I petali si arricciano al contatto con la pelle deformando la loro consistenza di velluto. Un fatto non percepibile ad occhio nudo, ma io lo sento. Sento che fremono di piacere assieme a lei. Sento anche che tutto questo sta diventando sempre più pericoloso. Mentre mi infilavo nel viottolo che scende verso il suo appartamento avrei giurato di avere mille occhi addosso. Dev’essere solo paranoia, qui è facile sentirsi osservati: i nativi più estremisti non sono per niente clementi con gli alieni trovati a insidiare una di loro. Lo considerano ancora peggio delle concessioni farlocche che gli strappiamo per la nostra fame di acqua salata. Giusto qualche mese fa uno dei nostri è stato rimandato alla base con le mani legate penzoloni attorno al collo. Mentre mi perdo nelle mie congetture un sussulto le spezza la voce, geme. Una leggera scarica si diffonde dallo stelo ai miei polpastrelli. Al contatto con i petali i microscopici bulbi piliferi si irretiscono e tirano, tendendo l’epidermide. È tutto connesso, dall’uno all’altro capezzolo, un intreccio invisibile di fibre eccitate che si saldano dietro la nuca e si allacciano poi in misteriosi punti nevralgici lungo la schiena, attraverso il costato, sotto le ascelle.
- Questa cosa sta diventando troppo intima. Lo dice mentre una rugiada sottile inghiotte le corolle sgualcite.
- In che senso? Noi?
- No, non noi. I fiori. Sono di troppo. E a volte mi sembra che tu sia più interessato a loro che a me.
Come darle torto. Loro, i fiori, sono un tripudio di connessioni nuove. L’interazione che si crea con il mondo vegetale di questo posto mi ha affascinato fin da subito. Non si può parlare di creature senzienti, non sarebbe del tutto esatto. Qui i fiori, le piante, trasmettono flussi di energia. Assorbono e amplificano le sensazioni. Che da questo scambio ne ricavino qualcosa anche loro è dubbio. Io però ne sono sempre più persuaso. E questa sua gelosia improvvisa non fa che confermare la mia convinzione. La vegetazione del luogo da cui arrivo non è minimamente paragonabile: fusti coriacei, sgorbi di intrichi contorti, escrescenze sgraziate, trionfo della funzionalità. Roba che stocca carbonio e rilascia ossigeno in gran quantità. E basta.
- Ma davvero tu non senti niente? Non è la prima volta che cerco di sondare le sue sensazioni a riguardo.
- Io sento solo te. E mi basta. Voi alieni avete un’elettricità che mi lascia ogni volta senza fiato. Quindi se vuoi continuare a giocare con i fiori va bene, ma pensa anche un po’ a me.
Mentre esprime questo desiderio mi stringe le dita attorno. Decido che i petali possono aspettare e decido anche di sorvolare su quel “voi”.
Amo vederla splendere nella luce magnetica della sera quando si tira su per mettersi a sedere e la schiena inarcata, irrorata di goccioline di sudore, rifrange in un caleidoscopio i riflessi dei raggi lunari che filtrano da fuori. Siamo uguali, noi e loro. Solo che noi siamo arrivati dopo. Nessuno sa come sia possibile che apparteniamo alla stessa razza. Ogni differenza tra le nostre due specie sembra, o così ho avuto modo di constatare, legata puramente a fattori ecologici. Poco da fare, dalle nostre parti c’è meno bellezza. E quindi ci siamo sviluppati senza la stessa frastagliata gamma comportamentale che qui tutti hanno, tanto nel sesso quanto nella violenza, fin nelle più innocue attività quotidiane. Lei in particolar modo. Il tempo però ha indurito questa gente, perché nessuno sembra disposto a riconoscersi in un simile potenziale, mostrando invece un cinismo affettato, una spudoratezza forzata.
Sono sicuro, però, che anche lei sente i fiori.
Quando esco dall'appartamento, dopo averle dato un ultimo bacio, stacco una delle tante primule colorate dal suo stelo e me la appunto alla giacca termoregolante. I due materiali a contatto stridono, ma non importa. Ogni volta non riesco a resistere alla tentazione di portarmi appresso un po’ del suo mondo, per quanto ciò significhi condannarlo a sciuparsi e morire.
Oltre questo gruppuscolo di case dove sembra non abitare nessuno regna la desolazione più totale. Gli arbusti e le sterpaglie si ammucchiano qua e là, secondo geometrie casuali, lasciando che la propulsione del mio levitatore a trasmissione magnetica compatti sul suolo un solco nudo e brullo, che visto dall’alto sembra un confine naturale, magari uno di quei sentieri un tempo battuti dagli zoccoli coriacei di qualche bestia della steppa montana. Il mio mezzo scorre rapido fendendo con un sibilo l’aria gelida di queste latitudini boreali: sono così abituato a percorrere la mia solita porzione di spazio, talmente monotona da far venire la nausea, che mi accorgo troppo tardi di una scatoletta metallica circolare posizionata proprio nel bel mezzo della traccia. Me ne accorgo solo dopo esserci finito sopra.
“Merda!”. Lo penso mentre lo stomaco mi finisce in gola, sbalzato nel vuoto improvviso dei campi magnetici inversi generati dalla trappola. Riesco a imprimere una sterzata a pochi centimetri da terra, recupero potenza e levito debolmente verso l’alto, ma è troppo tardi, perché un’altra forza mi trattiene spingendomi all’indietro. Sono impigliato in qualcosa, filamenti sintetizzati dalla tela di certi ragnetti di queste parti. Scelgo di disarcionarmi e attivare le cellette laser della mia tuta. Il mezzo si schianta a pochi metri sollevando un polverone. Io sono di nuovo libero ma il tonfo al suolo è così forte che perdo il fiato. So già che, nonostante la mancanza di respiro e lo stordimento, devo fare una sola cosa: allontanarmi subito, in fretta. In lontananza, alle mie spalle, dei lumicini pulsano nel buio. Un brusio elettrico di eccitazione e voci si diffonde attraverso l’aria percorsa da intense folate di vento. Arrancando mi inoltro verso est, dove i cespugli si fanno più fitti per addensarsi in una macchia insolitamente rigogliosa. Cerco istintivamente la primula che avevo ancorato al bavero: ovvio, non c’è più. Tenendomi basso supero la prima fascia di vegetazione, lasciando tracce di brandelli di tessuto raccolti da spine e rami irti. Non ho nessuna speranza, se non quella offertami dal buio, dalla fortuna e dal paio di deflagratori a microfissione che tengo alla cinta. Approfittando del fronte rigonfio di cespugli di ginepro che, come una barriera, spezzano la steppa circostante, mi acquatto e mi appiattisco a terra. Il silenzio è rotto solo dal tonfo sordo del cuore e dal frusciare del vento sulle superfici. Non sento più le presenze di prima, devono essere all’erta pure loro. Sanno che nessuno di noi gira disarmato.
Non devo essermi reso conto della foga con cui ho attraversato i cespugli, ma ora sento le lacerazioni sulla pelle. Niente di così grave. La caduta di poco prima invece continua a spezzarmi il fiato. Mi trascino ancora per qualche metro, fino a trovare un avvallamento del terreno nel quale accovacciarmi. Mi accorgo, una volta posizionato in modo da risultare il meno visibile possibile, di essermi addentrato in una piccola ed inattesa oasi, probabilmente sorta grazie al riparo offerto dai muri di ginepro. Sparsi a casaccio su tutta la superficie una serie di tronchi si contorcono tenendosi bassi, attorcigliati come a voler aumentare la presa sulla scorza di terra dura e accigliata. Le fronde, rade ma spesse, devono offrire piacevoli trame d’ombra nelle giornate assolate e aride. Il satellite bianco di questo pianeta proietta la sue luce riflessa dando vita ad ombre delicate, permettendomi di distinguere i contorni traslucidi delle cose notturne. Poco lontani da me vi sono alcuni cespugli di rosa canina, e la tonalità accesa delle loro bacche rosse si sposa alle colorazioni bluastre del ginepro, al color sabbia dei rami, alle foglie scure.
Improvvisamente percepisco una presenza che mi scava sotto pelle, facendomi vibrare i muscoli esausti. A pochi passi dal mio riparo, incastrata nella spaccatura di un masso erratico avviluppato negli arbusti rinsecchiti, spunta come una fiammella viva un mucchietto di petali rosa scuro, sorretti da larghe e spesse foglie dentellate. Un pugno di primule accende quell’anfratto crepitando nell’oscurità. Carponi raggiungo il mucchietto e allungo una mano. Non appena il polpastrello entra a contatto con la materia soffice dei fiori una scarica mi percorre la spina dorsale: sento ogni fibra del mio corpo assorbire quella che è a tutti gli effetti una melodia, o una lingua calda passata sulla pelle tra sequenze di morsi teneri. E poi, a ritroso, senza volerlo davvero, restituisco la stessa sensazione alle corolle, e mi pare di vederle flettersi e respirare, dilatandosi in un moto di gratitudine. Non capisco come ma c’è stata una comunicazione, un amplesso. Mi sento appagato, estatico, tanto da non curarmi del motivo per cui mi trovo rannicchiato nella steppa. Fisso lo scapo ricco, mi concentro sulle fluttuazioni che i gambi restituiscono ad ogni alito di vento, il quale arriva carico degli scambi odorosi con le foglie spinose dei ginepri. Mi accorgo d’un colpo di avere una mano pronta a far scattare la sicura del primo deflagratore. Mi stupisco di me stesso: come potrei mai incenerire tutto questo? Questi fiori non mi hanno fatto niente di male. Rimetto in sicurezza l’ordigno e lo ricaccio nel cinturone, e sento che anche il ramo contorto, a pochi metri dal mio fianco destro, lancia segnali di riconoscenza attraverso gli scricchiolii secchi prodotti dalla sua danza sinuosa. Il vento ora si fa più forte e tutto attorno a me si scuote, danzando e sorridendo. Mi immergo nella sinfonia prodotta dal vento che suona ogni elemento rispettando la sua consistenza. È tutto così madido di reciprocità, qui. Mi rannicchio e come per magia le piante intorno si fanno più vicine, come a volermi avvolgere. Il brusio di prima riprende, vicino, assieme ai tonfi sordi di passi avventati.
Non me ne curo. Chiudi gli occhi e accarezzo i petali, pieno della sensazione di un dialogo amoroso che, in fondo, unisce quello interrotto con la mia terrestre, poche ore fa, e riassume il ricordo dell’amore di domani, di dopodomani. I fiori sanno fare questo. Come sto bene qui. Niente a che vedere con la vegetazione delle mie parti. Troppo funzionale, solo ammassi di carbonio e rigurgiti di ossigeno.
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