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Carta igienica

racconto carta igienica matteo castello
Sono seduto sul cesso e rido, rido, e nel frattempo faccio scorrere con decisi colpetti di polso il rotolo di carta igienica, quel batuffolo soffice e morbido, il quale gira, gira e gira, disperdendo a terra il rullo di doppi veli che si accumulano l’uno sull’altro, strato dopo strato, poco distanti dalla tazza. Sono felice, e rido, rido…

La mattina ho affrontato la sveglia presto con un’insolita leggerezza. Certo, quella cassa che mi aspettava immersa nelle luci ancora semi-spente del discount, quell’aria immobile e ancora ammorbata dai profumi dei detersivi per pavimenti irrorati da addette alle pulizie anonime e sfuggenti (le incontro sempre all’uscita, tengono gli occhi bassi e scorrono silenziose oltre le porte scorrevoli, svanendo nell’alba), per non parlare dei primi clienti e l’abitudine al monotono “bip” dei codici a barre riconosciuti dai sensori: tutto mi risultava sgradevole come al solito. Ma sapevo di poter sopportare.
E così ho fatto, ho sopportato.

Il turno è andato avanti come sempre, bip, bip, bip, la spina dorsale poco a poco si è inclinata, incapace di mantenere a lungo la postazione eretta, dunque ha cominciato a dolere in non più di tre ore. E le monetine da contare al posto di clienti attempati, il nervosismo in coda nelle ore di punta, il cartoccio di latte bucato che ti costringe a fermare tutto per pulire il rullo e scomodare la cassa 7 perché non c’è l’ombra di una spugna e di uno spray igienizzante alla mia postazione (ieri c’era, sono sicuro!). Ordinaria amministrazione, c’è di peggio.
E così è arrivata la fine del mio turno, la schiena mi faceva male, avrei preso un antinfiammatorio a casa. Bisognava arrivarci però, a casa. Ho preso il bus di sempre, prevedendo di fermarmi un paio di fermate prima per fare la spesa (no, non la faccio mai dove lavoro, mi sembra stupido spendere i soldi dove li guadagno). Il bus era affollatissimo: gente uscita dal lavoro, mamme con i bambini appena prelevati da scuola, vecchi intontiti, immigrati di varie nazionalità, giovani rumorosi, un tale che puzzava tantissimo (diversi i posti vuoti attorno a sé, nonostante la calca), un paio di personaggi con lo sguardo perso nel vuoto e le cuffiette nelle orecchie che di farmi passare neanche a parlarne. È sempre così, è l’ora di punta, ci mancherebbe, e poi dico sempre che bisogna favorire i mezzi pubblici rispetto all’auto privata. Per l’ambiente, sapete. Ho cercato un posto, non l’ho trovato. Così mi sono agganciato alla prima maniglia disponibile. Accanto a me, altezza ascella, una ragazza carina, neanche vent’anni, che visibilmente irritata si è girata verso l’amica facendo il segno di tapparsi il naso. Ad assistere alla scena almeno in cinque o sei.

Sì, lo so, in effetti puzzavo. Al supermercato fa sempre un caldo porco e fuori ancora di più. E per quanto lavori seduto faccio fatica, sapete? E ho sempre sofferto di elevata sudorazione, fin da bambino, quando avevo sempre i palmi bagnaticci e mi vergognavo a stringere la mano agli altri ragazzini, che per scherzo a volte mi porgevano le loro per poi ritirarle facendo “svuischh!”. Ero imbarazzato e arrabbiato, avrei voluto umiliarla in qualche modo. Non mi è venuto in mente nulla, così ho lasciato stare. Quanto sanno essere spietate le ragazzine, possono distruggerti con uno sguardo.
A dir la verità sono sempre stato intimidito dalle donne, le ho sempre trattate con una certa riverenza, cosa che spesso è stata scambiata per gentilezza, o tatto, o timidezza. La mia ex-moglie me lo diceva sempre, da giovane, che ero tanto premuroso. Con gli anni però ho iniziato a sentirmi sempre più piccolo, sempre più insignificante. E lei al contrario mi dominava con la sua spietata autorevolezza: diceva che ero uno sfigato, un leccaculo, che non avevo fegato. Lei avanzava, io stavo fermo e rimpicciolivo al suo cospetto. Poi se ne è andata e adesso molto probabilmente sta con qualche dirigente da quattro soldi ma tutto d’un pezzo. Come se fosse facile essere tutto d’un pezzo al giorno d’oggi, facendo questo lavoro, poi, e vivendo in questo quartiere.

Alla fermata successiva sono sceso, non ce la facevo più, mi sentivo tutti gli occhi addosso. Ci sarebbero voluti venti minuti a piedi fino al supermercato, sarei stato a casa per le sette. Una camminata mi farà bene, ho pensato. Il caldo si stava smorzando e soffiava un’arietta piacevole, anche se forse troppo fresca.
Arrivato al supermercato e superato il tizio dell’elemosina, mi sono diretto il più in fretta possibile ai reparti di mio interesse: qualche foglia di insalata, un antipasto già pronto, un sugo per la pasta, due birre. Ah, e poi le uova, le ho finite, e magari anche un po' di mascarpone, e quella confezione di gelato in offerta. Quella cosa lì, invece, no: sono a posto. Fare la spesa mi ha sempre dato una bella sensazione: scelgo, ripartisco le cose secondo la mia preferenza, le ridimensiono e le classifico secondo il metro del mio io. Al supermercato, da consumatore, riacquisto la mia statura, trovo consapevolezza di me.


Arrivato alla cassa ho guardato l’addetta e non mi ci sono riconosciuto: lei sembrava così disinteressata e, al contempo, a suo agio. Io invece mi sento sempre in affanno, con la sensazione di stare stretto in quella seggiola girevole. E ho l’impressione di dovermi sbrigare, sentendomi ogni volta in difetto con i clienti, perché avrei potuto essere più svelto. “Sa, anche io lavoro in un supermercato...”, ho accennato. “Aahn, davvero?”. Non sembrava tanto interessata, io però volevo parlare. “Sto alle casse del Daily, ma la spesa la faccio sempre qui, non voglio mica spendere i soldi dove lavoro”. Mi è sempre sembrata una logica saggia, e non manco mai di farlo notare nelle conversazioni. “Ah, il Daily, quello che è stato comprato da questo gruppo qui, tipo qualche mese fa. Lo diceva il tiggì. Carta o bancomat?”.
Cazzo”. Sono uscito ed eccomi a casa, il più in fretta possibile. La gola iniziava a farmi un po’ male, quell’arietta era diventata ancora più sottile e penetrante. L'antinfiammatorio per la schiena avrebbe giovato: due piccioni con una fava.
Dentro casa, nessuno. Neanche il cane che abbaiava sempre quando mi sentiva arrivare. Il vuoto.

Ho iniziato a svestirmi, mi sono messo gli abiti comodi e ho messo l’acqua sul fuoco. L’insalata in busta, meglio lavarla. Anche il sugo va scaldato: fiamma bassa e via. La gola però fa sempre più male, inizio anche a tossire: è ora di prendere l’antinfiammatorio, così domani si ricomincia. Si ricomincia con i clienti del supermercato, con il bus pieno, con questa cazzo di casa vuota. E cambierò supermercato dove fare la spesa, anche se dovrò farmi due fermate in più. Sono stanco. E inizio anche a sentire un certo stimolo. Vado in bagno, mi calo i pantaloni sformati della tuta, mi siedo sul cesso e guardo alla mia destra: un rotolo di carta igienica appena iniziato. Bello gonfio. Comincio a far scorrere il rotolo inutilmente, fino a che non rimane solo il tubetto grigio di cartone. Ne prendo un altro dall’armadietto alla mia sinistra. Lo metto su con il lato dello strappo verso l’esterno, come d’abitudine. Ricomincio a farlo scorrere: la carta nel frattempo si accumula e giunge ai miei piedi nudi. Anche quello finisce. Inizio anche a sentire un lieve odore di bruciato. Il sugo! Ma chissenefrega, sono euforico, prendo un altro rotolo. E comincio a ridere, ridere, ridere. Sono felice da non credere.

Ho vinto, pochi giorni fa, una scorta a vita di carta igienica. A vita! L’ho vinta grazie a una promozione del discount dove lavoro, una sorta di benefit per i dipendenti più fidati. Alla faccia di quello che non vale nulla. Carta igienica per sempre, una cosa di cui non mi dovrò mai più preoccupare. Sono a posto, ho vinto almeno questa cosa. Una leggerezza che mi rende felice. E così rido, rido e giro il rotolo, fino a che anche questo si esaurisce a terra. Rido fino alle lacrime, tanto sono felice.
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