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Non mi puoi giudicare

Sospendere il giudizio per un po'. Una settimana, un giorno, qualche ora. Non sarà difficile, che ci vuole? Esco di casa, faccio le scale e sono fuori. L'aria è calda e le macchine scorrono veloci approfittando del semaforo verde. Una rallenta quando scatta il giallo, quelle dietro strombazzano rumorosamente. “Coglione, dovevi passare! È col rosso che si sta fermi, con il giallo acceleri e passi. P-a-s-s-a-r-e, capito?!” Scimmioni decerebrati, penso. Ma aspetta, no: nessun giudizio. Questo È, quello È, punto. Giudicare è come sputare nel piatto in cui mangi: lo avveleni e sei comunque costretto a mangiarlo. Quindi mangia e stai zitto. Cerco di convincermi che questo sarà l'atteggiamento giusto, cioè, quello che adotterò nel prossimo periodo indefinito. Fosse anche mezzora. Il mio terreno di prova ce l'ho proprio qui, appena scese le scale, fuori dal portone di casa. Così continuo lungo il marciapiede, pensando che in fondo è tutto così normale: la gente ha fretta, è ovvio che provi a superare il semaforo a tutta birra. Ed è altrettanto ovvio che chi attenta a questo proposito si becchi le clacsonate.
Intorno a me la gente fa le solite cose. Chi porta a spasso il cane, chi il passeggino, chi invece è solo e cammina a grandi falcate diretto al lavoro. Ci sono persone con lo sguardo spento, altre che sembrano portarsi appresso una personalità strabordante, altre ancora semplicemente stanche e indaffarate nelle noie quotidiane. C'è un tizio che chiede l'elemosina, sta inginocchiato con sguardo patetico tendendo la mano ai passanti, spargendo benedizioni in cattivo italiano ai pochi che si fermano per far tintinnare nella sua cesta le monete. Supero lo straccione e sento che la coppia che cammina davanti a me commenta con sufficienza: “questi guadagnano un sacco di soldi”. “Si -dice l'altro -che poi secondo me mica son davvero messi male. L'altro giorno lo zoppo davanti al supermercato l'ho beccato che camminava come niente fosse”. “Ma alla fine -aggiunge il primo- è questione di cultura. Loro sono abituati così. Solo a noi tocca lavorare, mentre questi fottono”. Io penso che la televisione ha fatto un sacco di danni, che cazzo, uno stillicidio di luoghi comuni proferiti da gente che magari non ha mai dovuto fare i conti con la disoccupazione e l'ansia di non averne abbastanza per le bollette o l'affitto. E poi che ne sanno loro di “cultura”? Scuoto la testa e li supero, proprio mentre mi accorgo di esserci ricaduto. Basta con i giudizi e i j'accuse! In fondo anche io, con tutto il mio sdegno, sono uno dei tanti personaggi che seguono un copione. Questi due si nutrono di idee preconfezionate per esorcizzare la minaccia del disagio sociale. E io faccio questa analisi perché sono più scolarizzato, perché ho ricevuto un'educazione diversa, o cose così. È tutto molto semplice. In realtà il gioco a cui stiamo tutti giocando è qualcosa di indipendente dal nostro consenso. Di questo voglio convincermi. Lo voglio fare per guardare le cose come se fossi un animale di un'altra specie, un osservatore davvero esterno. La società è come un formicaio, solo un po' più complessa, se ha senso ritenere un formicaio meno complesso di una via cittadina. Però facciamo di sì, semplifichiamo le cose. Cazzo me ne frega delle formiche. Se tu fai X io faccio Y, solo con tantissime combinazioni in più: ecco come funziona. Nessuno ha nulla di davvero “personale”. Opinioni, gusti, cultura: sono solo forme appiccicate addosso alla gente per far proseguire il meraviglioso gioco delle relazioni senza farci crepare dalla noia. Blablablabla: ridurrò tutto a questo. Fosse anche solo per un quarto d'ora.
Intanto cammino, e noto che ci sono tantissimi negozi di vestiti. C'è crisi ma aprono negozi di abbigliamento uno dopo l'altro. E la gente si ferma e guarda affascinata, pensando a se stessa con uno dei capi esposti in vetrina. “Come sarò figa con questo addosso”, pensa la tipa ferma a pochi centimetri dal vetro. “Come sarò intrigante e misterioso con questa camicia un po' trasandata che però costa un fottio” pensa un giovane che con la sua falsa noncuranza camuffa male le ore passate davanti allo specchio. Niente di cui stupirsi, è un bel giochino, è il carnevale quotidiano. E' sempre stato così e così sarà sempre. Pure io ho pensato a cosa mettermi prima di uscire di casa, come tutti gli altri.
La mia direzione ora sono i tavolini del mio solito bar, quel microcosmo rassicurante fatto di dialoghi funzionali. Lo raggiungo presto, dopo aver oltrepassato il pullulare della via piena di cose da comprare e di gente desiderosa di non far altro che spendere i propri soldi. Mi siedo nel déhor, in modo da osservare i passanti che animano le strade. In pochi minuti il cameriere prende la mia ordinazione -“un caffé, grazie”- e io ne approfitto per accendermi una sigaretta. Vicino a me c'è una coppia che discute, ma quello che mi attira è la canzone che sta passando alla radio. Un pezzo in italiano, dove il cantante sfoggia una voce cristallina e rassicurante. Cerco di soffermarmi sul testo. Si parla d'amore, lui è stato lasciato e senza di lei non ce la fa più. Più o meno il ritornello recita così: “Senza lei / sono vani i giorni miei / Senza lei / come è triste quando non ci sei / Se c'è il sole non lo vedo / Tiro dritto e me ne frego...”. Un capolavoro di sintassi, non c'è che dire. Ma quel che conta è la musicalità, la ripetizione, la linearità, l'assenza di bruschi cambi o concetti troppo impegnativi. Sospiro e bevo il caffè, quando senza volerlo mi arrivano frammenti di discorso della coppia al tavolino vicino. “Guarda che te lo assicuro, cioè lei proprio non conta più un cazzo”. “Non conta un cazzo? Ma se hai fatto l'arrapato per tutto il tempo. Abbracci e baci, ma che vuole quella?”. Lui riprende la sua difesa: “è che non ci si vedeva da tanto tempo... Ma poi lo sai che c'ero stato insieme. E comunque chi l'ha più vista? Volevo essere solo gentile. Giuro che era solo per essere gentile”. Sono giovani e lei assume un'espressione pateticamente corrucciata e offesa. Lui si mostra scocciato e si guarda attorno nervosamente. Perdo attenzione, la canzone è finita e adesso c'è un pezzo inglese, o americano. Le parole non le capisco, meglio così. La coppia si alza e va a pagare. Pagherà lui, ovviamente, perché il femminismo è finito e bisogna evitare lo sguardo scandalizzato del tipo alla cassa: “ma come, fai pagare a lei?”. Io sono al tavolino e la gente continua a scorrere. C'è un vecchio a qualche posto dal mio che sta spaparanzato sulla sedia con la sigaretta accesa, lo sguardo corrucciato, e ogni volta che passa una femmina, di qualsiasi età ed etnia, lui le segue il culo girando piano il collo. Un movimento ipnotico, concluso con lui che solleva appena le ciglia e dà una tirata alla sigaretta. Basta, questo bar mi sta stancando. Mi alzo e vado a pagare, per poi ributtarmi nelle strade affollate del centro.
Devo comprare da bere per la sera, qualche birra che non costi troppo per dormire tranquillo e felice. Il discount è poco lontano e mi farà sicuramente fare un bel tuffo nell'umanità intenta a fare la cosa più spontanea e neutrale: procacciarsi il cibo. Niente lance e frecce, ma un carrello e tanta attenzione al rapporto qualità-prezzo. Anche in un supermercato vige la legge della jungla. Il più forte mangia di più, accumula più grassi e riesce a contenere il deflusso di denaro. Così entro in questo regno di cibarie al fresco, scatolette a lunga conservazione e detersivi colorati. Mi dirigo al reparto alcolici e cerco la birra più conveniente. Un euro per una bottiglia mi pare un prezzo accettabile: ne prendo tre. Mi dirigo alle casse, c'è coda. Davanti a me una vecchietta con del cibo per gatti, una bottiglia di liquore e un ciuffo di insalata. “Che dieta strana, signora”, penso. C'è un attimo di confusione, perché la cassa accanto ha appena aperto. Durante lo spostamento insensato della maggior parte dei clienti -che ora si trova sempre in coda ma ad una nuova cassa- un tizio si è infilato davanti all'anziana signora. Si capisce subito che è straniero, parla con un suo coetaneo in una lingua slava, o qualcosa del genere. La vecchia invece di chiedere al signore di riavere il suo posto (per favore) strizza la faccia assumendo le sembianze di una prugna raggrinzita e dice quello che non avrei voluto sentire. “Questi dovrebbero tornare a casa loro. Son buoni solo a rubare, questi”. Subito uno dietro di me le dà corda annuendo vistosamente: “una volta li si prendeva a calci. Ora... che tempi, non si sta più mica tranquilli”. Lo slavo si è accorto di essere al centro della tempesta di pregiudizi etnici e comincia a guardare male la vecchia, il solidale e me. Io penso che tutto sommato ha fatto una cazzata, poteva rispettare la coda, manco avesse il pepe al culo (sta comprando delle pile stilo e del nastro adesivo). Però questo non giustifica il razzismo dei miei compagni consumatori. Anzi, sono indotto a pensare che in qualche modo lo slavo ha fatto bene. Non meritano nessun rispetto queste persone viziate che si aspettano che il mondo vada come vogliono loro senza fare alcuno sforzo. Ma aspetta: loro son vecchi, guardano i telegiornali allarmisti e si cagano sotto di fronte a presunte invasioni di orde barbariche assetate di sangue. In più han lavorato una vita per niente e giustamente li rode il culo. Si stava meglio quando si stava peggio eccetera eccetera. Questa la spiegazione. Certo però che è difficile trovare sempre una giustificazione a tutto. Sarebbe più facile, al limite, tacciare tutti di imbecillità. Ma non era questo quello che mi ero preposto. Nessun giudizio: Nessuno ha ragione, nessuno ha torto. Ognuno reagisce secondo la sua natura ai diversi impulsi. Bella merda.
Già, bella merda. In fondo chi l'ha detto che giudicare è sbagliato? Perché mi sono lanciato in questa impresa così stupida? Mi rendo conto d'un tratto che ho perso, ma sto meglio di prima. Tutto intorno a me inizia a prendere colore, nonostante i pessimi casi umani che mi sono capitati davanti. Decido che è ora di tornare a casa, però questa volta prenderò un bus. Una volta salito a bordo la scena che ho davanti è la solita: tutti i posti sono occupati, e diverse persone sono in piedi attaccate alle maniglie ciondolanti. Vicino a me c'è una vecchietta, davanti a lei, seduto, un giovanotto che mastica una gomma e se ne fotte ampiamente di tutto, tranne che della sua acconciatura da tamarro. Aspetto un po', magari se ne accorge e lascia il posto. Ma va', niente. La signora è visibilmente stanca e nessuno la fa sedere. A questo punto mi decido: “senti, riesci mica a lasciare il posto alla signora?”. Lui solleva lo sguardo, abbassa gli occhiali e mi fa “cazzo vuoi?”. Merda, non ero preparato a questo, sento la rabbia che sale, sarebbe da spaccargli la faccia così, su due piedi. Ma cerco di star calmo e rispondo: “voglio che tu, gentilmente, faccia sedere la signora che è stanca. Ci arrivi o no?”. L'ho detto con un po' troppa presunzione, motivato dagli sguardi incoraggianti dei presenti. “Com'è che mi hai parlato?” ripete questo, alzandosi. Approfittando della cosa invito la signora a sedersi, cercando di ignorare il tipo che si è fatto minaccioso. Sembra un po' su di giri, sarà sotto l'effetto di qualche sostanza, o un po' ubriaco. Con tutte le persone che ci sono dovevo attaccare briga con un palestrato fighetto strafatto, cristo. E' la mia fermata, scendo, lui mi segue. Butta male. Infatti mi ferma piazzandomi una mano sulla spalla. “Così fai il duro eh? Ci tieni tanto alle vecchiette?”. “Poteva essere tua nonna, amico. Ora finiscila però”. “Finiscila un cazzo, chi ti credi di essere? Ma lo sai che mo' ti spacco? Eh?”. Ok, sono spaventato, ma anche incazzato nero. Questo ha una faccia di merda che non finisce più, uno di quelli per cui varrebbe la pena tornare alle punizioni corporali. “Senti un po', se non ti hanno insegnato come cazzo funziona l'educazione non so cosa farci. Ora non rompere i coglioni.” - “Cazzo vuoi, giudichi? Che cazzo giudichi, tu non mi puoi giudicare!” Non mi puoi giudicare, l'ha detto davvero! Dovrei raccontargli tutte le vicissitudini e i giri di testa che mi sono fatto prima di aver a che fare con lui. Ma non credo sarebbe una buona idea... Sorrido sotto i baffi pensandoci. E ora la paura non c'è più. “Si che ti posso giudicare, stronzetto. Perché non sei altro che un coglione. Un COGLIONE, capito? Uno stronzetto viziato senza un briciolo di cervello. Vai a fanculo!”. Liberazione. Col cazzo che non giudico. C'è il male e il bene. C'è il giusto e lo sbagliato. Ci sono le persone ok e i pezzi di merda. E non c'è giustificazione che tenga.
Un quarto d'ora e sono a casa, raggiante. Tolgo le scarpe, mi sfilo la maglietta, faccio partire lo stereo e mi stendo sul divano. Con due birre, ancora belle fresche. Una la stappo. L'altra no, la appoggio piano sull'occhio dolorante, che domani sarà bello nero. Col cazzo che non ti posso giudicare, stronzetto, anche se a volte fa proprio male.

Matteo Castello
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