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Pedalare (terza parte)

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Riemergo dai pensieri e sono di nuovo sulla strada, la mia pedalata è sciolta, respiro regolarmente e anche se c'è il sole battente non sudo più di tanto. La velocità ritrovata in questo tratto di piano ha fatto ripartire la testa, lasciando i muscoli ad accompagnare accondiscendenti il moto dei pedali. Senza sforzo. Intorno a me c'è meno vegetazione, lo stacco della precedente salita deve essere stato bello forte, e ora sono attorniato da pochi alberi solitari e da pareti di roccia che salgono a monte e ruzzolano in giù a valle con il loro manto di terra ed erba secca. Lei però è sempre lì, è rimasta impigliata agli ultimi pensieri e non schioda. Vedo i suoi capelli scuri -scuoto la testa e pedalo più forte- la sua pelle liscia -cristo basta, pedala e basta- i suoi occhi e una frase “non dobbiamo vederci più”. “Basta!”, mi ripeto, e sbuffando faccio saltare per aria le goccioline di sudore accumulate intorno alle labbra. Devo pensare alla strada, se no finisce che mi schianto sulle rocce. E sarà tutta colpa sua. Per fortuna di fronte a me, a poche centinaia di metri, ricomincia la pendenza, inerpicandosi in alto e sparendo a destra dietro ad una curva. E' già da un paio d'ore che sono in sella e ne avrò almeno per altrettanto. La mia occasione per dimenticarmi di tutto, almeno per qualche minuto, è lì a portata di mano. Voglio arrivarci il prima possibile, così mi alzo sui pedali, scalo la marcia e inizio a pompare forte, lasciandomi scorrere accanto il paesaggio brullo di montagna. D'un tratto riecco la fatica: è iniziata la salita, mi siedo e cambio nuovamente rapporto. L'aria che fino a poco prima mi accarezzava il corpo scompare, rimane solo un caldo opprimente accompagnato dai pochi rumori del paesaggio. Qualche cinguettio, fruscii di lucertole e serpenti sui pendii e il ritmico cigolare della bicicletta. Dovevo oliare la catena, ecco. La temperatura corporea balza in alto e ricomincio a sudare e a sbuffare, la testa libera e i pensieri spazzati via. Davanti a me questa strada dissestata che sale e sale. 
Anche dopo la curva, che apre la vista ad un più ampio panorama, allargato sulla città che se ne sta assopita là sotto, coperta da una leggera coltre di smog accumulato dopo giorni di siccità e bonaccia. Ma ora devo guardare dritto davanti a me: la strada di montagna è una vena esposta che percorre il pendio fino a qualche apice sconosciuto, facendosi sempre più ripida. Sento il sudore bagnarmi le braccia, lucide al sole e contratte nel loro stringere il manubrio. Sento gonfiarsi i muscoli delle gambe. Cerco di mantenere un ritmo, non vado a più di dieci chilometri all'ora, sono stanco. Ma ecco che tutto il mio corpo è movimento e basta. Stringo i denti e seguo la linea immaginaria per terra, disegnata in mezzo alla carreggiata. All'orizzonte non ci sono macchine, sono in mezzo al nulla delle cinque di pomeriggio profumato di vegetazione secca. Le curve si diradano ed ora sento le tempie che pulsano. Prendo la borraccia, mi riempio la bocca di acqua tiepida, sciacquo e ne sputo un po', il resto la faccio scendere in gola. Un altro sorso veloce, poi mi bagno la testa. Tante gocce scrosciano dal casco e le sento scivolare giù per la schiena, lungo il viso, fino alle gambe in movimento. Sto meglio e mi concentro sul fiato spezzato. Faccio un respiro profondo e un soffio netto, un'altra inspirazione piena e ancora un'espirazione decisa. Accordo gambe e respiro e scalo la salita. Nel frattempo il cielo sta cambiando colore: si stanno accumulando nuvole all'orizzonte, la luce è più variegata, meno brillante ma ancora letale. Le montagne sono macchie imponenti di tonalità verdi scure e marroni, incastonate nello spazio in contorni violacei. Mi sento come l'unica presenza nel mondo, io che sono un corpo che suda e spinge, e spinge, e spinge. Una pedalata, un'altra, un'altra ancora. Conta solo l'aria che cerco affannosamente di catturare. Al diavolo il ritmo. Tutto questo mentre intorno a me sale un odore intenso che mischia asfalto e muschio, amalgamati in un'essenza dal carattere primordiale, eterno, puro. Fino a che mi scopro giunto in cima. La salita è finita, la pendice di roccia al mio lato è spaccata da un ruscello che porta con se un refrigerio che mi punge la pelle bagnata. C'è un breve tratto d'ombra nel quale mi immergo tentando di riprendere fiato e bere un po'. La testa vuota, senza pensieri. Inizia la discesa, di nuovo al sole. Non pedalo, mi lascio sospingere dall'accelerazione gravitazionale e mi guardo intorno. Ora la vegetazione è più ricca e i pendii più dolci, con la roccia nuda che si ritrae pian piano, come intimidita. Se prima volevo la fatica ora voglio la velocità, così metto la marcia più dura e comincio a spingere. Non pensavo di avere questa riserva di energia che ora si è liberata portandomi a raggiungere i quaranta, poi i cinquanta, poi i sessanta chilometri all'ora. Vorrei arrivare ai cento tanto è piena la sensazione di libertà che provo ora. Il mondo intorno scorre impetuoso, navigo in un'aria densa e profumata, sono al centro di ogni cosa. E poi vedo qualcosa in mezzo alla strada, sembra un ramo, un bastone. Si muove. Striscia lento. Cristo, un serpente! Io odio i serpenti e un brivido mi percorre la schiena. Non voglio pestarlo, non voglio passargli nemmeno accanto. Una frazione di secondo, inchiodo e sterzo. Ma la ghiaia è come sapone, scivolo e sono a terra in un tonfo secco. La mia unica preoccupazione, mentre la bici scivola stridendo da una parte e io mi maciullo ruzzolando dall'altra, è il serpente. Fine. Sono fermo, raggrumato sul ciglio erboso e pietroso della strada. Ancora qualche metro e sarei finito di sotto. Sono stordito ma l'adrenalina mi porta ad alzarmi di scatto: sento una fitta alla gamba e al braccio, ricado per terra. La verità è che non muovo la mano e il polso è gonfio. Sulle gambe è come se fossi finito su una grattuggia. La bici è dalla parte opposta, addossata sulla parete a monte. Del serpente nessuna traccia.

Dopo un altro tentativo di alzarmi ci rinuncio. Comincio a sentire davvero male alla gamba e al polso. Così mi trascino a stento verso un tronco per appoggiarmi con la schiena. Poggio il braccio inerte sulla coscia e inizio a provare paura. Non c'è un suono, se non quelli del bosco rado che ho intorno. E sono solo. Male, fa un male cane, pian piano scopro che ho più escoriazioni del previsto. Sento di non essere altro che dolore. Però c'è anche la testa. La testa che inizia a mulinare e vorticare, a cercare una soluzione, a pensare cosa è più giusto fare. Cercare l'equilibrio non esiste, sono il disordine disteso a lato della strada e appoggiato ad un albero. Passano pensieri veloci, fino che uno si fissa sulla sua presenza. Sono solo. “Non sei solo”, dice. “Hai pedalato bene, salivi che sembravi un campione”. La sua voce fresca. I suoi occhi. I capelli scuri. “Ma sono caduto, sono solo, non so che fare”. “Ci sono io con te, stai tranquillo”. “Ora rilassati e prima o poi arriverà qualcuno”. “E poi sarà solo una slogatura”. “Ma fa male...Rimani con me...”. “Shhh, forza, va tutto bene. Quando sarai a posto ce ne andremo nella casetta in montagna...”. “E mangeremo le fragoline di bosco?”. “Si, e ascolteremo i nostri dischi e tu berrai vino rosso e io...”, “..e tu vino bianco”.

Matteo Castello

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