.  Tra le decine di candidature inviate quella me la ricordo bene perché, in quella occasione, per completare la candidatura sul sito web dell’azienda era necessario svolgere un test di cinque minuti per valutare “le competenze multitasking”. Un test molto avvincente: bisognava rispondere contemporaneamente a più domande che continuavano a scorrere sullo schermo. Un “Vero o Falso” con domande che continuavano ad apparire e scomparire. Pochi secondi in cui svolgere in breve tempo operazioni di calcolo prima che apparisse un nuovo quesito. Agghiacciante. Ma DIVERTENTISSIMO. Ho svolto un test perfetto, meglio delle mie ultime partite a scacchi. Ed è tutto detto. Ad ogni modo fremevo. Stavolta svolto, mi dico. Questo il testo della mail:

 

OGGETTO: La Sua candidatura in Lidl

 

Egregio Sig. Lovers,

 

Con la presente La ringraziamo per averci spedito la Sua candidatura e per l’interesse dimostrato per la nostra azienda.

 

Purtroppo, dobbiamo comunicarLe che la nostra scelta si è indirizzata su altri candidati meglio rispondenti alle nostre richieste e che pertanto la Sua candidatura non verrà ulteriormente presa in considerazione per la posizione in oggetto.

 

La preghiamo di non ritenere la presente come un mancato apprezzamento delle Sue capacità e competenze.

 

Le facciamo comunque i nostri migliori auguri per la Sua carriera professionale.

 

 

Distinti saluti,

 

Il Suo team Recruiting Lidl

 

Rileggo una decina di volte questa frase: «La preghiamo di non ritenere la presente come un mancato apprezzamento delle Sue capacità e competenze». Mi sale la paranoia. Penso: l’Anpal ha passato sicuramente i dati alla Lidl. Hanno visto che il mio indice di profiling è 0,719. MALEDETTI.

Non la prendo bene, la notizia è scioccante. Oramai nessuno prenderà in considerazioni le mie candidature. Le aziende sanno che le mie competenze, verificate minuziosamente da ANPAL, sono colpevolmente distanti da quelle richieste dal mercato del lavoro. Non reggo la tensione, mi gira la testa e mi si annebbia la vista. Svengo. Fu in quel preciso momento che mi è apparso in sogno il MEGA-DIRETTORE-GALATTICO di Lidl.

 

«Egregio Dottor Lovers…».

«La prego Eminenza, Dottore mi pare troppo».

«Signor Lovers perché si diverte a farci perdere tempo? Lo sa che gestiamo centinaia di candidature ogni anno e che riceviamo migliaia di curriculum di persone più competenti di lei?»

«Immagino Eminenza, è stato un gesto impulsivo il mio».

«Mi invia un curriculum dove segna una laurea e come ultima esperienza professionale “insegnante di sostegno”. Che cosa si aspettava che le rispondessimo?».

«Eminenza. Mi deve credere, io mi pento e mi dolgo con tutto il cuore per ciò che ho fatto in passato. Ero mosso da ideali giovanili e mi sono laureato. È stato un errore di gioventù ma mi creda… io vorrei cambiare. Sogno una vita modesta. Sogno un lavoro semplice, ripetitivo e senza responsabilità. Uno stipendio normale per pagarmi le bollette e che mi permetta di andare un paio di settimane all’anno al mare a Borgio Verezzi. Vorrei dimenticarmi di questi anni passati a rincorrere ambizioni senza senso, assolutamente improbabili. Ho sognato cose assurde che ora disprezzo. Ho sognato di avere un posto di lavoro stabile ma allo stesso tempo gradevole. Sognavo soprattutto di avere un lavoro che rispecchiasse un’identità consimile a quella delle professioni del ceto medio-riflessivo. Ero giovane ed ero mosso da idee sbagliate. Ma sono pronto a redimermi, mi creda».

«Ne è sicuro? Lei si pente di aver studiato? Ora pretende un posto come “operatore di filiale” (Ergo scaffalista) e mi propone un CV dove segna un master in “sviluppo locale”. Guardi signor Lovers lei offende la sua intelligenza prima ancora che la nostra reputazione».

«Non so cosa scrivere sul curriculum Eminenza. Vorrei dirle che ho lavorato cinque anni come cassiere in una GDO ma non posso dimostrarlo. La prego, Eminenza, mi dia una possibilità. Posso imparare».

«Se lo scordi signor Lovers; non sono disposto a spendere 1200 euro al mese per assumere un laureato ancora da formare. Perché non fa un percorso professionale finanziato dalla Regione per imparare a fare il magazziniere? Posso valutare di concedergli uno stage formativo gratuito».

«Non so se sono all’altezza di questo compito Sire, ma la ringrazio per la generosa proposta. In verità pensavo di iscrivermi all’università popolare quest’anno per seguire un corso di Egittologia».

«Lei è una merdaccia Dottor Lovers».

«Ha proprio ragione Eminenza. Una merdaccia certificata ANPAL».

«Si diverte a farmi perdere tempo. Il suo è il classico CV da sfigato medio-progressista».

«Beh, proprio medio-progressista no Eminenza… diciamo comunista. Ma so accontentarmi Eminenza. La prego, mi conceda un posto nel suo acquario».

«Se lo scordi. Quello è un privilegio riservato ai soli dipendenti Lidl. La saluto Dottor Lovers, le auguro un lavoro come giornalista freelance».

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Pierre Bourdieu - Cosa costituisce una classe sociale?


pierre bourdieu classi sociali
Cosa costituisce una classe sociale? Sull’esistenza teorica e pratica dei gruppi.
- Pierre Bourdieu 

Fonte: Berkeley Journal of Sociology, Vol. 32 (1987), pp. 1-17
Pubblicato da: Regents of the University of California 

Traduzione: Matteo Castello

Sarebbe facile e allettante ridicolizzare l’argomento di questo simposio e smascherare i presupposti celati sotto la sua apparente neutralità. Ma se mi concedete una sola critica al modo in cui è formulata la questione della classe sociale, è che induce erroneamente a credere che tale problema possa essere ridotto a una semplice scelta e risolto da qualche argomento di buon senso.

 Infatti, dietro l’alternativa proposta – la classe è un costrutto analitico o una categoria popolare? – si nasconde uno dei più complessi problemi teorici in assoluto, vale a dire il problema della conoscenza, ma nella forma molto particolare che esso assume quando l’oggetto di questa conoscenza è costituito sia da soggetti epistemici, sia per soggetti epistemici.

 Uno dei principali ostacoli per una sociologia scientifica è l’uso che facciamo delle opposizioni comuni, dei concetti binari, o di quelle che Bachelard chiama “coppie epistemologiche”: generate dalla realtà sociale, queste vengono sconsideratamente impiegate per costruire la realtà sociale. Una di queste antinomie fondamentali è l’opposizione tra oggettivismo e soggettivismo o, in un linguaggio più attuale, tra strutturalismo e costruttivismo, che possono essere approssimativamente caratterizzati come segue. Dal punto di vista oggettivista, gli agenti sociali possono essere “trattati come cose”, come nel vecchio precetto durkheimiano, il che vuol dire, classificati come oggetti: l’accesso alla classificazione oggettiva presuppone in questo caso una rottura con le ingenue classificazioni soggettive, viste come “preconcetti” o “ideologie”. Dal punto di vista soggettivista, come rappresentato dalla fenomenologia, dalla etnometodologia e dalla sociologia costruttivista, sono gli agenti a costruire la realtà sociale, intesa essa stessa come il prodotto dell’aggregazione di questi atti individuali di creazione. Per questo tipo di marginalismo sociologico, non c’è bisogno di rompere con l’esperienza sociale primaria, perché il compito della sociologia è quello di fornire “un resoconto dei resoconti”.

 Questa è in realtà una falsa opposizione. Nella realtà, gli agenti sono sia oggetto di classificazione che soggetti classificatori, ma essi classificano in accordo alla (o a seconda della) loro posizione all’interno delle classificazioni. Per riassumere quello che voglio dire, posso commentare brevemente la nozione del punto di vista: il punto di vista è una prospettiva, una visione soggettiva parziale (momento soggettivista); ma allo stesso tempo è una concezione, una prospettiva, effettuata da un punto, da una determinata posizione in uno spazio sociale oggettivo (momento oggettivista). Consentitemi di sviluppare ognuno di questi momenti, quello oggettivista e quello soggettivista, nel modo in cui si applicano all’analisi della classe, e di mostrare come essi possano e debbano essere integrati.

Il momento oggettivista – dalle classi sociali allo spazio sociale: la Classe come valido costrutto teorico.

 La prima domanda, legata a quella assegnata, è: “le classi sono un artificio scientifico oppure esistono nella realtà?”. Questo stesso interrogativo non è che un eufemismo per la domanda più diretta e direttamente politica: “le classi esistono oppure no?”, dal momento che questo interrogativo sorge nell’oggettività stessa del mondo sociale e delle lotte che in esso si verificano.
La questione dell’esistenza o non esistenza delle classi è, almeno a partire dalla comparsa del Marxismo e dei movimenti politici che esso ha ispirato, uno dei maggiori criteri divisivi nell’arena politica. Quindi ci sarebbero tutte le ragioni per sospettare che, qualunque possa essere la risposta a questa domanda, essa dipenda da scelte politiche, anche se le due possibili posizioni sull’esistenza delle classi corrispondono alle due possibili posizioni sul modo di conoscenza, quella realista o quella costruttivista, di cui la nozione di classe è il prodotto.  

 Chi sostiene l’esistenza delle classi tenderà ad assumere una posizione realista e, se incline alla sperimentazione, tenterà di determinare empiricamente le proprietà e i confini delle diverse classi, a volte arrivando al punto di considerare il singolo individuo tra i membri di questa o quella classe. A questo approccio si potrebbe opporre, e così è stato fatto spesso, in particolare dai sociologi conservatori, l’idea che le classi non siano nient’altro che le categorie dello scienziato, senza alcun fondamento nella realtà, e che ogni tentativo di dimostrare l’esistenza delle classi partendo dalla misurazione empirica di indicatori oggettivi della posizione sociale e economica si scontri con il fatto che è impossibile trovare, nel mondo reale, discontinuità nette: il reddito, così come molte delle proprietà associate agli individui, mostra una distribuzione continua che fa apparire come un puro artificio statistico qualsiasi categoria discreta costruita sulla sua base. E la formula di Pareto, secondo cui tracciare un confine tra un ricco e un povero non sarebbe più facile che tracciarlo tra un giovane e un vecchio – ai giorni nostri si potrebbe aggiungere: tra un uomo e una donna – questa formula soddisferà sempre coloro, e ce ne sono molti, anche tra i sociologi, che vogliono convincere se stessi e gli altri che le differenze sociali non esistono, o che stanno scomparendo (come nell’argomento dell’imborghesimento della classe lavoratrice o dell’omogeneizzazione della società) e su questa base sostengono che non esiste nessun principio di differenziazione dominante.

 Quelli che pretendono di trovare classi “preconfezionate” già costituite nella realtà oggettiva e quelli che le ritengono niente più che meri artefatti teorici (accademici o “popolari”), ricavati da un taglia e cuci arbitrario di un altrimenti indifferenziato continuum del mondo sociale, hanno una cosa in comune, e cioè che entrambi accettano una filosofia sostanzialista, nell’accezione del termine di Cassirer, che non riconosce altra realtà se non quella direttamente offerta all’intuizione dell’esperienza ordinaria. Infatti è possibile negare l’esistenza delle classi come insieme omogeneo di individui economicamente e socialmente differenziati oggettivamente costituiti come gruppi sociali, e allo stesso tempo asserire l’esistenza di uno spazio di differenze basato su un principio di differenziazione economica e sociale. Per fare ciò bisogna soltanto accettare la concezione relazionale o strutturale caratteristica della matematica o della fisica moderne, che identificano il reale non con le sostanze, ma con le relazioni. Da questo punto di vista, la “realtà sociale” di cui si parla nella sociologia oggettivista (quella di Marx, ma anche di Durkheim) consiste in un insieme di relazioni invisibili, quelle che nello specifico costituiscono uno spazio di posizioni esterne le une dalle altre e definite dalla loro distanza relativa. Per questo realismo della relazione, il reale è relazionale; la realtà non è altro che la struttura, intesa come un insieme di relazioni costanti che spesso sono invisibili, perché oscurate dalle realtà dell’esperienza sensoriale ordinaria, e in particolare dagli individui ai quali si ferma il realismo sostanzialista. È proprio lo stesso sostanzialismo che rivendica sia la conferma che la negazione delle classi. Da un punto di vista scientifico, ad esistere non sono le “classi sociali” così come intese dal pensiero realista, sostanzialista ed empirista adottato sia dagli oppositori che dai sostenitori dell’esistenza della classe, ma piuttosto uno spazio sociale nel vero senso del termine, se ammettiamo, come Strawson, che la proprietà fondamentale dello spazio sia l’esteriorità reciproca degli oggetti in esso racchiusi.

 Il compito della scienza, quindi, è di costruire lo spazio che ci permetta di spiegare e predire il massimo numero possibile di differenze osservate tra gli individui, o, il che è lo stesso, di determinare i principali criteri di differenziazione necessari o sufficienti per spiegare o predire la totalità delle caratteristiche osservate in un dato insieme di individui.

 Il mondo sociale può essere concepito come uno spazio multi-dimensionale che può essere costruito empiricamente scoprendo i principali fattori di differenziazione che spiegano le differenze osservate in un dato universo sociale, o, in altri termini, scoprendo i poteri o le forme di capitale che sono o possono diventare efficienti, come gli assi in un gioco di carte, in questo particolare universo, cioè nella lotta (o competizione) per l’appropriazione di risorse scarse di cui questo universo è il sito. Da ciò segue che la struttura di questo spazio è data dalla distribuzione delle varie forme di capitale, cioè dalla distribuzione delle proprietà che sono attive all’interno dell’universo oggetto di studio – quelle proprietà capaci di conferire forza, potere a di conseguenza profitto al loro possessore.

 In un universo sociale come quello della società francese, e senza dubbio nella società americana odierna, queste forze sociali fondamentali sono, secondo le mie ricerche empiriche, prima di tutto il capitale economico, nelle sue varie forme; in secondo luogo il capitale culturale o meglio, il capitale informativo, di nuovo nelle sue diverse forme; in terzo luogo due forme di capitale che sono fortemente correlate, il capitale sociale, che consiste nelle risorse fondate sulle connessioni e sull’appartenenza di gruppo, e il capitale simbolico, che è la forma che i diversi tipi di capitale assumono una volta percepiti e riconosciuti come legittimi. Così gli agenti sono distribuiti nello spazio sociale complessivo, in primo luogo in accordo con il volume globale di capitale che questi possiedono, in secondo luogo in relazione alla composizione del loro capitale, cioè in base al peso relativo delle varie forme di capitale rispetto al capitale complessivo, specialmente quello economico e culturale, e in terzo luogo a seconda dell’evoluzione nel tempo del volume e della composizione del loro capitale, cioè in base alla loro traiettoria nello spazio sociale. Agli agenti e ai gruppi di agenti viene assegnata una posizione, un luogo o una precisa classe di posizioni confinanti, per esempio un’area particolare all’interno di quello spazio; essi sono dunque definiti dalla loro posizione relativa rispetto a un sistema multidimensionale di coordinate i cui valori corrispondono ai valori delle diverse variabili pertinenti. (L’occupazione è generalmente un buono ed economico indicatore della posizione nello spazio sociale e, inoltre, fornisce preziose informazioni sugli effetti occupazionali, per esempio gli effetti della natura del lavoro, dell’ambiente lavorativo, con le sue specificità culturali e organizzative, ecc.).

 Ed è qui che le cose iniziano a farsi complicate: in effetti è piuttosto probabile che il prodotto della concezione relazionale (come il diagramma a tre dimensioni nell’analisi fattoriale) sia interpretato in senso realista e “sostanzialista”: le “classi” intese come classi logiche – concetti analitici ottenuti ripartendo teoricamente uno spazio teorico – sono quindi considerate come reali, come gruppi costituiti oggettivamente. Ironicamente, più è accurata la costruzione teorica delle classi teoriche, più è alta la possibilità che queste possano essere considerate come gruppi reali. Effettivamente, queste classi sono basate su principi di differenziazione che sono effettivamente i più efficaci nella realtà, vale a dire, ad esempio, i più adatti a fornire la migliore spiegazione del maggior numero di differenze osservate tra gli agenti. La costruzione dello spazio sta alla base di una divisione per classi che sono solo artifici analitici, ma artifici ben fondati nella realtà (cum fundamento in re). Grazie all’insieme dei criteri ordinari che misurano la distanza relativa tra gli individui, acquisiamo gli strumenti per raggruppare gli individui in classi in modo tale che gli agenti nella stessa classe siano tra loro il più simile possibile sotto il maggior numero di aspetti (e tanto più quanto il numero di classi così definite sia ampio e l’area da esse occupata nello spazio sociale sia contenuta), e in modo tale che le classi siano il più possibile differenziate l’una dall’altra – o, in altre parole, garantiamo la possibilità di ottenere la massima separazione possibile tra classi il più possibile omogenee.

 Paradossalmente, gli strumenti usati per costruire e raffigurare lo spazio sociale tendono a nasconderlo alla vista; le popolazioni a cui è necessario dare forma per oggettivare le posizioni che occupano nascondono queste stesse posizioni. Questo è tanto più vero quanto lo spazio è costruito in modo tale che, più sono vicini i singoli agenti, maggiore è il numero probabile di proprietà condivise, e viceversa, più sono lontani tra di loro, minori saranno le proprietà in comune. Per essere più precisi, gli agenti che occupano posizioni confinanti in questo spazio, sono sottoposti a condizioni simili e sono dunque soggetti a simili fattori condizionanti: di conseguenza essi avranno tutte le possibilità di avere simili disposizioni e interessi, e quindi di produrre pratiche e rappresentazioni dello stesso tipo. Coloro i quali occupano la stessa posizione hanno tutte le possibilità di avere lo stesso habitus, almeno fino a quando le traiettorie che li hanno portati a quelle posizioni sono esse stesse simili.

 Le disposizioni acquisite nella posizione occupata comportano un adattamento a questa posizione – quello che Erving Goffman chiama il “senso del proprio posto”. È questo senso del proprio posto che, in una situazione interattiva, spinge coloro che in francese chiamiamo les gens humbles, letteralmente “la gente umile” - forse “common folks” in inglese – a rimanere “umilmente” al loro posto, e che spinge gli altri a “tenere le distanze”, o a “mantenere il proprio ruolo sociale”. Andrebbe detto tra parentesi che queste strategie possono essere del tutto inconsce a prendere la forma di ciò che comunemente chiamiamo timidezza o arroganza. In verità, queste distanze sociali sono inscritte nel corpo. Da ciò consegue che le distanze oggettive tendono a riprodursi nell’esperienza soggettiva della distanza, essendo la distanza nello spazio associata a una forma di avversione o incomprensione, mentre la vicinanza è vissuta come una più o meno inconscia forma di complicità. Questo senso del proprio posto è allo stesso tempo un senso del posto degli altri e, assieme alle affinità di habitus vissute sotto forma di attrazione o repulsione personale, è alla radice di tutti i processi di cooptazione, amicizia, amore, associazione, ecc., e di conseguenza fornisce il principio di tutte le alleanze e le connessioni durevoli, incluse le relazioni approvate legalmente.

 Così, sebbene la classe logica, intesa come un costrutto analitico fondato nella realtà, non sia niente più che l’insieme degli occupanti della stessa posizione nello spazio, questi agenti sono   di per sé influenzati nel loro essere sociale dagli effetti delle condizioni e dei condizionamenti corrispondenti alla loro posizione definita sia intrinsecamente (cioè a partire da una certa classe di condizioni materiali di esistenza, da esperienze primordiali del mondo sociale, ecc.), che relazionalmente (cioè nella relazione con altre posizioni, come quelle più in alto o più in basso, o quelle mediane, come nel caso di quelle posizioni “di mezzo”, intermedie, neutrali, né dominanti né dominate).

 L’effetto omogeneizzante dei condizionamenti omogenei è alla base di quelle disposizioni che privilegiano lo sviluppo di relazioni, formali o informali (come l’omogamia), che tendono a incrementare questa stessa omogeneità. In parole semplici, le classi costruite raggruppano teoricamente gli agenti che, essendo soggetti a simili condizioni, tendono ad assomigliarsi l’un l’altro e, di conseguenza, sono inclini a riunirsi anche praticamente, a riunirsi come un gruppo pratico, e così a rinforzare i loro punti di somiglianza.

 Riassumendo: le classi costruite possono essere caratterizzate in un certo senso come insiemi di agenti che, in virtù del fatto che occupano posizioni simili nello spazio sociale (cioè nella distribuzione dei poteri), sono soggetti a simili condizioni di esistenza e a simili fattori condizionanti e, di conseguenza, sono dotati di simili disposizioni che li spingono a generare simili pratiche. A questo proposito, tali classi soddisfano tutti i requisiti di una tassonomia scientifica, allo stesso tempo predittiva e descrittiva, che ci permette di reperire il maggior numero di informazioni al minor costo: le categorie ottenute separando gli insiemi caratterizzati dalla somiglianza delle loro condizioni occupazionali all’interno di uno spazio tridimensionale, hanno una grandissima capacità predittiva al costo di un relativamente basso sforzo cognitivo (cioè, sono necessarie relativamente poche informazioni per determinare la posizione in quello spazio: bastano tre coordinate, il volume complessivo del capitale, la composizione del capitale e la traiettoria sociale). Questo uso del concetto di classe è inseparabile dall’ambizione di descrivere e classificare gli agenti e le loro condizioni di esistenza in modo tale che la suddivisione dello spazio sociale in classi possa spiegare le variazioni delle pratiche. Questo intento è espresso in forma particolarmente lucida da Maurice Halbwachs, il cui libro, pubblicato nel 1955 con il titolo “Schema di una psicologia delle classi sociali”, apparve per la prima volta nel 1938, un buon decennio prima dell’influente volume di Richard Centers sulla Psicologia delle classi sociali nel suo paese, con il  titolo rivelatore: “I motivi dominanti che orientano l’attività nella vita sociale”. Raggruppando in un unico insieme gli agenti caratterizzati dalle “stesse condizioni collettive permanenti”, come dice Halbwachs, la nostra intenzione è di spiegare e predire le pratiche delle varie categorie così costituite.

 Si potrebbe però andare ancora oltre e, a partire dalla stessa concezione oggettivista del mondo sociale, postulare, come fece Marx, che le classi teoriche siano classi reali, gruppi reali di individui mossi dalla coscienza dell’identità delle loro condizioni e dei loro interessi, una consapevolezza che simultaneamente li unisce e li contrappone alle altre classi. In verità, la tradizione Marxista commette proprio lo stesso errore teorico che Marx stesso accusava in Hegel: equiparando le classi costruite, che esistono come tali solo sulla carta, con le classi reali materializzate sotto forma di gruppi mobilizzati in possesso di un’autocoscienza assoluta e relazionale, la tradizione Marxista confonde le cose della logica con la logica delle cose. L’illusione che ci porta a credere che le classi teoriche siano automaticamente classi reali – gruppi composti da individui uniti dalla consapevolezza e dalla conoscenza della loro condizione comune e pronti a mobilitarsi nel perseguimento dei loro interessi comuni – proverà a radicarsi in uno dei modi seguenti. Da un lato, ci si potrebbe appellare all’effetto meccanico dell’identità delle condizioni che, presumibilmente, sarà destinato ad imporsi nel tempo. Oppure, seguendo una logica completamente differente, si potrebbe invocare l’effetto di un “risveglio della coscienza” (prise de conscience) concepito come la realizzazione della verità oggettiva; oppure una combinazione qualsiasi dei due approcci. O ancora meglio, quest’illusione proverà a fondarsi sulla riconciliazione, realizzata sotto la guida illuminata del Partito (con la P maiuscola), della visione popolare e della visione accademica, cosicché alla fine il costrutto analitico venga trasformato in una categoria popolare.

 L’illusione del teorico che trasforma in realtà le astrazioni nasconde un’intera serie di grossi problemi, cioè quelli che proprio la costruzione di classi teoriche ben fondate, quando controllata epistemologicamente, ci permette di porre: una classe teorica, o “classe sulla carta”, può essere considerata come una classe reale probabile, o come la probabilità di una classe reale, i cui componenti sono probabilmente avvicinati e mobilitati (ma non realmente mobilitati) in base alle loro somiglianze (di interessi e disposizioni). Allo stesso modo lo spazio sociale può essere costruito come una struttura delle probabilità di riunire gli individui o di separarli, una struttura di affinità e ostilità tra di loro. Resta comunque il fatto che, contrariamente a quanto ipotizza la tradizione Marxista, il passaggio dalla probabilità alla realtà, dalla classe teorica alla classe pratica, non è mai garantito: anche se sostenuti dal “senso del proprio posto” e dall’affinità dell’habitus, i principi di rappresentazione e di divisione del mondo sociale che operano nella costruzione teorica delle classi devono competere, nella realtà, con altri criteri, etnici, razziali o nazionali, e ancor più concretamente, con i criteri imposti dall’esperienza ordinaria delle divisioni e rivalità occupazionali, territoriali e locali. La prospettiva adottata nella costruzione delle classi teoriche potrebbe anche essere la più “realista”, visto che fa affidamento sui principi davvero alla base delle pratiche; ma non ciò non basta perché si imponga agli agenti in maniera auto-evidente. La rappresentazione individuale e collettiva che gli agenti possono acquisire del mondo sociale e del loro posto in esso potrebbe benissimo essere costruita secondo categorie del tutto differenti, anche se, nelle loro pratiche quotidiane, questi agenti seguirebbero le leggi immanenti di quell’universo grazie alla mediazione del loro senso del proprio posto.

 In breve, ipotizzando che le azioni e le interazioni possano in qualche modo essere dedotte dalla struttura, si rinuncia ad affrontare il problema del movimento dal gruppo teorico al gruppo pratico, cioè, il problema delle politiche e del lavoro politico richiesto per imporre un criterio di visione e divisione del mondo sociale, anche quando questo criterio è ben fondato nella realtà. Mantenendo una netta distinzione tra la logica delle cose e le cose della logica, anche quelle che meglio si adattano alla logica delle cose (come le classi teoriche ben fondate), possiamo dimostrare in un sol colpo diverse affermazioni: prima di tutto che le classi realizzate e mobilitate dalla e per la lotta di classe, le “classi-in-lotta”, come avrebbe voluto Marx, non esistono; poi, che le classi possono aderire a una forma di esistenza definita solo a costo di un lavoro specifico, del quale è un elemento decisivo la produzione specificamente teorica di una rappresentazione delle divisioni; e infine che questo lavoro politico avrà maggiori probabilità di successo se equipaggiato di una teoria con solide basi nella realtà, dal momento che l’effetto esercitato sarà tanto potente quanto più ciò che questa teoria vuole mostrare o far credere si troverà, allo stato potenziale, nella realtà stessa. In altri termini, un’adeguata teoria delle classi teoriche (e dei loro confini) fa supporre che il lavoro politico finalizzato a produrre le classi sotto forma di istituzioni oggettive, allo stesso tempo espresse e costituite da organi di rappresentanza permanenti, da simboli, acronimi e elettori, abbia la sua propria logica specifica, quella propria di tutte le produzioni simboliche. E questo lavoro politico di “classmaking” ha più probabilità di essere efficace quando gli agenti la cui unità si sforza di dimostrare sono vicini tra loro nello spazio sociale e quindi appartengono alla stessa classe teorica.
 Sia che abbiano una base occupazionale come nelle nostre società o che abbiano una base genealogica come in quelle pre-capitaliste, i gruppi non si presentano già preconfezionati nella realtà. E anche quando si presentano con quell’aria di eternità che è il segno distintivo della storia naturalizzata, essi sono sempre il prodotto di un complesso lavoro storico di costruzione, come ha mostrato Luc Boltanski nel caso della categoria tipicamente francese dei “cadres” (ingegneri e dirigenti, o classe manageriale). Il titolo del famoso libro di E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, andrebbe presso letteralmente: la classe lavoratrice come la percepiamo oggi per mezzo delle parole che usiamo per nominarla, come “classe lavoratrice”, “proletariato”, “lavoratori” (travailleurs), “lavoro”, ecc., e per mezzo delle organizzazioni che dovrebbero rappresentarla, con i loro acronimi, uffici, consigli, bandiere e così via, questa classe è un fondato artefatto storico (nello stesso modo con cui Durkheim parla della religione come una “fondata illusione”). Ciò è vero anche per un gruppi come gli anziani, i vostri “senior citizens”,  che Patrick Champagne e Rémi Lenoir hanno mostrato essere una genuina invenzione storica nata dall’azione dei gruppi d’interesse e riconosciuta dalla certificazione legale. Ma è la famiglia stessa, nella sua forma nucleare che conosciamo oggi, che può essere meglio descritta come il prodotto dell’azione, di nuovo riconosciuta dalle disposizioni legali, di un’intera serie di agenti e istituzioni, come le lobbies nel settore della pianificazione e della politica famigliare.

 Così, nonostante ci siamo allontanati dal problema iniziale, possiamo provare a riconsiderare i termini con cui è stato formulato. Le classi sociali, o più precisamente, la classe cui ci riferiamo tacitamente quando parliamo di classi sociali, cioè “la classe lavoratrice”, esiste abbastanza da permetterci di dubitare sulla sua esistenza, o al limite di negarla, anche nelle più solide sfere accademiche, solo nella misura in cui tutti i tipi di agenti storici, partendo dagli scienziati sociali come Marx, sono riusciti a trasformare quello che sarebbe potuto rimanere un “costrutto analitico” in una “categoria popolare”, vale a dire in una di quelle finzioni sociali così perfettamente reali prodotte e riprodotte dalla magia della credenza sociale.

Il momento soggettivista – campi di forze e campi di lotte: il lavoro di “class-making”.

 L’esistenza o la non esistenza delle classi è una delle maggiori poste in gioco nella lotta politica. Questo fatto è più che sufficiente a ricordarci che, come ogni gruppo, i collettivi che hanno una base economica e sociale, siano essi gruppi professionali o “classi”, sono costruzioni simboliche orientate al perseguimento di interessi individuali e collettivi (e, prima di tutto, al perseguimento degli specifici interessi dei loro portavoce). Lo scienziato sociale si occupa di un oggetto che è esso stesso l’oggetto, e il soggetto, delle lotte cognitive – lotte non solo tra accademici, ma anche tra profani e, tra questi, tra i vari professionisti della rappresentazione del mondo sociale. Lo scienziato sociale potrebbe quindi essere tentato di ergersi ad arbitro, in grado di giudicare con suprema autorità tra costruzioni rivali, tra quelle semplici teorie popolari escluse dal suo discorso teorico senza rendersi conto di come queste siano parte integrante della realtà e, entro certi limiti, siano costitutive della realtà del mondo sociale.

 Questo epistemocentrismo teorico porta a ignorare che i criteri utilizzati nella costruzione dello spazio oggettivo e delle classificazioni ben fondate che esso rende possibili, sono anche strumenti – potrei dire armi – e poste in gioco nella lotta di classificazione che determina la creazione o la distruzione delle classificazioni attualmente in uso. Ad esempio, il valore relativo tra i differenti tipi di capitale, economico e culturale, o tra gli svariati tipi di capitale culturale, il capitale legale-economico e il capitale scientifico, viene continuamente messo in discussione, rivalutato, tramite battaglie tese a gonfiare o sgonfiare il valore di uno o dell’altro tipo di capitale. Si consideri, nel contesto americano, la mutevolezza storica dei valori relativi, contemporaneamente economici, sociali e simbolici, dei titoli economici, stock, bond, IRA (conti pensionistici individuali), o dei titoli di studio; e tra questi ultimi, del Master in Business Administrations (MBA) rispetto al Master in Arte e Antropologia o in Letteratura comparata. Un gran numero di criteri utilizzati nelle analisi scientifiche come strumenti di conoscenza, inclusi quelli più neutrali e quelli che sembrano più “naturali” come l’età o il sesso, funzionano nelle pratiche reali come schemi di classificazione (pensiamo all’uso delle coppie vecchio/giovane, paleo/neo, ecc.). Le descrizioni che gli agenti producono per soddisfare le esigenze della loro esistenza quotidiana, e in particolare i nomi dei gruppi e tutto il vocabolario disponibile per nominare e pensare il sociale, devono la loro logica specifica, strettamente pratica, al fatto che sono spesso controversi e inevitabilmente guidati da considerazioni pratiche. Da ciò segue che le classificazioni pratiche non sono mai del tutto coerenti o razionali in senso logico; esse comportano necessariamente un certo grado di rilassatezza, dovuta al fatto che devono rimanere “pratiche”, utili. Dal momento che un’operazione di classificazione dipende dalle funzioni pratiche che soddisfa, questa può basarsi su diversi criteri a seconda della situazione, e può produrre tassonomie altamente variabili. Per le stesse ragioni, una classificazione può operare su vari livelli di aggregazione. Il livello di aggregazione sarà più elevato quando la classificazione verrà applicata a una regione dello spazio sociale distante, e quindi, meno conosciuta – allo stesso modo per cui la percezione degli alberi da parte di un abitante di città è meno chiaramente differenziata rispetto alla percezione di un abitante di campagna. Inoltre, come gli intenditori che catalogano i dipinti in rapporto a un membro caratteristico o archetipo della corrente in questione, invece di passare in rassegna tutti i membri individuali di quella corrente o di prendere in esame tutti i criteri formali necessari per stabilire che un oggetto faccia effettivamente parte di quella corrente, gli agenti sociali, per accertare le posizioni sociali, prendono come punti di riferimento le manifestazioni caratteristiche di una posizione nello spazio sociale con cui abbiano familiarità.

 Si potrebbe e si dovrebbe superare, da un lato, l’opposizione tra l’approccio che possiamo etichettare indifferentemente come realista, oggettivista o strutturalista, e la concezione costruttivista, soggettivista, o spontaneista dall’altro. Ogni teoria dell’universo sociale deve includere la rappresentazione che gli agenti hanno del mondo sociale e, più precisamente, del contributo che essi danno alla costruzione dell’idea di quel mondo e, di conseguenza, alla costruzione stessa di quel mondo. Deve tenere conto del lavoro simbolico di fabbricazione dei gruppi, del group-making. È attraverso questo infinito lavoro di rappresentazione (in tutti i sensi del termine) che gli agenti sociali cercano di imporre la loro visione del mondo o la visione della loro posizione in quel mondo, e di definire la loro identità sociale. Una simile teoria deve accettare come una verità incontrovertibile che la verità del mondo sociale è la posta in gioco di una lotta. E, allo stesso modo, deve riconoscere che, a seconda della loro posizione nello spazio sociale, cioè della distribuzione delle varie categorie di capitale, gli agenti impegnati in questa lotta sono equipaggiati molto iniquamente nello scontro per imporre la loro verità, e hanno obiettivi molto diversi, per non dire opposti.

 Quindi le “ideologie”, i “pregiudizi”, e le teorie popolari che la frattura oggettivista ha dovuto mettere da parte in primo luogo per costruire lo spazio oggettivo delle posizioni sociali, devono essere reinserite nel modello della realtà. Questo modello deve tenere conto del fatto che, contrariamente all’illusione del teorico, il senso del mondo sociale non si afferma in maniera univoca e universale; è invece sottoposto, nell’oggettività stessa, a una pluralità di punti di vista. L’esistenza di una pluralità di punti di vista e di punti di divisione tra loro differenti, o anche antagoniste, è dovuta, dal lato “oggettivo”, alla indeterminatezza relativa della realtà che si presta alla percezione. Dal lato dei soggetti sensibili, è dovuta alla pluralità di punti di vista e divisioni disponibili in ogni dato momento (i criteri di divisione religiosi, etnici o nazionali, ad esempio, possono competere con i principi politici fondati su criteri economici o occupazionali). Essa deriva anche dalla diversità dei punti di vista implicata dalla diversità delle posizioni, dei punti dello spazio da cui derivano le varie prospettive. In effetti, la “realtà” sociale non si manifesta né come del tutto determinata, né come del tutto indeterminata. Da un certo punto di vista, si presenta come fortemente strutturata, essenzialmente perché lo spazio sociale si rivela sotto forma di agenti e istituzioni dotati di diverse proprietà che hanno probabilità molto ineguali di apparire tra loro combinate: allo stesso modo in cui gli animali con le piume hanno più probabilità degli animali con la pelliccia di avere le ali, così le persone che hanno una perfetta padronanza del loro linguaggio hanno maggiori probabilità degli altri di essere visti nelle sale concerto e nei musei. In altre parole, lo spazio delle differenze oggettive (per ciò che concerne il capitale economico e culturale) trova espressione in uno spazio simbolico di distinzioni visibili, di segni distintivi che equivalgono a un gran numero di simboli di distinzione. Per gli agenti dotati delle pertinenti categorie di percezione, ad esempio di un intuito pratico dell’omologia tra lo spazio dei segni distintivi e lo spazio delle posizioni, le posizioni sociali sono immediatamente distinguibili a partire dalle loro manifestazioni visibili (“ça fait intellectuel”, “fa molto intellettuale”). Detto questo, la specificità delle strategie simboliche e in particolare delle strategie che, come i bluff o dei rovesciamenti simbolici (la versione intellettuale del Maggiolino Volkswagen), sfruttano la padronanza pratica delle corrispondenze tra i due spazi per produrre ogni tipo di interferenza semantica, consiste nell’introdurre, nell’obiettività stessa delle pratiche o delle proprietà percepite, una sorta di ambiguità semantica che non faciliti la decodifica diretta dei segni sociali. Tutte queste strategie trovano ulteriore forza nel fatto che anche le più costanti e affidabili combinazioni di proprietà si basano solo su connessioni statistiche e sono soggette a variazioni nel tempo.

 Questo, tuttavia, non è tutto. Se è vero che i principi di differenziazione obiettivamente più potenti, come il capitale economico e culturale, producono differenze nette tra gli agenti situati ai limiti estremi delle distribuzioni, essi sono evidentemente meno efficaci nelle zone intermedie dello spazio in questione. È in queste posizioni medie o intermedie dello spazio sociale che l’indeterminatezza e l’ambiguità del rapporto tra pratiche e posizioni sono maggiori, e che lo spazio disponibile per le strategie simboliche pensate per inceppare questo rapporto è più grande. È comprensibile come questa regione dell’universo sociale abbia fornito agli interazionisti simbolici, specialmente Goffman, un terreno adatto esclusivamente all’osservazione delle varie forme di rappresentazione di sé attraverso cui gli agenti si sforzano di costruire la propria identità sociale. E dobbiamo aggiungere a queste forme le strategie volte a manipolare i segni più affidabili della posizione sociale, quelli che i sociologi si appassionano a usare come indicatori, come l’occupazione e l’origine sociale. È il caso ad esempio, in Francia, degli instituteurs, gli insegnanti di scuola elementare, che chiamano se stessi enseignants, che può voler dire professore di scuola superiore o anche professore universitario; o dei vescovi e degli intellettuali che tendono a sottostimare le loro origini sociali, mentre altre categorie tendono a sovrastimarle. Analogamente, dovremmo anche menzionare tutte quelle strategie ideate per manipolare i rapporti dell’appartenenza al gruppo, siano essi rapporti familiari, etnici, religiosi, politici, professionali o sessuali, per ostentarli o celarli a seconda degli interessi pratici e degli scopi specifici di ogni caso in riferimento alla situazione concreta in questione, scommettendo, in base alle esigenze del momento, sulle possibilità offerte dalle appartenenze simultanee a una pluralità di collettivi. (Tali strategie hanno il loro equivalente, all’interno delle società relativamente uniformi, nel modo con cui gli agenti fanno leva sulle affiliazioni genealogiche, familiari, di clan e tribali).

 Questa manipolazione simbolica dei gruppi trova una forma paradigmatica nelle strategie politiche: così, in virtù della loro posizione oggettiva posta a metà strada tra i due poli dello spazio, situandosi in una condizione di instabile equilibrio e oscillando tra due opposte coalizioni, gli occupanti delle posizioni intermedie dello spazio sociale sono l’oggetto di classificazioni completamente contraddittorie da parte di coloro che provano, nella lotta politica, di cooptarli alla propria parte. (I cadres francesi, ad esempio, possono essere liquidati tra i “nemici di classe” e trattati come meri “servi del capitale”, o al contrario possono essere inclusi nella classe dominata, in quanto vittime dello sfruttamento).

 Nella realtà del mondo sociale, non ci sono né più né meno confini netti, né più né meno fratture assolute, di quante ce ne siano nel mondo fisico. I confini tra le classi teoriche che l’indagine scientifica ci permette di costruire sulla base di una pluralità di criteri sono simili, per usare una metafora di Rapoport, ai confini di una nuvola o di una foresta. Questi confini possono quindi essere concepiti come frontiere o come livelli immaginari, così che la densità (degli alberi o del vapore acqueo) sia più alta da un lato e più bassa dall’altro, o sia superiore a un certo livello da un lato e inferiore dall’altro. (In realtà, un’immagine più appropriata sarebbe quella di una fiamma i cui contorni sono in costante movimento, fluttuanti attorno a una linea o superficie). Ora, la costruzione di gruppi (mobilitati o “mobilitabili”), vale a dire l’istituzionalizzazione di un’organizzazione permanente capace di rappresentarli, tende a sancire divisioni durevoli e accettate che, nel caso più estremo, per esempio al livello più alto di oggettivazione e istituzionalizzazione, possono prendere la forma di limiti legali. Gli oggetti nel mondo sociale implicano sempre un certo grado di indeterminatezza e ambiguità, e quindi comportano un preciso livello di elasticità semantica. Questo elemento di incertezza è ciò che fornisce terreno a percezioni e costruzioni diverse o antagoniste che si confrontano l’un l’altra e possono essere oggettivate sotto forma di istituzioni durevoli. Una delle maggiori poste in gioco di questi conflitti è la definizione dei confini tra i gruppi, il che vuol dire la definizione stessa di quei gruppi che, facendosi valere e manifestandosi come tali, possono diventare forze politiche capaci di imporre la loro idea delle divisioni, e quindi capaci di assicurare il trionfo di quelle disposizioni e di quelli interessi legati alla loro posizione nello spazio sociale. Così, accanto alle battaglie individuali della vita quotidiana dove gli agenti contribuiscono ininterrottamente a cambiare il mondo sociale sforzandosi di imporre una rappresentazione di se stessi tramite strategie di auto-rappresentazione, si aggiungono le lotte collettive propriamente politiche. In queste lotte il cui fine ultimo, nelle società moderne, è il potere di nomina detenuto dallo stato, per esempio il monopolio della violenza simbolica legittima, gli agenti – che in questo caso sono quasi sempre degli specialisti, come nel caso dei politici – lottano per imporre le rappresentazioni (come ad esempio le manifestazioni) che creano proprio ciò che viene rappresentato, che lo fa esistere pubblicamente, ufficialmente. Il loro obiettivo è di trasformare la propria idea del mondo sociale, e i principi di divisione sui quali essa è basata, nella concezione ufficiale, nel nomos, nel principio di osservazione e di divisione ufficiale.

 Ciò che è in palio nelle lotte simboliche è l’imposizione della visione legittima del mondo sociale e delle sue divisioni, cioè il potere simbolico come potere di “costruzione del mondo” (“worldmaking”), per usare le parole di Nelson Goodman, il potere di imporre e inculcare i principi di costruzione della realtà, e in particolare di preservare e trasformare i principi riconosciuti di unione e separazione, di associazione e dissociazione già al lavoro nel mondo sociale come nelle classificazioni vigenti in materia di genere, età, etnia, regione o nazionalità, il che vuol dire, essenzialmente, il potere sulle parole utilizzate per descrivere i gruppi o le istituzioni che li rappresentano. Il potere simbolico, la cui forma per eccellenza è il potere di costruire i gruppi e di consacrarli o istituirli (in particolare attraverso riti istitutivi, dei quali il matrimonio è l’esempio paradigmatico), consiste nel potere di far esistere qualcosa che prima esisteva solo in forma tacita, in forma oggettivata, pubblica, formale, come le costellazioni che, secondo Goodman, iniziano ad esistere solo quando sono scelte e nominate come tali. Quando applicato a un collettivo sociale, anche a uno definito virtualmente nella maniera della nuvola, il potere performativo di dare nomi, quasi sempre associato al potere di raffigurazione, fa esistere in forma stabilita, per esempio come organismo aziendale, ciò che fino ad allora esisteva solo come una collezione seriale di individui giustapposti. A questo punto bisognerebbe dedicarsi più esaustivamente alle implicazioni del fatto che la battaglia simbolica tra gli agenti è perlopiù condotta tramite la mediazione di professionisti della rappresentazione che, agendo come portavoce dei gruppi al cui servizio offrono le loro competenze specifiche, si confrontano l’un l’altro entro un campo chiuso, relativamente autonomo, cioè quello politico.

 È qui che potremmo ancora rintracciare, ma in forma del tutto trasfigurata, il problema dello status ontologico della classe sociale e, a dirla tutta, di ogni gruppo sociale. E, seguendo Kantorovicz, potremmo ricorrere al ragionamento dei canonisti che si chiedevano, come facciamo noi qui a proposito della classe, quale fosse lo status di quella che in Latino medievale si chiamava corporatio, il corpo costituito, la “persona giuridica”. In questo caso, concludevano, come faceva Hobbes che a questo proposito seguiva la stessa logica, che il gruppo rappresentato non è altro che ciò che lo rappresenta, o il fatto della rappresentazione stessa, in questo caso la firma o il sigillo che autentica la firma, sigillum authenticum, da cui deriva la parola francese sigle (acronimo, logo); o più direttamente il rappresentante, l’individuo che rappresenta il gruppo, in tutti i sensi della parola, che lo concepisce mentalmente e lo esprime verbalmente, gli da un nome, che agisce e parla in suo nome, che gli da’ un’incarnazione concreta, lo incarna nella sua stessa persona; l’individuo che, rendendo il gruppo visibile, rendendo se stesso visibile al posto del gruppo, e soprattutto parlando al suo posto, lo fa esistere. (Tutto questo è evidente quando il leader, essendo il depositario di tutto il credo del gruppo, diventa l’oggetto della venerazione che il gruppo rende a se stesso, il cosiddetto “culto della personalità”). In breve, il significato, cioè il gruppo, viene associato al significante, all’individuo, al portavoce, o all’ufficio, alla sezione, al comitato, al consiglio che lo rappresenta. Ecco quello che lo stesso canonista chiamava il mistero del “ministero”, il mysterium del ministerium. Questo mistero può essere riassunto con due equivalenze. La prima stabilisce un’identità tra i committenti e i delegati: la Chiesa è il Papa; Status est magistratus; la carica è il magistrato che la esercita, o secondo Luigi XIV “L’Etat c’est moi”; o ancora, il Segretario Generale è il Partito – che a sua volta è la classe, e così via. Quindi la seconda equivalenza assume che l’esistenza confermata del delegato comporti l’esistenza del gruppo dei committenti. La “classe”, o il “popolo” (“Je suis le peuple”, dice Robespierre), o il genere, o la fascia d’età, o la Nazione, o qualsiasi altro generico collettivo sociale, esiste se e solo se esiste un agente (o più di uno) che possa pretendere, con qualche ragionevole probabilità di essere preso sul serio (al contrario del pazzo che confonde se stesso con la Nazione), di essere la “classe”, il “popolo”, la “Nazione”, lo “Stato” e così via.

 Dunque, per fornire una breve risposta alla domanda posta, diremo che una “classe”, sia essa sociale, sessuale, etnica, o di qualsiasi altro tipo, esiste quando ci sono agenti capaci di imporsi in qualità di autorizzati a parlare e agire ufficialmente al suo posto e a suo nome, al posto di coloro che, riconoscendosi in questi plenipotenziari, riconoscendoli intitolati del pieno potere di parlare e agire in loro nome, si riconoscono come membri della classe, e facendo ciò conferiscono ad essa l’unica forma di esistenza che un gruppo può possedere. Ma perché questa analisi sia completa, sarebbe necessario mostrare che questa logica di esistenza per delega, che comporta un’ovvia espropriazione, si impone ancor più brutalmente quando i singoli agenti che devono passare da uno stato di esistenza seriale – collectio personarium plurium, come dicono i canonisti – a una condizione di gruppo consolidato, capace di parlare e agire come un unico individuo, tramite un portavoce dotato di plena potentia agendi et loquendi, siano in mancanza di qualsiasi strumento individuale di azione ed espressione. Cosicché in effetti, a seconda della loro posizione nello spazio sociale, i vari agenti non hanno la stessa possibilità di entrare a far parte delle diverse forme di esistenza collettiva: gli uni sono condannati a una ridotta forma di esistenza, il più delle volte ottenuta al costo dell’espropriazione, concessa dai “movimenti” che dovrebbero rappresentare quella che in questo caso chiamiamo una classe (come nell’espressione “la classe lavoratrice inglese”); gli altri assumono probabilmente la piena realizzazione dell’individualità tramite la libera aggregazione dei privilegiati offerta da quei raggruppamenti rappresentanti in forma esemplare e paradigmatica dai club esclusivi (come i circoli, le accademie, i comitati direttivi, o i consigli di amministrazione).

 Nella lotta per creare una visione del mondo universalmente nota e riconosciuta, l’equilibrio di potere dipende dal capitale simbolico accumulato da quelli che mirano ad imporre le svariate visioni in competizione, e dal grado in cui queste visioni sono radicate nella realtà. Questo a sua volta solleva il problema di quali siano le condizioni per formare e far prevalere le visioni dominate. In primo luogo, si può affermare che un’azione volta a trasformare il mondo sociale abbia più probabilmente successo se fondata nella realtà. Ora, la visione dei dominati è in questo senso doppiamente distorta: innanzitutto perché le categorie della percezione che essi impiegano sono  loro imposte dalle strutture oggettive del mondo, e quindi tendono a favorire una forma di accettazione “doxica” del suo ordine dato; quindi perché i dominanti si sforzano di imporre la loro visione e di sviluppare delle rappresentazioni che propongono una “teodicea del loro privilegio”. Ma i dominati hanno una padronanza pratica, una conoscenza pratica del mondo sociale sul quale la nominazione può esercitare un effetto teorico, un effetto di scoperta: quando è ben fondato nella realtà, l’atto di dare un nome comporta un potere realmente creativo. Come abbiamo visto nella metafora di Goodman sulle costellazioni, la scoperta crea ciò che già esiste ponendolo su un livello differente, quello della padronanza teorica. Dunque il mistero del ministero può esercitare un effetto davvero magico dando potere alla verità: le parole possono creare le cose e, aderendo alla simbolizzazione oggettivata del gruppo a cui danno un nome, possono, anche se solo per un certo periodo, far esistere come gruppi i collettivi che già esistevano, ma solo allo stato potenziale.  
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