Shirley si guarda le mani. Sono mani giovani e belle, educate al contatto gentile con le corde, abituate ad accompagnare, con i volteggi leggeri delle dita, i ghirigori ariosi della sua voce. Quella voce che ora non c’è più. Shirley apre i palmi fino a sentir tirare la pelle. Lentamente, senza sapere il perché, porta le mani alla gola, ancora spalancate. Solo a quel punto comincia a serrare le dita attorno al collo. Se non può uscire nessun suono da quell’inutile bocca allora nemmeno un filo d’aria deve più penetrare nei polmoni, nemmeno un fiotto di sangue deve irrorare il cervello.
Stringe forte, fino a sentire pulsare le vene sotto i polpastrelli. Invano. Non è possibile farla finita così. La volontà sfugge, la forza viene meno. Le mani non sono progettate per ucciderci, almeno non direttamente. Eppure questa voce maledetta non esce! Shirley contrae i muscoli del collo, sente i tendini tirare e la laringe serrarsi. Ne esce un fioco sbuffo rauco. Troppo poco per un essere umano, figurarsi per una cantante.
Come è stato possibile farsi così male? La verità la sa: la verità è che l’amore è un nodo stretto stretto attorno all’anima. Le sue canzoni ne sono piene, d’amore che fa male. “I loved him so well, so very, very well, That I built him a bower on my breast”, diceva una di queste. Shirley aveva fatto lo stesso, facendo del suo corpo un riparo esclusivamente per lui. Quando però tutto è crollato, spazzato via dal presagio di quei versi, qualche detrito si deve essere incastrato tra il cuore e la gola. Dev’essere per questo che non esce più alcun suono. Tutti continuano a dire che il suo è un rifiuto inconscio. Le basterebbe una vacanza e tutto tornerebbe come prima. Dovrebbe tornare a voler parlare, tutto qui. Shirley rinuncerebbe a un braccio per ricominciare a cantare. Vorrebbe gridare, gridare, gridare fino a lacerarsi le corde vocali. Le piacerebbe essere come la protagonista di quel brano che lega un giunco di salice verde attorno al cappello in attesa che il suo amante torni: in questo modo si tratterebbe solo di un voto, e la pena avrebbe un termine. Invece la sua pena si è tramutata in una condanna inflessibile, severa, beffarda nel suo manifestarsi così duramente nelle sembianze impalpabili di un’assenza.
Ogni tanto, anche se con sempre meno frequenza, Shirley fa un tentativo. Si sforza di dimenticare tutto, chiude gli occhi e svuota la mente. Poi, inscenando un risveglio improvviso, sputa di fretta una parola, come se prendendo alla sprovvista le corde vocali potesse eludere la loro sorveglianza. Anche quella sera Shirley ha in mente di darsi una chance. Si stiracchia allungando le braccia verso il cielo, dietro la nuca. Si guarda attorno e accenna qualche passo verso il tinello. All’improvviso però si butta sul divano gonfio di cuscini. Solo allora, girando di scatto la testa e facendo schioccare la lingua, mette in atto il suo stratagemma. Strabuzza gli occhi e in un attimo la delusione per non essere riuscita ad emettere alcun suono viene sostituita da un sincero stupore. Di fronte a lei, ad una spanna dal naso, levita un opalescente anello di vapore.
Si stropiccia gli occhi ma lui è ancora lì, sebbene più fioco. Gira lentamente attorno al proprio asse mentre i suoi confini si fanno via via indistinguibili, finché non rimane altro che un inconsistente luccichio, e in un attimo quello strano grumo di fiato scompare nell’atmosfera immobile della stanza. Shirley è attonita. Possibile che si sia sognata tutto? Prova a far uscire il fiato come prima, a tossicchiare, a sputare aria, ricercando quello che potrebbe essere stato… l’effetto di… condensazione! Sì, l’effetto di condensazione dovuto a... dovuto ad un’espansione adiabatica dell’anidride carbonica contenuta nell’aria che esce dai polmoni! Non accade nulla. Lo sberluccichio di un timido sole che buca le nuvole grasse e piovose filtra dalle tende orlate e inonda la stanza di una patina cremisi, che ben si accorda con il momento, facendo come da cornice a quell’attimo di incredulità.
Nei giorni successivi Shirley quasi dimentica il suo dolore, o meglio il suo dolore è come sigillato in un involucro: presente – sempre - ma contenuto. Il suo appartamento è diventato parte di quel morbido e rassicurante sigillo che tiene avviluppato lo scorrere del tempo, come in un sotto-vuoto incerto, non del tutto sterile, perché c’è pur sempre il pulviscolo che vortica lento alla luce del primo mattino e si posa sugli strumenti musicali e le mensole, gli odori gonfi del cibo che ribolle e soffrigge, le evacuazioni quotidiane, la noia e le lacrime. Tutto però è come attutito, soppesato e controbilanciato da una forza opposta che sembra voler tirare giù quel demone che invece vorrebbe librarsi in un volo tremendo e divorare ogni spazio, come un bombardiere nazista, o un rapace affamato. La sensazione è quella di un intorpidimento dei sensi, come se la mente fosse rimasta schiacciata sotto il cuscino e al mattino, al risveglio, sentisse le formichine pizzicare dappertutto, lasciando la coscienza offuscata e pigra.
Col passare del tempo, però, ciò che era stato ricacciato in basso trova modo di infiltrarsi oltre la cortina di insensibilità vigile di quelle settimane. E il dolore torna. Si ripresenta bussando forte, come un esattore spazientito tenuto troppo a lungo fuori dalla porta. Ci si dimentica troppo in fretta del male, quando questo passa. Il corpo è formidabile nel depurare in un attimo ciò che per mesi, anni, si è accumulato scavando solchi profondi. E così Shirley ha già fatto in tempo ad illudersi che quello spiraglio di pace non si sarebbe più chiuso. Ripiombare nella disperazione e non poterla esprimere a parole, che tortura! Più Shirley si strugge, però, più l’esigenza di recuperare il perduto stato di quiete si fa pressante, essenziale. Nelle pause concesse dalle crisi di pianto e dai silenzi catatonici (ironia della sorte, si può stare in silenzio anche da muti), prova a rievocare il suo grumo di fiato, affinché avviluppi ogni cosa nei suoi contorni magici. Niente di più difficile: quando si conosce il rimedio ecco che questo si fa inaccessibile, restio a concedersi con tanta facilità. A volte sapere le cose rende tutto più difficile. È proprio quando Shirley sta per abbandonare ogni speranza, però, che il miracolo si ripete. Dopo un pomeriggio inerte frastagliato da singhiozzi di sonno scuro, Shirley sente l’impulso di sputare una parola a caso. Magari un nome. Magari quel nome che la fa tanto soffrire e che le è andato di traverso. Senza pensarci un secondo il meccanismo inceppato della sua vocalità innesca quella strana reazione, e l’anello luminescente è di nuovo lì, a un palmo di naso da una Shirley che ora piange di gioia, ben sapendo che quello è il sigillo di una nuova tregua. Una vacanza.
E questa volta la tregua è più profonda e meno ottundente. Il cervello lavora, elabora piano, macina ricordi e tesse trame. Il tempo passa incredibilmente lento, ma dolce e paziente come l’effetto di erosione sulle montagne. Shirley sa di non poter evitare le ricadute della sua malattia dell’anima, ma sa anche che con un po' di dedizione le sarà possibile esorcizzare il patimento grazie alla sua nuova abilità. Le parole depositate nel fondo del cuore formano una condensa ad alta concentrazione, e quando questa entra a contatto con l’atmosfera vi si scioglie, formando una barriera protettiva, un balsamo di corpuscoli invisibili ma invincibili nel trattenere i demoni dispettosi.
La vita andrà avanti a cicli, e ogni cerchio allargherà il suo diametro, tratteggiando una circonferenza più ampia. Entro quei cerchi in espansione Shirley coltiverà la sua pace, forse, e il ricorso all’espediente dei suoi sbuffi muti si farà sempre più controllato. E sempre più rado. Incredibile pensarci, si dirà Shirley durante uno dei suoi ultimi tentativi: questa volta mi è sembrato che assieme al grumo di fiato sia uscito un suono. Flebile, ma era un suono. E aveva tutta la consistenza ineffabile di una melodia.
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