Sto mangiando un burger di carne sintetica. Lo addento come fosse il corpo di una preda appena cacciata. Solo così riesco a illudermi di stare mangiando davvero qualcosa. Ho l’impressione di perdere me stesso quando ingerisco questi prodotti di cui mi sfugge tutto: chi li produce, come sono fatti, di cosa sono fatti. È più facile quando le cose vengono fuori da un corpo. Da un culo di gallina, ad esempio. Ritrovo parti di me solo se penso al perché esista questa poltiglia che sto mangiando con così poca convinzione. Ci sono anche io, sono lo scarto di tutta la lunga catena di ragioni che hanno portato alla creazione di ciò che ora sto mischiando in bocca. I miei pensieri sono come una digestione all’incontrario. Alla fine, come si dice, sono quello che mangio, no? Il ciclo si chiude.
“Va tutto bene? Che hai?”.
Fino a poco tempo fa ero nel bosco. Il tragitto che dal lavoro mi porta a casa passa da lì. È come attraversare mondi separati. L’officina si trova proprio di fronte alla strada che taglia in due il paesino, e partecipa da decenni al moto incessante delle auto che gorgogliano e tossiscono, al fluire dei passanti, allo sbraitare del predicatore che di tanto in tanto si ferma all’incrocio con i sui proclami e la sua campana rutilante, che a volte pare proprio lo schiocco delle labbra di dio. E poi c’è il curvone che porta all’autostrada, e quel gomito di alberi che spezza la civiltà. Addentrandosi nel bosco di betulle spunta anche qualche quercia. E cespugli, rovi, cose così. Casa mia sta dall’altro lato, oltre l’intrico di cortecce e arbusti. C’è giusto una traccia scavata prima da qualche animale, poi da me. Da casa mia si sente appena il sibilo del disordine che vien fuori dalla civiltà che non fa altro che scorrere, scorrere, scorrere.
“C’era un uomo nel bosco”.
Lo penso e lo dico nello stesso esatto momento. Forse non era il caso. Nella stanza dove mangiamo c’è molta luce, fino a tardi. È esposta bene, questa stanza, dice sempre lei. Ora però c’è come un’ombra.
"Strano, non c’è mai nessuno nel bosco. E che ci faceva lì?”.
Prendo fiato, fisso il piatto ancora mezzo pieno.
“Non faceva niente. Cioè. Era immobile, stava vicino a un albero. Appoggiato contro un albero. E si guardava le mani. Poi mi ha visto anche lui. Ci siamo incrociati all’improvviso, non mi aspettavo di incontrare qualcuno. Nessuno passa mai nel bosco, sai. Nemmeno lui se lo aspettava, perché ha avuto un sussulto. Ha fatto un passo indietro poi se ne è stato lì fermo”.
“Come, si guardava le mani?”.
La luce della sera sta facendo sfumare i contorni delle cose. L’aria sa di quel qualcosa di precisamente vago e rassicurante sprigionato dalla cottura della cena. Un profumo appetitoso, noto, che ci riconnette con la nostra natura più profonda.
“Si guardava le mani perché erano sporche. Non solo le mani. Anche la maglietta. Era… era tutto imbrattato. Sembrava non credere a quello che vedeva. Poi mi ha guardato e”.
“E cosa?”.
“E si è fatto serio, ma serio nel senso che non sembrava provare nulla. Sì, ha avuto quel sussulto, ma poi è stato come se si fosse risvegliato da un sogno”.
“Oddio. E tu cosa hai fatto?” .
“Io, io ho continuato a camminare”.
“Di cosa era sporco? Mi stai facendo spaventare”.
“Non lo so di cosa era sporco. Rosso, rosso scuro”.
“Era sangue? Era ferito? Magari è ancora qui intorno”, dice alzandosi in piedi, visibilmente preoccupata. La sua testa sta elaborando tutte le informazioni e i possibili scenari.
“Non era ferito. Non sembrava ferito, di questo sono abbastanza sicuro”.
“E allora di chi era il sangue?”.
“Non lo so, non suo. Scusa. Sul momento mi è sembrata solo una cosa strana, sai. Avevo fretta di arrivare a casa”.
Rimestando tra i pensieri mi chiedo se quello che sto raccontando è davvero successo. Provo a ripercorrere la vicenda e l’unica percezione che mi collega direttamente a quanto dico di aver vissuto è una sorta di repulsione, come quando si vede un ragno grosso e peloso e ti vengono i brividi, ti stride tutto, dentro. Ricordo la mia voglia di allontanarmi, di lasciarmi alle spalle una situazione che non aveva niente a che fare con me, con il mio mondo, con la mia giornata, con il mio bosco. Ho fatto in modo di non guardare più del dovuto, anche perché avevo già visto troppo.
L’uomo mi aveva seguito con lo sguardo, l’avevo percepito dal tendersi della pelle sulla nuca. Io non mi ero voltato. Avevo cercato di respirare il meno possibile per non affollare l’udito. Nessun passo dietro di me, nessun rumore allarmante. Solo la repulsione. Quella sensazione l’avevo chiusa fuori dalla porta, una volta rientrato in casa. Mi sono tolto i vestiti, mi sono fatto una doccia e ho iniziato a mangiare. Poi però lei mi ha chiesto come stavo. Ed eccoci qui.
“Ma perché non hai avvisato qualcuno? Perché non hai fatto qualcosa?”.
Io non lo so. Lei sta girando per casa cercando di capire cosa fare. Poi sparisce dalla visuale e sento che rovista, prende qualcosa. Il telefono, certo. Guardo il piatto. Il burger ha rilasciato un po’ di liquido sul fondo. Ho la forchetta ancora in mano, la affondo nel corpo morbido. Porto il boccone alle labbra. Annuso. Sa di buono. Infilo in bocca e mastico. Scompongo le fibre vincendo la loro vana resistenza. Mi cerco ad ogni morso, ma sento solo che più scompongo questo qualcosa che ho in bocca, più sfuma la possibilità di una soluzione all’enigma. Chi sono? Perché diamine non ho fatto qualcosa? Mastico, mastico, ma tutto si interrompe nell’atto più primordiale, più basico. Estraggo sapore, perdo senso. Perché non ho avvisato nessuno?
Ingoio a stento. Perché non sapevo, perché non sapevo! Non sapevo cosa fare, da dove diavolo arrivava quel tipo? Perché, chi l’aveva messo lì sulla mia strada? E perché doveva essere pure sporco di sangue? Sangue non suo perché mica sembrava star male. Non mi ha chiesto aiuto, mi ha solo puntato gli occhi addosso. E io ho continuato a camminare, e allora? Dovevo tornare a casa, dove conosco le cose. So cosa c’è in casa, so chi c’è dentro. Mastico un altro boccone, ma non va giù. Cosa avrei dovuto fare? Lei, di là, sta parlando con qualcuno. Sento che racconta più o meno quello che le ho detto poco fa. Ripercorre la vicenda mentre io sto immobile a masticare. La persona con cui sta conversando riesce a farla calmare un po’, ora parla più lentamente e continua a dire “sì, sì, va bene, chiudo a chiave, sì”. Da’ l’indirizzo, “fate presto”.
Come posa il telefono io butto giù deglutendo sonoramente. Era l’ultimo pezzetto, nel piatto rimane solo il sugo brunastro. Lei riappare.
“Sta arrivando la polizia”.
La guardo un attimo, senza capire precisamente cosa voglia comunicarmi. Ci penso un attimo, rigirandomi la lingua in bocca.
Riesco a dire, con un filo di voce, “non faceva poi tanto schifo”.
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