Rimini

 Che orrore, che orrore questo entusiasmo riversato in faccende che non mutano di una virgola l’equilibrio del mondo. Eppure l’impegno che esonda tutt’intorno, che tracima da questi personaggi affannosi, lanciati a testa bassa verso una qualche strada maestra, verso un senso da dare alla propria vita, una vocazione da cavare fuori da qualsiasi cosa purché sia, ecco, questo chiassoso celebrare il proprio sforzo di stare al mondo mi provoca un prurito, un rigetto, un malessere che esonda, riempie ogni fibra e sollecita un fastidio impudico, sprezzante, forse anche ingiusto. 

 La spiaggia è infinita. Cammino da ore sul bagnasciuga riminese mentre i giovani si radunano attorno a innumerevoli sound system pulsanti messi in fila uno dopo l’altro, uno per ogni stabilimento balneare. Molteplici e uguali. Sono tutti euforici mentre il sole si abbassa all’orizzonte e il caldo allenta la morsa implacabile di questi giorni, lasciando spazio a una brezza leggera che scompiglia appena i capelli, asciuga il sudore e diffonde nell’aria gli odori di sigarette accese, di profumi caotici, di mare e salmastro. Un mare basso e macchiato di mucillagine verdastra. È sabato, la gente si vuole divertire, e questo è il tipo di divertimento più consono. C’è una bella conchiglia, la raccolgo. Può sempre servire una conchiglia. 

 La musica, i balli, l’euforia, le pelli abbronzate, sane e seducenti, eppure tutto stride come un costante acufene dei sensi. Sento che chiunque, dico chiunque, ha abbracciato una forma di esistenza che è un affronto a ciò che è desiderabile. È come se una vocina nella testa ci costringesse, senza esercitare alcuna coercizione palese, ma anzi titillandoci gentilmente, esponendoci a una continua sollecitazione (un solletico a fior di pelle), a fare della nostra vita una cieca corsa in avanti, un severo praticantato a ostacoli. L'ambizione ha soppiantato il desiderio, e la parabola dei talenti è diventata il metro della nostra autopercezione. Se non hai un’ambizione a cui votare la tua immagine pubblica non sei niente, se non valorizzi la tua vocazione non puoi nemmeno dire di essere davvero qualcosa, di avere una personalità, un’identità (il che è strano: essere identici a sé stessi è una tautologia).

[ Terminologia obbligatoria per costruire il sé contemporaneo: 
- Vocazione; 
 - Ambizione; 
 - Autovalorizzazione; 
 - Impegno; 
 - Motivazione; 
 - Esperienza; 
 - Personalità; 
 - Identità. ]

 In realtà però ci identifichiamo con una sostanza aliena, con una bambagia estranea e pruriginosa di cui siamo stati imbottiti e che nutriamo dedicandole ogni nostro pensiero ed energia. E così, pensando di aver chiuso il cerchio, illudendoci di essere allo specchio con la nostra immagine più autentica, non ci accorgiamo invece di stare al cospetto di qualcos’altro da noi, un parassita che ci divora e si impone in tutto il suo bisogno di attenzioni. Una volta incastrati nella trappola non se ne esce: il gioco delle parti si struttura su questa rete di attese reciproche fondate su un virus inoculato a tradimento. 

 Mentre cammino - la ruota panoramica sempre più vicina - penso a due cose, la terza non si può dire. La prima è che amo quando i comici, nel bel mezzo del loro spettacolo, non riescono a trattenersi dal ridere della propria battuta. La seconda è che mi commuovono i gesti di fair-play sportivi. E non sono uno che segue lo sport. In un caso e nell’altro c’è un doppio movimento, una dialettica, quella del ritorno in sé susseguente all’uscita dal proprio ruolo, quella della riscoperta dell’altro al di fuori delle leggi che regolano il gioco. C’è l’umanità che riaffiora, che si impone. 

 Rimini è un po’ così: un continuo tornare a sé dopo essersi allontanati. Il lungomare caotico e dozzinale, sterminato e insensato, si trasfigura nella quieta e sonnacchiosa austerità del centro storico, tra piazze medievali e vicoli di pescatori, resti di antichità romane e tipici scorci da entroterra romagnolo (vicoli, portici, colori tenui di mattoni e pietre, cielo aperto). Qui sì è bello perdersi, di quelle perdite fatte di piccoli abbandoni, non di stordimenti ottusi. Non quel sentirmi reciso che percepisco su questa spiaggia che rimbomba. A Rimini ondeggio indolente tra le promesse disattese della vita balneare e le vedute del centro, “tra gelati e bandiere”, i pensieri ridotti a un nocciolo schiacciato e atterrito dal caldo e dall’attesa, da un’attitudine vaga alla pazienza impostami dal viaggio, dall’essere qui per caso, per poco, specchiato nei riflessi acquatici di Castel Sismondo, dove una sera ho immerso i piedi, oppure appoggiato ai parapetti del ponte di Tiberio, dove il cielo si apre immensamente. E poi i lunghi bastioni che costeggiano il canale, portando fino alla darsena e – ancora – alla ruota panoramica, costeggiati da imbarcazioni e chiatte, relitti da pesca, piccole navi cargo, traghetti turistici, yacht sontuosi, e quella sabbia fine della spiaggia infinita, color ocra, che si appiccica ai piedi e non va più via. Non va più via come questo fastidio, questo benessere, questa pace, questa inquietudine, questa sospensione vacanziera, questo orrore che rimane, che cresce.
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