Da questo paesino partivano i pescatori per l’Islanda e molti non tornavano, lo dice un pannello sulla darsena. Dal porticciolo di Paimpol l’orizzonte è fitto di alberi maestri che ondeggiano sull’acqua calma. Le casette bretoni sono composte da mattoni e intonaco. I loro tetti scuri d’ardesia creano una zigrinatura, una cornice tra la terra e il cielo che invita a rimanere con lo sguardo ancorato. Nei porti, il mare è sempre al di là. A bordo, il cielo sarà l’unico scenario e le case un ricordo.
Dovrò aspettare ancora. La ragazza non è stata precisa sull’ora, ha solo detto “nel primo pomeriggio.” Porta con sé la proposta su cui mi sto arrovellando da mesi. Ordino ancora un cidre. Qui lo servono in tazze di ceramica che piacciono molto ai turisti. È buono, acido e dissetante, non lascia la pesantezza tipica della birra. È la fine dell’estate, per gli altri. Non per me. La luce è diafana e accecante, ma non schiaccia come a luglio o ad agosto. Ieri ero al Beg Bilfod, con il suo faro ottocentesco che vigila sugli isolotti che sembrano il dorso di una creatura marina riemersa. Lo sguardo si riempie di luce mentre segue le scogliere irte che si infossano nel mare. Ho ancora la sensazione del vento sulla faccia, qui al mio tavolino. Ho un brivido, mi stringo nella giacca a vento blu.
La verità è che questo viaggio lo sto facendo solo per lei. Tutto il resto, fino a qui, è stato solo un’attesa, un riempire le pause. Quello che so della ragazza è che si chiama Constance, ha i capelli castani, corti, e conosce un armatore. Mi ha parlato di come il mare ti cambia, dopo un po’, di come l’ha cambiata, ormai. Fino a pochi giorni fa stava solcando le onde diretta a Brest. “Ma non vediamoci lì, è un casino. Paimpol è meglio, non si dà troppo nell’occhio.”
Sono stanco. Stanco del ritmo che ho dato alla mia vita. Una vita di terra, di pianura, di tragitti ripetitivi, di pochi scossoni, di scarsa improvvisazione. Dovrei tornare a casa tra qualche giorno, ma non ne ho voglia. Per questo sto per incontrare Constance. Perché non ho voglia di tornare a casa. Quando appare la riconosco subito. Si siede al mio tavolino, fa un gesto e la cameriera ammicca. Non ci salutiamo, ci guardiamo soltanto. Lei sorride appena, scrutandomi con gli occhi ridotti a due fessure dalla luce obliqua del settembre bretone. Ha un cappellino che le schiaccia i capelli sulla fronte. Ha più rughe di quante ne dovrebbe avere una della sua età. La pelle cotta dal sole.
“Si partirebbe dopodomani. Mattina presto” mi dice sorseggiando la sua tazza di cidre appena arrivata. “Armel non ha problemi a imbarcarti, ha già un permesso turistico per i primi giorni, poi in qualche modo si farà.”
“Come ti dicevo, però, non sono pratico” faccio io.
“Quello non è un problema. Imparerai. All’inizio devi solo abituarti al mare, poi tra un mese ti renderai utile per davvero. Sarà un lungo viaggio, devi solo essere pronto a questo, perché una volta partiti non si torna indietro.”
“Ci sarai anche tu?” chiedo rendendomi conto che è una domanda sciocca.
“Per un po’ sì,” mi rassicura Constance con un tono di voce soffice. Lascia la tazza e mi sorride, poggiando il mento su una mano aperta. “Almeno fino al Mare del Nord. Poi non so.” Ha assunto un tono sbarazzino, come se si fosse sciolta. Come se si stesse abbandonando a questo posto mite che pare cullarci.
Finiamo il cidre e non servono altre parole. Il sole è tornato a scaldare la pelle, la brezza che arriva dalla Manica si è placata e lei ha chiuso gli occhi, come se stesse meditando, le dita strette attorno alla tazza vuota di ceramica. Vedo le sue pupille muoversi dietro le palpebre, all’inseguimento di qualche pensiero che guizza poco sotto la superficie.
Dopodomani si parte, penso io. E mi sento sommerso da un mare di possibilità di cui non riesco nemmeno a tratteggiare i contorni. Partire e basta. Un salto imprevisto, uno stacco netto. A questo punto il dopo non mi interessa più, sento l’abbraccio di un presente che si sta estendendo secondo traiettorie nuove, sconosciute, inverosimili. Chiudo gli occhi anche io, sento i raggi del sole sulla faccia, il torpore del pomeriggio che avanza, la sua voce che piano suggerisce “prendiamo un altro cidre?”
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