I nomi degli africani sono il vero problema. In fondo per gli altri siamo prima di tutto una faccia e un nome. E questi come arrivano? Arrivano con la faccia nera e dei nomi impronunciabili. Pregiudizi, barriere culturali, ostacoli ideologici, linguistici, per non parlare della pulsione xenofoba che alberga nemmeno troppo sopita in ognuno di noi: tutto questo è molto meno rilevante di quanto si pensi. Prima di ogni altra cosa c’è una faccia nera e un nome strano. Ad esempio Sissouko. Oppure Djallo, o Oghenero, Babukar, Danjuma, Ghiamfy. Niente di insormontabile, dirà qualcuno. Quel qualcuno forse non si è mai chiesto perché, nonostante sembri tutto così facile, si continui a sbattere la faccia contro i soliti ostacoli. Sicché la pretesa di poter arrivare a gestire con naturalezza quell’insieme esotico di vocali e consonanti suona come una sfida al buonsenso.
Diamo un nome alle cose per renderle familiari. Il nominativo è la vera chiave per entrare in quella rete consorziale che ci garantisce un volto, un ruolo. E non è carino vedere ingarbugliata la nostra mappa di riferimenti con suoni che vi si impigliano dentro, evocando qualcos’altro, costringendo la mente e la lingua ad allacciare nuove sospette articolazioni. Davvero pensiamo che potrà essere mai considerato un fatto normale chiamarsi Hauhouot ? La gente non tollera le novità, e così nel migliore dei casi affibbia soprannomi semplificati per restituire una sembianza di riconoscibilità a universi alieni. Per riconquistare il controllo dell’ignoto. Abu, Ibra, Ime, Oghe, Lami, Ghia. Sigle, dittonghi, brandelli ciancicati capaci di restare in testa come rassicuranti e innocue onomatopee. La persona portatrice del nome così storpiato, dal canto suo, paga più che volentieri lo scotto, nella speranza di eliminare le distanze che lo separano dal tanto agognato universo di riferimenti altrui, illudendosi di essere così incluso magicamente in una comunità che, però, gli rimane ostile. Perché in verità un nome è un nome: un groviglio di parole. O forse no? Sbagliano tutti: chi si illude che un nome faccia tanta differenza e chi è convinto del suo non essere altro che un inutile ammasso di suoni. In entrambi i casi è il feticcio ad essere preso in considerazione, mai tutto il mondo retrostante.
Questo rimestarsi di pensieri accade ora mentre imbocco la stradina che sale verso casa. “Tu sei troppo serio, rimugini troppo sulle cose e finisce che te le perdi proprio mentre succedono davanti a te”, dice la vocina del mio fantasma. Come darle torto? Eppure in testa tutto funziona come dovrebbe, molto meglio che nella realtà, e lo svolgimento dei vari passaggi sembra srotolarsi come in una messa in scena: limpido, compiuto, stilizzato a dovere. Con un inizio e una fine. Niente rimane in sospeso, magari incastrato da qualche parte e lasciato lì a marcire e a infestare tutto il resto. Ogni volta che mi perdo nelle mie elucubrazioni mi stupisco di quanto io sia capace di illudermi, ogni volta, della loro ingannevole solidità: si snodano agili e articolate, per poi perdere consistenza al primo tentativo di esprimerle a parole. Cosa accade di tanto disastroso e disfunzionale durante i processi di traduzione pensiero --> voce? Non me lo so spiegare. Molti della mia età, quando si accorgono di non essere capaci di spiegarsi qualcosa, smettono semplicemente di farsi domande.
Le case intanto si allineano l’una dopo l’altra frastagliando i contorni della linea retta che mi porta in alto, alternando profili di facciate cangianti, in una piacevole sequenza ritmica di mura sfondate dal tempo e altre intonse nella loro ruvidità contadina, mentre altre ancora sembrano essere state calate dall’alto tutte intere, dalla mattina alla sera, frutto di qualche visione al passo con le mode del momento eppure così fuori luogo. Le case brutte - ne rimangono alcune preservate dalle visioni degli architetti - reclamano comunque il loro diritto a poggiare le fondamenta in questa stratificata collina borghese. Ce n’è una in particolare che ho sempre trovato bellissima e inquietante. Sembra un castello, con i diversi piani affastellati l’uno sull’altro fino ad arrivare alla torre a pianta quadrata che, eretta e fiera, domina la città. Il muro è tinto di un rosso granata, lo è sempre stato dacché mi ricordi. Le finestre sono impenetrabili e lasciano soltanto immaginare la vastità degli spazi interni. Li immagino labirintici e polverosi, nonostante la struttura sia stata ristrutturata di recente. Il castello si erge altezzoso tra i villini-parvenus di ultima generazione di quest’ultima parte di collina: strutture funzionali e squadrate dove domina il vetro e il metallo.
Le case ci assomigliano? Gli abitanti del castello non si abbandonano forse alla noia serale davanti alla televisione? Non riscaldano cibi artificiali al microonde dopo essersi abbandonati a un rapporto orale svelto, oppure a una sega di fronte allo schermo di uno smartphone? O forse no? Le case non ci assomigliano, le case sono la proiezione esterna di come vorremmo essere. Eppure là dentro tutti sono uguali, fanno le stesse cose, rimestano nello stesso fango esistenziale.
Mi passa accanto un cane piccolo, bianco, portato al laccio da un padrone sulla settantina, dal passo più lento di quanto non vorrebbe il quadrupede sovreccitato che tira e ansima. Che paura mi fanno gli anziani.
D’improvviso, scacciando in un colpo solo i densi pensieri in cui ero invischiato, irrompe un sogno fatto l’altra sera, non so perché. Uscivo da un’abitazione, probabilmente dopo una serata passata tra amici. Le finestre spargevano i loro fiochi bagliori iridescenti verso l’esterno. Fuori era buio pesto. Mi avviavo verso la macchina parcheggiata al lato della stradina a pochi passi dal selciato che contornava la casa, incastonata in una notte sorda e sconfinata. Una casa contadina simile ad alcune di quelle che mi sto lasciando alle spalle proprio ora, mentre procedo in salita immerso nel mio nuovo pensiero. Sono dentro il sogno e lo rivivo, non faccio caso a una macchina che mi sorpassa gorgogliando, sfiorandomi. L’erba ai lati della stradina è alta e si piega piano al soffio della brezza notturna. Sono calmo ma presto mi accorgo di qualcosa. Una presenza mi osserva. Da dove? Non lo so, ma percepisco distintamente di essere sotto tiro. Finché non le vedo. Ci sono delle code che si confondono tra gli steli d’erba, manifestando però la loro coriacea consistenza carnosa, risolta in un ciuffo terminale che oscilla lento nell’oscurità. Non vedo i leoni ma ora so che sono lì, quatti quatti tra la vegetazione, sento i loro sguardi concentrati e so che sono pronti a scattare. Sono braccato ed ecco sopraggiungere un’ansia primordiale, la stessa che abbiamo covato nei millenni e che ci tormenta ancora. L’uomo predatore si porta ancora appresso il terrore primigenio della preda. Mi affretto verso la macchina ed è come se percepissi il fiato dei felini sul collo. La chiave, la maledetta chiave non si trova. Rimesto nelle tasche ma non c’è niente da fare, e più passano i secondi più ho l’assoluta certezza che le bestie mi prenderanno. È solo questione di secondi, poi sarà solo carne lacera e dolore. Le chiavi saltano fuori ma è troppo tardi, ne sono consapevole. Il sogno finisce e mi sveglio sudato. Quella sensazione di allerta mi sommerge ancora.
Siamo i riflessi dei nostri sogni. Non c’è niente da interpretare, bisogna solo sentire, senza mediazioni e razionalizzazioni. O forse no?
- Sei troppo cerebrale, lo sei sempre stato, rilassati. È solo un sogno.
- E tu sei sempre stata troppo diretta. Però è per questo che mi piaci, perché noi due ci compensiamo.
- Quindi non ti piaccio per quello che sono, ma per l’effetto che ho su di te?
- Ecco, qui sei tu quella cerebrale, non ti pare?
- Sei il mio cervellino preferito.
Le voci si perdono nel sibilare del traffico sulla statale che taglia in due la collina, rompendo l’equilibrio verticale della salita e dissipando anche le ultime tracce del fantasma appena rievocato. Buffo come la sostanza di quello che ci tiene in vita durante il sonno sia talmente effimera da disperdersi come fumo. Siamo così poco? Le chiavi di casa si infilano nella toppa mentre rivoli di sudore colano lungo la schiena. Vorrei entrare e ricevere un saluto.
- Ciao, bentornato! Vieni qui, dammi un bacio.
Dentro è fresco e buio. Mi chiudo la porta alle spalle e rimango nell’ombra, respirando piano e sentendo un fremito che mi percorre come se uno spettro stesse giocando con le mie fibre. La giornata è finita, lascio le scarpe sulle scale dell’ingresso e mi trascino verso il divano. È come se la respirasse ancora, questa casa.
- Sono tornato, dico sussurrando, vittima del mio stesso inganno.
Mi irrigidisco. Anche oggi farò quello che mi capita di fare da troppo tempo, ogni volta che varco quest’uscio. Manderò via il suo spettro, come uno scaccia fantasmi, impedendomi di pronunciare ad alta voce le frasi che vorrei dire, che vorrei dirle. È così difficile ondeggiare tra realtà e fantasia, tra vividi desideri e dure prese di coscienza. È solo un nome, mi dico. Eppure non riesco a farlo uscire dalla testa. Magari fosse uno di quegli strani fonemi stranieri, forse sarebbe tutto più facile, saprei mettere dei confini netti tra me e ... Eppure no, quella che ho di fronte, seppure nella sua consistenza incorporea, è il mio mondo, il mio universo di riferimenti, la mia mappa concettuale. E mi bracca, mi sta col fiato sul collo facendomi sentire la preda dei suoi capricci, la vittima dei suoi agguati improvvisi.
Tiro un profondo respiro.
- Anche oggi ti devo mandare via, cara.
Accendo le luci. La casa appare, lei scompare. Ci sono solo io, un interno ammobiliato e tutto il resto fuori. Chissà se la mia casa mi assomiglia, vista da un osservatore esterno. Ma va, anche lei, come le case di prima, non è che un involucro vuoto, impersonale, a disposizione della fantasia indisciplinata dei passanti.
O forse no?
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