Chissà se i gatti provano la stessa malinconia che sta incrinando le mie fibre, ora. Il mio gatto, Cilum, detto Cili, sta guardando un punto indefinito all’orizzonte, adagiato su un cuscino logoro sopra una vecchia se
dia di legno, messa lì per lui e per lui soltanto. Quando chiude gli occhi lo fa lentamente, con un certo languore, come se fosse un movimento consapevole. E proprio in quel momento, mentre indugia assorto a palpebre serrate, lo immagino pensare pensieri tristi. Lo sto fissando da qualche minuto. Tutt’a un tratto tende le orecchie, lo sguardo vivo. Deve aver sentito qualcosa, un cane che abbaia, un’auto che passa, fuori. Dopo poco gira la testa e mi scruta con quell’espressione vacua e enigmatica che sanno assumere solo i gatti. Chiude ancora una volta gli occhi per poi acciambellarsi sul cuscino, indifferente. Per lui la questione può dirsi chiusa, ma io sono ancora tutto rivolto verso questa creatura così misteriosa. Mi chiedo come sia possibile essere due entità tanto separate, senza che esista un contatto, un appiglio. Respira delicatamente, il pelo si solleva appena, la sua struttura organica è ridotta a poche funzioni elementari.
dia di legno, messa lì per lui e per lui soltanto. Quando chiude gli occhi lo fa lentamente, con un certo languore, come se fosse un movimento consapevole. E proprio in quel momento, mentre indugia assorto a palpebre serrate, lo immagino pensare pensieri tristi. Lo sto fissando da qualche minuto. Tutt’a un tratto tende le orecchie, lo sguardo vivo. Deve aver sentito qualcosa, un cane che abbaia, un’auto che passa, fuori. Dopo poco gira la testa e mi scruta con quell’espressione vacua e enigmatica che sanno assumere solo i gatti. Chiude ancora una volta gli occhi per poi acciambellarsi sul cuscino, indifferente. Per lui la questione può dirsi chiusa, ma io sono ancora tutto rivolto verso questa creatura così misteriosa. Mi chiedo come sia possibile essere due entità tanto separate, senza che esista un contatto, un appiglio. Respira delicatamente, il pelo si solleva appena, la sua struttura organica è ridotta a poche funzioni elementari.
Dopo un paio di volteggi sgraziati una mosca si posa sul suo naso. Sento un leggero solletico mentre il gatto si scuote appena per sbarazzarsi dell’insetto, che vola altrove in uno zig-zag d’ali. Che strano. Mi trovo all’improvviso di fronte a me stesso. Lo spazio intorno ha assunto una luminosità sfumata, spenta, ma fitta di dettagli. Vedo il pulviscolo che aleggia vorticoso nell’aria. Io sono seduto a gambe incrociate, lo sfondo alle mie spalle è sfocato. Mi stropiccio gli occhi, mi vedo mentre lo faccio, come se mi osservassi dall’esterno. Eppure mi sento, sento di essere incarnato in qualcosa, percepisco i miei contorni soffici di pelo, l’umidità del naso. Mi lecco una zampa per poi passarla sul muso.
L’umano. Ha l’espressione di uno che non dorme come si deve da un bel po’. Sta lì, accartocciato, senza un minimo di eleganza, con i capelli spettinati e un’espressione imbambolata, come se ci fosse chissà cosa da guardare, da scoprire. E pensare che è gentile con me. Dovrebbe essere altrettanto gentile con sé stesso. Torno a nascondere il muso nel pelo soffice. Mi piace il mio odore. A palpebre chiuse restano solo i suoni esterni, di fronte agli occhi un campo di macchioline che sciamano come i moscerini della frutta. Formano scie che si spalmano su questo velo scuro e pian piano sbiadiscono, mentre là fuori lui continua a guardarmi e interrogarsi sulle mie emozioni. Non sono sempre felice, sarei disonesto ad affermarlo. Ma quando tiro fuori le unghie e scortico la corteccia del pruno sento le endorfine arrivarmi fino alla punta della coda. E quando inseguo una lucertola fino allo sfinimento non potrei sentirmi più vivo. Mi chiedo come possa l’umano passare il suo tempo a non fare nulla, a non arrampicarsi sugli alberi o cercare femmine quando è il periodo giusto.
Ed ecco di nuovo quel suono, come un lontano miagolio. Torno a scrutare oltre il vetro con gli occhi spalancati. Là fuori c’è qualcosa che mi chiama. So che oltre la strada, oltre le automobili che sfrecciano rumorose, ecco là fuori, da qualche parte, c’è dell’altro. Che cosa sia non lo so. Però non riesco a superare la linea invisibile che separa il meleto dall’asfalto, non riesco a non tornare ogni volta qui, su questa sedia, a farmi assorbire dal buio e dalle macchioline di colore. E sempre, anche quando scarnifico la corteccia, mi prende un lieve sconforto, se così si può dire, generato dalla nostalgia di qualcosa che non conosco ma sento presente. Come una memoria dal futuro.
Riabbasso le palpebre. Sento un solletico. Questa mosca la deve smettere di ronzarmi attorno. Con uno scatto felino mi tendo tutto e provo a mangiarmela.
Ho un sussulto, qui sul divano. Non mi aspettavo questo impeto. Mi sento intorpidito, devo essermi appisolato. Ero così assorto nell’osservazione del gatto che mi è sembrato di perdermi nella sua testa. Mi passo una mano tra i capelli, guardo fuori dalla finestra. Si è fatta sera, così, da un momento all’altro. L’aria si sta facendo rarefatta e opaca, mentre la luce piega le tonalità dei colori su tinte livide che mi fanno sentire un gusto amaro in bocca. Mi rendo conto che dovrei alzarmi e fare qualcosa, qualsiasi cosa. Non sono un gatto, io. Mi sollevo dal divano e il peso che sentivo in testa scende giù nello stomaco accompagnato da una certa vertigine. Il gatto schiude gli occhietti e mi guarda severo. Mi sembra, anzi sono sicuro, che mi stia giudicando. Se potesse parlarmi, forse, mi esorterebbe ad uscire da questa casa e a superare il meleto, andando a vedere cosa c’è oltre quelle maledette macchine che scorrono e rumoreggiano senza sosta.
0 commenti:
Posta un commento
Commenta e dimmi la tua. Grazie!