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Caro Giovanni (una lettera)


Caro Giovanni Lindo Ferretti, 

sono uno dei tanti che, da anni, ascolta la tua musica, segue il tuo percorso pubblico e accoglie le tue riflessioni con interesse (e, devo dire, con una certa apprensione). Mi sono chiesto sovente il perché: solitamente non concedo tutta questa rilevanza alle dichiarazioni degli “artisti”, e tendo a separare l’oggetto artistico dalla persona che lo produce. Credo che alla base di questo ci sia la convinzione (o il pregiudizio) che l’artista sia una creatura insopportabilmente vanitosa che, confondendo il proprio talento con la prova di possedere una sensibilità superiore, corra sempre il rischio di dire banalità confondendole per oro. Le tue parole, invece, hanno un insolito peso specifico ed è come se mi riguardassero direttamente. Ho il sospetto che questo effetto non sia del tutto casuale. Immagino che tu abbia imparato a comunicare adeguatamente con un pubblico fatto di persone che non conosci ma che hanno sviluppato una sorta di indebito rapporto intimo con la tua figura, nel bene e nel male (c’è chi ti scomunica e chi ti razionalizza, chi ti sconfessa e chi ti capisce, tutti ti interpretano). Addirittura chi scrive su di te finisce con lo scrivere come te. È come se il Lindo Ferretti pubblico che, nella musica e nelle interviste, parla del Lindo Ferretti privato, sia il frutto di un dosaggio cosciente: mi sfugge sempre un sorriso quando parli recitando i tuoi stessi aforismi. Tutto questo, però, mi pare che tu lo faccia senza mai abbandonarti all’autoillusione: il mea culpa, il richiamo alla vanità, l’autodafé, testimoniano un confine, un limite consapevole tra essenza e rappresentazione. È così? 

Allo stesso tempo, però, il palco, la telecamera, il microfono, la pagina, sono anche occasioni di testimonianza. In questo, forse, sta la problematicità della tua figura pubblica: se molti si illudono che possa esistere un’assenza di mediazione tra palco e pubblico, tu dai l’impressione di essere cosciente di ciò che si frappone tra i due piani. Questo crea una tensione, un’attenzione particolare nella scelta dei toni e delle parole (lo noto sia nelle tue canzoni sia nelle tue dichiarazioni) che induce chi legge o ascolta a mettersi alla ricerca di segni, di significati (che forse non ci sono). Mi chiedo se le mie siano speculazioni oppure facciano parte anche delle tue riflessioni. Certamente sei consapevole dell’esistenza di un interesse nei tuoi confronti, e trovo interessante immaginare quali siano i confini che tu ti sei (im)posto per gestire questo aspetto della vita: l’essere di rilievo per gli altri. 

Fatte queste premesse ti confesso che trovo piuttosto ambigua la tua critica alla modernità: da un lato perché è romantica e ideologica (il passato è visto come dominato da una regola armonizzante, capace di alleggerire anche la brutalità), dall'altro perché integra elementi che stonano sia con la tua dichiarata volontà di raccoglimento (mi riferisco al rumoroso e violento baraccone politico della destra identitaria), sia con il tuo prestare il fianco alla retorica di questa nuova destra, appiattita sulla brandizzazione - cosa tutt'altro che mistica - dei valori tradizionali. 

La modernità, in fondo, non si contrappone nettamente alla tradizione, se non quando diviene essa stessa bandiera ideologica. Direi piuttosto che la modernità è la tradizione lasciata libera di camminare. Chi invece vuole fissare la tradizione in normatività ne blocca ogni spinta genuina e autentica. La consapevolezza della grettezza della contemporaneità non dovrebbe essere la scusa per volerla costringere in forme sformate. Non ne faccio una questione di coscienza, che come tale è e deve rimanere libera (e questa, credo, è una delle conquiste più alte del pensiero laico e liberale). Ne faccio una questione di integrità e coerenza: chi crede che l’identità urlata, semplificata, categorizzata sia la soluzione ai mali del mondo non fa altro che plasmare un feticcio di ciò che potrebbe essere più alto, più bello, più vero di com'è. E che verità c’è se l’identità è costrizione, coercizione, confronto brutale e asfittico, mimesi grossolana e conformista? Per questo non vedo nella Meloni (nella politica Meloni) un esempio di virtù: semmai riconosco la sua creatività nel rimasticare vecchi adagi con parole nuove (ritorniamo all'ego degli artisti, quindi). Ma che virtù c’è nel dissimulare, nel non parlare chiaro, nel mettersi al servizio di forze che compattano e schiacciano ciò che invece dovrebbe potersi dispiegare? Che virtù c’è nel mettere al centro dello scontro ideologico questioni private (come la maternità, la fede?) facendone slogan pubblicitari? Che virtù c’è nell'asserragliarsi nella difensiva rabbiosa dell’animale che si sente in trappola? Forse qualcuno impedisce a questi orfani dei bei vecchi tempi andati di dire, fare e credere ciò che vogliono? 

Prima scrivevo che è come se le tue parole mi riguardassero direttamente, ma in fondo il punto è che riguardano direttamente la generazione di cui faccio parte (che è una generazione estesa, direi storica più che anagrafica), una generazione che vive con sconcerto e disorientamento il crollo del Novecento e che non vuol limitarsi a registrarlo o assumerlo su di sé come il peccato originale. Per questo alcune parole toccano la carne viva: perché paiono assecondare lo svilimento della riflessione e la negazione della forza vitale delle possibilità insite in questo pur contraddittorio navigare a vista nel presente. 

 …Ma sono piccole cose, in fondo, quelle della politica. Era da molto che volevo scriverti, anche solo per manifestarti la mia stima, e spero che le mie divagazioni non ti abbiano dato troppa noia. Un abbraccio e un augurio, 
Matteo
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