Perdo interesse con la stessa rapidità con cui mi appassiono alle cose. È un attimo: smetto di fare quello che stavo facendo fino a pochi istanti prima e mi fisso su una visione, su un dettaglio, su una domanda. I contorni della nuova configurazione del mio tempo, dopo essersi per un istante disposti secondo le priorità dettate da quelle seduzioni fugaci, si squagliano in un secondo. Allora mi trovo come stordito dall’improvvisa insensatezza di quell’interesse che fino a pochi istanti prima avevo creduto fondamentale. Le risposte alle mie domande presto si distaccano da ogni mio coinvolgimento e lo sguardo si perde in un languido sfumare, i dettagli che osservavo con tanta attenzione ritornano ad essere parte indistinta di quella realtà che mi fagocita emettendo un suono sordo, ovattato.
Ciò che mi aveva accompagnato alla porta faceva parte di quella serie di improvvise “epifanie emotive”, dissipatesi non appena varcata la soglia, lasciandomi come uno spaventapasseri privato della paglia: un sacco vuoto. Il fatto è che le luci al neon appese sul soffitto avevano una strana intermittenza, un tremolio appena percepibile, e per un momento avevo pensato di aver individuato una sorta di ritmo, un ordine armonico, in qualche maniera musicale. Sembrava avere un senso, tutto qui. La nuova stanza, invece, è slavata da una luce fissa e inesorabile. Noiosa.
Ora mi conducono al lettino. Gli uomini che mi scortano mi toccano a mala pena, sento le loro dita premere senza insistenza contro il tessuto della camicia. Mi muovo da solo, tranquilli, so dove devo andare, sono già stato qui altre volte. Uno dei due ha la testa piccola piccola, noto. Potrebbero avergliela infilata in un barattolo da bimbo lasciando crescere tutto il resto… No, il naso è lungo e aquilino, non avrebbe potuto starci in un barattolo. L’altro è un nero nerissimo, non tipo cioccolato al latte, più un fondente al novanta percento. Quello alla mia destra - il testa piccola - è più alto di me, quello alla sinistra - il nero nerissimo - un poco più basso: messi in fila siamo in scala.
Mi fanno distendere sul lettino, li anticipo piegando le ginocchia, tanto che per un attimo tra le loro mani e le mie spalle rimane il vuoto. Una volta adagiato questi cominciano ad assicurarmi al letto con delle cinghie. Scopro solo ora che le pareti di quella strana stanza sono di un singolare blu elettrico. Un colore stranissimo, assurdamente artificiale, quasi come se l’intento fosse quello di proiettarmi in anticipo fuori dal mondo, fuori dalla realtà. Un muro fatto di mattoni blu-elettrico, con il pavimento bianco opaco e quella vetrina coperta da un paio di tende marroncine. Cattivissimo gusto. C’è anche un telefono nero, lo vedo ora, là in fondo alla mia destra.
Mi viene in mente che non ho mangiato. Qualche giorno fa mi hanno domandato se avessi voluto qualcosa di speciale per l'ultimo pasto. Ci ho pensato, giuro. Mi sono sempre piaciute le robe teatrali. Solo che non mi veniva in mente niente di particolare, non sono mai stato raffinato in cucina. Così, su due piedi, ho pensato all’aragosta. Però non so nemmeno che gusto abbia l’aragosta, quindi ho preferito chiuderla lì con un hamburger con patatine. Però se possibile patatine tagliate a rondelle, non a bastoncino. A dir la verità ho anche chiesto se sarebbe stato possibile, una volta arrivato il momento, mettere della musica, magari un pezzo lento di John Fahey, profumato e rurale. Ah, e mi piacerebbe anche poter accarezzare un cane. Ovviamente la risposta è stata no, e pensandoci ora è stato meglio così: non è una situazione da far vivere ad un cane, questa. Peccato per la musica. In ogni caso non ho mangiato che due o al massimo tre patatine.
Ahi! L’ago. Quasi me ne dimenticavo.
Scusi, mi ero distratto, dico all’infermiera, e quella mi guarda sconcertata.
Ora il lettino si alza e mi ritrovo in verticale, mentre le tendine marroni si aprono. Di fronte a me ho un pubblico scarsino che non ha decisamente l’aria di essere così entusiasta di essere lì. Fremono, è evidente, non vedono l’ora di andare via. Una signora in prima fila ha un abito elegante ma non mi guarda neanche una volta, tiene lo sguardo basso.
Vuoi dire qualcosa?
Eh? Scusi, non stavo ascoltando.
Vuoi dire le tue ultime parole?
Devo?
No, se non vuoi.
Non è che non voglio… È che così su due piedi non mi viene in mente niente… Facciamo che va bene così, grazie.
Ancora sguardi sconcertati.
Il lettino torna giù e inizio a sentire uno strano bruciore che si dipana lungo tutto il corpo partendo dal braccio. Niente di insopportabile, intendiamoci, se non fosse per un improvviso, fastidioso, prurito al naso. Una mosca! La vedo volare via dalla mia faccia e la seguo con lo sguardo. Si libra zigzagando per la stanza, non proprio elegante ma bella decisa. Finisce contro il vetro, lì rimbalza due o tre volte e poi si posa. Chissà da quanto tempo è qui dentro, forse da tanto, forse ha fame e non sa come uscire. Sento un filo di compassione per quella mosca, per quanto in fin dei conti sia solo una mosca e, diciamoci la verità, qui non rischia nemmeno di rimanere invischiata in una ragnatela: è tutto pulitissimo, tanto che si sente odore di disinfettante, come all’ospedale.
Sento gli occhi che si fanno pesanti.
La mosca! Agente, scusi, la mosca!
Cosa dice?
La mosca che avevo sul naso, potete farla uscire, poi?
Mi guardano increduli.
Non ho capito, una mosca? Quale mosca?
… Quella… Non fa niente, non importa.
Lo sguardo si affievolisce, la stanza sembra sfumare, levito, volo. Raggiungo la mosca. Magari le spiego che per uscire basta aspettare che qualcuno apra la porta e via, fuori!
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