“Odiavo la mia band”, dichiarava Smith a Rumore nell’aprile del 2000, raccontando la carriera parallela del biennio 1994-1995, quando, contemporaneamente alle sessioni con gli Heatmiser, registrava le sue canzoni a base di chitarra e voce finite sugli album “Roman Candle” (Cavity Search, 1994) e “Elliott Smith” (Kill Rock Star, 1995), entrambi pubblicati da piccole etichette indipendenti prima di finire stabilmente nel roster della Domino e, infine, di approdare alla Dreamworks.
“Roman Candle” è tutto quello che viene prima, si diceva, anche prima della consapevolezza di essere “quel tipo di musicista”, di essersi reso conto che sarebbe stata proprio quella la strada da percorrere. Spedito alla Cavity Search di Portland dalla sua ragazza (e manager degli Heatmiser) J.J. Gonson, l’esordio di Elliott Smith è un lavoro dotato di una purezza incontaminata e di un’ingenua immediatezza, sospeso in un mondo separato, appartato. Ecco, proprio il suo essere una creazione contingente (se non accidentale) rende questo album tanto affascinante, tanto speciale. Non è un caso che si sia tirato in ballo Nick Drake per un paragone tra il suo “Pink Moon” e questo “Roman Candle”: entrambi gli album sono confessioni private svelate al pubblico, permeati fino al midollo di urgenza espressiva, per quanto il lavoro di Drake segni la fine di una carriera e quello di Smith ne annunci l’inizio.
Nonostante la bassa qualità della registrazione, è proprio il sound domestico di “Roman Candle” il trucco per dare alle nove canzoni in scaletta la giusta intensità. La chitarra suona diretta, senza filtri, lasciando spazio all’imperfezione, alle strisciate delle dita sulle corde, eppure lo stile è perfetto: una tecnica di derivazione folk, con il pollice che fa da accompagnamento sulle corde basse e le dita che ricamano con eleganza modulando gli accordi spesso in arpeggio. L’arrangiamento di “Condor Ave.” (originariamente scritta da Garrick Duckler, che negli anni ‘80 suonava con Smith negli Stranger Than Fiction e nei Murder of Crows) ha dell’incredibile, con quelle continue variazioni ritmiche sulle corde ed un riuscitissimo afflato melodico, mentre la storia dipinge un’intensa e contorta scena di abbandono. Così le tracce successive (le tre “No Name”), approfondiscono tanto la vena autoriale di Smith (estremamente malinconico e fatalista: “killing time won’t stop this crying”, scrive in “No Name #2”), quanto la sua raffinata dote compositiva (le chitarre di “No Name #1”, composta dalla Gonson, ricordano Simon & Garfunkel, quelle di “No Name #3” potrebbero anche fare a meno della voce tanta è la loro espressività). Lo spirito delle canzoni dell’album è sospeso tra un disincanto allucinato (l’ostinato tremolio delle corde in “Roman Candle”: “I’m a roman candle, my head is full of flames”) ed un cupo senso di malessere (“Last Call”, che torna a prediligere un’elettricità densa e nera come la pece).
Dopo “Roman Candle” (e la sua versione a più alta definizione dell’anno successivo) verrà altro: dischi registrati meglio, più compiuti e “ascoltabili”, forse migliori. Eppure in un ideale best of dell’artista di Portland si potrebbero trascurare giusto due o tre brani dell’esordio, che fisserà le coordinate emotive e stilistiche per gli episodi successivi. Una prima prova, questa, che ci regala un ritratto non mediato da giudizi postumi (chi avrebbe immaginato che sarebbe andata a finire così?), rendendoci un Elliott immerso nella sua atmosfera quieta, quotidiana, ancora non proiettata lungo un percorso. “Roman Candle” è espressività pura, cristallizzata. Una delle migliori testimonianze di quello che Smith sapeva fare meglio: scrivere e suonare canzoni. Senza il brusio di quello che stava fuori, senza il tormento di quello che cresceva dentro.
Recensione tratta da: http://www.storiadellamusica.it/cantautori/songwriting/elliott_smith-roman_candle(cavity_search-1994).html
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