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"A Theory of Human Need". Una sintesi.


I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per, via puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l'esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l'organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell'esame né della costituzione fisica dell'uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l'azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono” (K.Marx, L'ideologia Tedesca, cap.II, 1846)

Per una teoria
Len Doyal e Ian Gough, nel loro “A Theory of Human Need” (1991), si pongono l'obiettivo non solo di dimostrare l'esistenza di bisogni umani universali, ma anche quello di classificarli e misurarli. L'assunto dell'universalità di tali bisogni, assieme a quello della loro oggettività, si scontra con l'approccio soggettivista e relativista che, per gli autori, avrebbe portato all'egemonia, negli anni '80, della cosiddetta “nuova destra” (pg.1). La supremazia del mercato nel venire incontro alle preferenze soggettive, secondo l'assunto welfarista (o individualismo etico: “ognuno è il miglior giudice di se stesso e i connotati degli stati del mondo si esauriscono nella percezione che ne scaturisce per gli individui”, Acocella, 2007, pg.30), sarebbe stato il risultato legato a questa egemonia culturale: “for it the notion of objective need is groundless, then what alternative is there but to believe that individuals know what is best for themselves and to encourage them to pursue their own subjective goals or preferences? And what better mechanism is there to achieve this than the market?” (pg.1-2). 
Per gli autori, però, esisterebbero dei chiari elementi legati al riconoscimento dell'oggettività dei bisogni: uno di questi è il concetto di “danno grave” (serious harm). Gli esseri umani possono subire “sofferenze elevate” a seguito di condizioni sociali alterabili: è interesse comune dell'umanità evitare questo danno. A partire da qui si può ricavare, per relazione inversa, il concetto di “giustizia sociale”: ed ecco che la comparsa di un'ulteriore categoria, quella di “progresso sociale”, sarebbe legata al successo di un cambiamento sociale che avesse come risultato quello di diminuire le sofferenze umane. Gli esseri umani, per Doyal e Gough, hanno in comune lo stesso potenziale di essere danneggiati o di “prosperare”, ed è questo potenziale a dar corpo all'idea di ingiustizia nel caso in cui un individuo o gruppo fosse favorito arbitrariamente a spese di un altro (pg.2).
Una teoria “coerente e rigorosa” dei bisogni umani è quindi invocata non solo per dare nuova autorevolezza al concetto di progresso sociale, ma anche per mettere in piedi un'alternativa normativa al neo-liberismo e al conservatorismo politico, responsabili di aver causato a molti quel “danno grave” che sarebbe all'origine dell'ingiustizia sociale (pg.3). Lo scopo dell'opera di Doyal e Gough è quindi quello di “dimostrare che esistono dei bisogni umani di base, che gli individui hanno il diritto ad una soddisfazione ottimale di questi bisogni, e che la liberazione umana dovrebbe essere misurata a partire dalla verifica del grado con cui questa soddisfazione è avvenuta” (pg. 3-4).
Una nota sul ruolo dell'individuo nella trattazione di Doyal e Gough richiede un breve approfondimento. Il dualismo tra welfarismo e paternalismo è risolto attraverso una concezione di individuo che potremmo definire, con l'aiuto di Martha Nussbaum, “aristotelico-marxiana” (Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, pg.120-121). Secondo questa concezione l'essere umano sarebbe “un uomo ricco di bisogni, plasmato tanto dalla ragione pratica quanto dall'appartenenza”. L'uomo è quindi valorizzato e analizzato nella sua individualità, essendo però questa fondata nella realtà sociale. I bisogni dell'uomo, in quanto “animale sociale”, “are neither subjective preferences best understood by each individual, nor static essences best understood by planners or party officials” (pg. 4).

Relativismi
Il problema del relativismo è, per gli autori, di grande importanza, in quanto caratterizzerebbe il background culturale del pensiero conservatore contemporaneo (non solo, però: le teorie dell'imperialismo culturale sono altrettanto imbevute di relativismo, così come le varie forme assunte dal pensiero postmoderno anti-realista), contrario ad una concezione universalistica dei bisogni, la quale porterebbe ad “intrusioni” nella libertà personale dell'individuo-consumatore da parte di soggetti altri rispetto al libero mercato, unico e superiore meccanismo per “allocare le risorse e definire gli obiettivi” (pg.11). L'ortodossia economica welfarista, legata al pensiero delle destre, si basa su due principi: il primo, quello della concezione soggettivista degli interessi per il quale gli individui sono gli unici giudici dei loro “wants”; il secondo, quello della sovranità privata, per cui sarebbero il consumo privato e le “preferenze lavorative” individuali i parametri per decidere cosa e come produrre e come distribuire quanto prodotto (pg.10). Per smentire il postulato welfarista basti la considerazione che “[...]le soddisfazioni effettivamente godute dall'individuo sono sicuramente un indicatore distorto del benessere della collettività nel caso in cui le preferenze non siano esogene (cioè date, ndr) ma endogene. Il fondamento del liberalismo si rivela allora molto fragile: assicurare che le preferenze sociali riflettano quelle individuali per proteggere la società da interferenze esterne viene vanificato dal fatto che le preferenze individuali non sono "genuine", ma artefatte, in quanto altri soggetti subiscono l'influenza di altri. Il problema centrale di una società democratica sta nel trovare accorgimenti istituzionali che almeno controbilancino le menzionate interferenze" (Acocella, 2007, pg.140). Se le preferenze degli individui sono legate a conoscenze imperfette o incomplete, o se queste sono in qualche misura influenzate da altri individui o istituzioni (dalla società), il ragionamento welfarista è segnato da circolarità. L'impostazione relativista di alcuni gruppi radicali e della loro critica all'imperialismo culturale, sarebbe invece particolarmente insidiosa, oltre che “inconsistente”: asserire che i bisogni specifici siano formulabili e giudicabili solo dai corrispondenti gruppi di riferimento, significa rendere impermeabili i confini tra gruppi e tra culture, arrivando ad un “confinamento della verità nei confini delle culture specifiche” (pg.29). L'idea che ogni cultura sia “internamente coerente” presuppone l'impossibilità di criticare quelle forme di vita sociale basate sulla violazione sistematica dei diritti umani o di gruppi quali, ad esempio, le donne o gli omosessuali. La barbarie, suggeriscono Doyal e Gough, esiste ed è qualcosa di indipendente alle conformazioni culturali dei diversi gruppi umani. Per identificare e valutare questa barbarie occorre però una teoria coerente dei bisogni umani che delinei elementi comuni sulla base dei quali verificare la presenza di ingiustizia.

Bisogni essenziali
Una definizione di cosa si intenda per “bisogno” è a questo punto fondamentale. Il bisogno è prima di tutto distinto dalle “pulsioni” (o voglie, “wants”) le quali non sempre sono giustificate o legate a veri e propri bisogni (si pensi alla voglia di bere alcool, o di consumare droga). I bisogni, per essere tali, devono essere universalizzabili, e quindi legati a caratteristiche comuni ad ogni essere umano, mentre i desideri possono variare da persona a persona, da cultura a cultura (pg.39). Ciò che rende universale un certo insieme di aspirazioni è il loro essere legate ad elementi indispensabili per rendere umana la vita di uomini e donne. Un interesse umano fondamentale e universale, come abbiamo visto, è quello di evitare una qualche forma di “danno grave” (ovvero una seria limitazione, fisica, psicologica, relazionale, che impedisca all'individuo di svolgere le attività essenziali). I bisogni sono quindi distinti dai “wants” in relazione alle precondizioni per l'allontanamento del danno grave, precondizioni che possono essere considerate obbiettivi comuni dell'umanità, se tutti gli individui vogliono essere in grado di agire nel loro interesse oggettivo (pg.146). Su questa base Doyal e Gough danno forma al loro concetto di “bisogni essenziali” (“basic needs”, pg.50), raggruppati in due categorie: la salute fisica e mentale e l'autonomia personale. La sfera del bisogno è qui legata ad una concezione realista del mondo: esiste un “modo in cui il mondo è” (pg.42) ed è a questo che si riferiscono le affermazioni sui bisogni. Pronunciarsi sui bisogni significa quindi fare riferimento a stati del mondo oggettivi: la necessità di un quantitativo di vitamine o di calorie necessarie a permettere il compimento delle più elementari attività è un bisogno oggettivo, a prescindere dalla conoscenza soggettiva del fatto che le vitamine o le calorie servano o, addirittura, che esistano. In questo senso: “puoi aver bisogno di ciò che vuoi, e volere o non volere ciò di cui hai bisogno. Quello che non puoi fare è non aver bisogno di quanto richiesto per scongiurare un grave danno” (pg.42). Doyal e Gough dimostrano così che il concetto di bisogno umano è universale e oggettivo.

Salute e autonomia
Ogni persona deve essere in grado di poter partecipare alla propria cultura, qualunque essa sia. Questo è un prerequisito per ogni forma di vita degna e rispettosa dei bisogni dell'individuo. Perché ciò sia possibile devono essere rispettati dei requisiti precisi: esistono delle “precondizioni universali” che permettono che tale partecipazione avvenga. Come abbiamo visto tali prerequisiti sono la salute fisica degli individui e la loro autonomia. Partendo dalla salute fisica è importante notare come la mera sopravvivenza non sia sufficiente per rappresentare un bisogno umano essenziale: per poter agire al meglio nella società, l'individuo deve godere di buona salute, cioè “non deve soffrire in maniera prolungata e seria a causa di una o più malattie” (pg.56). A partire da questa definizione, e facendo tesoro delle conoscenze tecniche del modello biomedico, depositario della “migliore conoscenza disponibile” e impiegato in tutto il mondo per la cura e la prevenzione di gravi malattie, è possibile comparare la salute degli individui di ogni cultura. Diviene così un obiettivo, per chi voglia condurre una vita “attiva e prosperosa”, “ottimizzare la speranza di vita e scongiurare gravi danni fisici e malattie concettualizzate in termini biomedici” (pg.59). Un altro bisogno essenziale è costituto dall'autonomia individuale. Tale autonomia è legata alla capacità degli individui di partecipare alla vita sociale non in maniera meccanica, ma in maniera creativa e consapevole. Un individuo autonomo sarà in grado di partecipare alla propria cultura riflessivamente e criticamente, comprendendone le regole, avendo le basi per relazionarsi con gli altri membri, potendo formulare autonome aspettative e strategie, essendo in grado di prendere parte al processo di formazione o di modifica delle norme. Sono tre le dimensioni dell'autonomia personale (pg.60):
  1. Comprensione: ogni individuo deve avere a disposizione delle abilità cognitive, differenti, nello specifico, da cultura a cultura, ma atte a fornire risorse comuni a diverse attività umane (educazione all'interazione dei bambini, linguaggio). Il processo di apprendimento, in tutte le società, è collettivo, e la conoscenza di sé è un fatto sociale: “tutti hanno bisogno di persone per essere qualcuno” (pg.60). Vivere autonomamente in una società dipende dal grado di comprensione di se stessi e della propria cultura.
  2. Salute mentale: intesa come capacità cognitiva ed emozionale, si riferisce alla razionalità. Nonostante la difficoltà di diagnosticare le malattie mentali tra differenti culture, rimane il fatto che si considera patologico quello stato mentale che comporta una perdita -o un'assenza- di un “livello di autonomia sufficiente per dei livelli più che minimi di riuscita interazione sociale” (pg.63).
  3. Opportunità: questa categoria ha a che fare con la partecipazione critica all'interno di una società. Quando esiste l'opportunità di partecipare al processo legato all'accettazione o al cambiamento delle regole di una cultura, è possibile per gli individui aumentare la loro autonomia (pg.67). Essenziali per questa “autonomia critica” sono la libertà di agire e la liberta politica.

Comparabilità
L'ultimo nodo da sciogliere per scongiurare ogni dubbio relativista è quello della comparabilità della soddisfazione dei bisogni tra diverse culture. Se può essere trovato un accordo circa il fatto che esistono dei beni fondamentali per l'uomo in quanto tale, rimane il problema di capire a quanto ammonti la quantità di questi beni necessaria a garantire un livello adeguato di soddisfazione dei bisogni. È vero che ci sono differenti modi di soddisfare i bisogni (si pensi ad esempio al cibo e ai regimi alimentari), ma la varietà di combinazioni con cui un bisogno essenziale può essere soddisfatto non mette a rischio il concetto di universalità del bisogno stesso: le preferenze sono soggettive, i bisogni no. (“Basic Needs, then, are always universal but their satisfiers are often relatives”, pg.155).
Riguardo a quale sia il livello accettabile di soddisfazione dei bisogni il problema è più complesso: se infatti assumiamo che a diverse culture corrispondano diverse convinzioni circa questo livello, viene a cadere l'assunto di universalità appena elaborato. Per risolvere tale dilemma viene usato un esempio immaginario (pg.71): su un'isola vigono tutte le condizioni prima elencate (assenza di scarsità materiale e di inquinamento, educazione universale, ampia opportunità per le scelte “vocazionali”) per permettere a tutti gli abitanti di partecipare alla loro cultura di appartenenza ai più alti livelli. In questa situazione di abbondanza è logico pensare che, per scongiurare disuguaglianze nella soddisfazione dei bisogni, il livello di salute e autonomia degli abitanti debba essere elevato e simile per tutti. Non ci sarebbe infatti nessuna ragione per limitare ad un qualche punto minimo l'accesso alle risorse materiali e cognitive. Su metà dell'isola, ad un certo punto, scoppia un'epidemia che mina la salute fisica degli abitanti: se questi si spostassero sull'altra metà sarebbero considerati “inabili” a partecipare pienamente alla vita sociale di questa zona per la loro disabilità fisica. Lo stesso succederebbe nel caso di un'amnesia che cancelli le conoscenze e le capacità cognitive. In questo caso, all'interno dell'isola (cioè tra i membri di una stessa cultura), comparare livelli alti e bassi di salute e autonomia personale non sembra essere cosa così difficile. Ora immaginiamo due isole, ognuna con la sua particolare cultura. Su ogni isola però vigono, come nell'esempio precedente, i più alti livelli di autonomia personale e salute fisica, i quali permettono agli abitanti di ciascuna isola di partecipare alla loro cultura in maniera ricca, creativa e consapevole. Anche in questo caso, se un qualche problema grave toccasse una delle due isole, l'impatto disabilitante inter-culturale non sarebbe difficile da comparare: i membri con i minori livelli di salute fisica e autonomia sarebbero facili da individuare in riferimento a quelli con i livelli più alti. Inoltre gli individui con alti livelli di salute e autonomia in un'isola avrebbero maggiori possibilità per raggiungere alti livelli di partecipazione anche sull'altra (a condizione che capiscano le sue regole). È quindi possibile, in teoria, comparare i livelli di soddisfazione dei bisogni fondamentali anche tra diverse culture. Il livello adeguato di soddisfazione dei bisogni è quindi quello ottimale: questo livello ottimale è quello che garantisce l'accesso alla conoscenza delle altre culture assieme alle capacità critiche e alle libertà politiche necessarie a valutare o cambiare la propria (pg.73). Si possono quindi identificare due tipi di “ottimo”, i quali non corrispondono per forza ad un “massimo”: uno è l'ottimo di partecipazione, ovvero quel livello di salute e autonomia grazie al quale ogni individuo può scegliere le attività alle quali prendere parte, avendo le capacità e i mezzi per farlo, all'interno della propria cultura; l'altro è l'ottimo critico, definito come quel livello a cui ogni individuo è messo in grado di formulare aspirazioni e convinzioni tali da permettergli di mettere in discussione la sua forma di vita, di partecipare alla politica e di poter unirsi ad un'altra cultura (pg.60).

Sebbene esistano differenze tra i bisogni di gruppi specifici (si pensi alle donne), per gli autori sarebbe un errore “reificare” tali differenze: i bisogni fondamentali sono gli stessi per tutti gli oppressi, ed è la loro stessa identificazione a rendere condannabile su basi oggettive l'oppressione. Questo fatto, garantendo la definizione degli stessi confini tra oppressi e oppressori, comporta maggiore comprensione e compassione reciproca e quindi, potenzialmente, getta le basi per un'azione politica comune avente lo stesso fine: il raggiungimento di un livello ottimo di soddisfazione dei bisogni, a prescindere dalle differenze tra i gruppi (pg.75). Il “divide et impera” culturalmente legittimato dalle molte propaggini del pensiero relativista sarebbe dunque un limite per la liberazione umana. La condizione per una tale liberazione è fondata sull'idea che i popoli siano fondamentalmente uniti, affratellati dalle stesse umane aspirazioni, invece di essere irrimediabilmente divisi in enclaves incomunicanti.

Precondizioni sociali
L'autonomia personale non presuppone in alcun modo una concezione individualista dell'uomo. Ogni individuo è dipendente, nel suo riconoscersi come persona, dalla società in cui vive: “gli individui scoprono chi sono attraverso l'apprendimento su cosa possono e cosa non possono fare. L'azione individuale è sociale nella misura in cui deve essere imparata e rinforzata dagli altri” (pg.77). La base per la convivenza sociale risiede nella comprensione delle regole che rendono possibile tale convivenza. Tale processo è sociale, e richiede di superare il concetto di libertà negativa per introdurre quello di libertà positiva. Ci sono quattro precondizioni che, rendendo possibile la partecipazione dei singoli alla loro società, forniscono le basi per il raggiungimento dei più alti livelli di autonomia e salute fisica:
  1. Produzione: ogni cultura necessita di una base economica per la produzione dei beni materiali volti alla sopravvivenza collettiva. I problemi pratici relativi alla produzione materiale sono gli stessi per ogni gruppo umano e costituiscono un elemento costitutivo della società stessa. Si pensi alla divisione del lavoro, che nel suo disegnare le relazioni sociali di produzione (e quindi i ruoli e le gerarchie all'interno di una società), è elemento comune ad ogni gruppo umano. Il debito verso la tradizione marxista è qui più che evidente: “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza (Karl Marx, Prefazione a Per la critica dell'economia politica, 1859)
  2. Riproduzione: la procreazione, la cura e la socializzazione dei bambini sono elementi da cui dipende la tenuta di ogni società.
  3. Trasmissione culturale: le conoscenze relative alla produzione e alla riproduzione non sono innate, ma devono essere trasmesse ai membri della società tramite norme, leggi, tradizioni, rituali. La trasmissione di queste conoscenze dipende fortemente dalle strutture comunicative che, a loro volta, richiedono una qualche istituzione preposta all'educazione. Oltre alla conoscenza tecnica ogni individuo deve comprendere le norme che regolano il sistema di distribuzione del prodotto e dei ruoli sociali.
  4. Autorità: la possibilità di non rispettare le regole pone sia opportunità che rischi. Il cambiamento sociale non sarebbe immaginabile senza la possibilità di disobbedire alle norme sociali. Tuttavia abbiamo visto che l'accrescimento di salute e autonomia da parte dell'individuo dipende dall'accettazione collettiva (per quanto critica e libera) delle regole che definiscono i ruoli associati alla divisione del lavoro nell'attività produttiva. Deve quindi esistere una forma di autorità che assicuri il rispetto delle regole (pg. 81-89).
Da queste precondizioni dipende il grado con cui i bisogni individuali possono essere soddisfatti: si tratta di attività strutturali, indispensabili per un minimo funzionamento di ogni società umana (pg.89). I bisogni individuali sono quindi legati alla possibilità effettiva di ogni membro di partecipare con successo -tramite la predisposizione di una serie di elementi positivi- alla sua cultura di riferimento.

La liberazione umana e il diritto alla soddisfazione dei bisogni
Esiste un obbligo morale che impone di aiutare coloro i quali si trovino in situazione di serio bisogno? Esiste una responsabilità umana legata al riconoscimento dell'esistenza dei bisogni fondamentali? E se determinati obblighi esistono, sono relativi a livelli minimi o ottimi di soddisfazione dei bisogni? Il fatto che ogni essere umano abbia diritto a più del minimo richiede una teoria morale opposta all'individualismo o all'assistenzialismo legato al pensiero conservatore dominante.
L'individuo autonomo, la persona intesa in senso “umano”, è portatore di responsabilità (pg.92): tali responsabilità si sostanziano in doveri reciproci, i quali formano la base per l'esistenza della vita sociale. La sfera dei doveri, delle responsabilità verso gli altri, rappresenta d'altro canto il reciproco della sfera dei diritti. La reciprocità tra i due aspetti presuppone che all'aver diritto a fare o ad avere qualcosa corrisponda l'obbligo per qualcun altro a far sì che ciò avvenga. Ne consegue che la consapevolezza di avere dei diritti potenziali non è sufficiente: deve anche essere possibile poter esercitare effettivamente tali diritti. Per questo è necessario almeno un livello minimo di soddisfazione dei bisogni: chi ha dei doveri nei confronti di qualcun altro deve poter tener fede a tali doveri, e per farlo deve almeno avere livelli di autonomia e salute fisica minimi. Sia da un lato che dall'altro, la collettività non può venir meno alla responsabilità, diretta o indiretta, di provvedere che tali livelli minimi siano garantiti, a meno di veder crollare la reciprocità sulla quale si regge la vita sociale. Da qui prende forma il concetto di equità: “a eguali livelli di soddisfazione dei bisogni devono corrispondere eguali potenziali per accettare obblighi morali reciproci” (pg.95). L'esistenza di un obbligo morale di questo tipo non si ferma ai confini della nostra cultura: gli imperativi morali che ne derivano sono logicamente estesi a livello universale. Lo status categorico dei principi basati sui bisogni fondamentali prevede quindi, oltre alla condanna nel caso di violazione dei diritti, anche doveri legati alla loro tutela. Ritenere ingiusto che qualcuno possa morire di fame implica un obbligo morale per impedire -in qualche modo- che ciò avvenga in qualsiasi cultura (pg.97).
La vita sociale, con i suoi obblighi reciproci, presuppone però molto di più che la mera sopravvivenza: in una società gli individui hanno obiettivi -determinati culturalmente- che presuppongono la possibilità di utilizzare il massimo delle capacità per essere raggiunti. L'idea che sia accettabile un livello minore di un particolare bene a cui abbiamo diritto o che siamo obbligati a fornire, significa non ritenerlo davvero un “bene”. Se invece accettiamo la sua natura di bene vero e proprio segue che dobbiamo riconoscere il diritto di ciascuno a poter fare del suo meglio, e quindi ad avere riconosciuto un livello ottimale di soddisfazione dei bisogni. La cosa vale non solo per la nostra, ma anche per le altre culture. Pensare che tutti debbano poter fare del loro meglio significa credere che questi abbiano il diritto di poterlo fare, e che quindi esista un diritto universale alla soddisfazione ottimale dei bisogni (pg.103). Il problema conseguente, quello dei limiti della nostra responsabilità nei confronti degli stranieri, è parzialmente risolto grazie all'introduzione delle istituzioni: non sono infatti i singoli in quanto tali ad avere l'obbligo di andare incontro ai diritti altrui, ma le istituzioni preposte a tale scopo. L'obbligo morale è quindi potenzialmente adempiuto spostando su un piano sociale la questione (attraverso strumenti come la tassazione, la creazione di un welfare state, eccetera). Il risultato di questa consapevolezza sarebbe, per gli autori, la “liberazione dell'umanità tramite l'ottimizzazione delle scelte significative all'interno e tra le forme di vita culturali” (pg.111).

L'ottimizzazione della soddisfazione dei bisogni in teoria
Esistono tuttavia dei problemi pratici legati all'ottimizzazione della soddisfazione dei bisogni: quale uso fare della tecnologia, quali politiche favorire, come allocare le risorse in caso di scarsità, come risolvere i conflitti di interesse in seno alla società? Per trovare delle risposte sono richiesti due elementi: una comunicazione di qualità, ovvero un dibattito quanto più informato e razionale, e un sistema politico -una qualche forma di democrazia politica- che permetta ai singoli di partecipare al dibattito relativo alle precedenti domande. Riguardo al primo aspetto gli autori fanno uso della “situazione di discorso ideale” di Habermas (pg.120). Quello che si cerca di raffigurare è un modello ideale di dibattito democratico per la delibera circa l'ottimizzazione dei bisogni. Le condizioni da cui questo dibattito dovrebbe dipendere sono le seguenti: tutti i partecipanti dovrebbero avere accesso alle migliori conoscenze tecniche disponibili, dovrebbero possedere le specifiche capacità metodologiche e comunicazionali, e la comunicazione dovrebbe essere più democratica possibile (pg.123). Per quanto ideale, tale modello di dibattito rappresenta un obiettivo politico verso cui tendere: “perché l'ottimizzazione della soddisfazione dei bisogni fondamentali sia significativamente e democraticamente negoziata, gli individui devono avere il diritto, la salute, e l'autonomia sufficiente per lavorare insieme con lo scopo di raggiungere tale ottimizzazione” (pg.126).
Dal famoso “Una teoria della giustizia” di Rawls, Doyal e Gough invece traggono le loro considerazioni riguardo a quale forma di patto sociale possa essere adeguata per affrontare i problemi legati ai bisogni (pg.126). Si prenda l'esperimento teorico della “posizione originaria” e del “velo di ignoranza”. In tale situazione, come è noto, gli individui che volessero contrattare i principi di giustizia di una futura società, non sapendo quale ruolo andrebbero ad occupare in essa, sarebbero motivati, nel loro interesse personale, ad assicurarsi nel caso in cui si dovessero trovare tra le fasce svantaggiate: la posizione del “maximin”, secondo cui agli ultimi spetterebbe il “massimo del minimo”, sarebbe il risultato in grado di garantire a tutti una garanzia adeguata. Le disuguaglianze, nella concezione rawlsiana, sono tollerate solo nella misura in cui queste vadano a beneficio dei meno avvantaggiati (Rawls, 1971, pg.35). L'ampliamento della teoria di Rawls, invocata dagli autori, dovrebbe a questo punto tenere conto della teoria dei bisogni fondamentali per colmare le sue lacune (ad esempio quelle relative alla natura di tale beneficio). Dovrebbero essere infatti quei beni e servizi che conducono all'ottimizzazione della soddisfazione dei bisogni fondamentali le compensazioni che potrebber giustificare la disuguaglianza.
Infine, il fatto che tutti abbiano diritto all'ottimizzazione non può eludere il problema di una redistribuzione globale dei beni e dei servizi che sia anche ecologicamente sostenibile. Il dovere morale di garantire la soddisfazione ottimale dei bisogni fondamentali richiede quindi che i livelli di salute e autonomia raggiunti oggi non impediscano alle generazioni future di godere degli stessi livelli nel futuro (pg.146).

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