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Contemplazione

Per un tratto di strada mi sentii straordinariamente in sintonia con il paesaggio circostante, una piacevole armonia di concrezioni urbanistiche composta da cornicioni spioventi e dai loro ritagli obliqui di cielo, oltre che da facciate intonacate a tinte tenui che parevano l’ovvia propaggine dei lastroni di pietra scura stesa sul marciapiede. Tutto quell’ordine di inclinazioni variabili sembrava essere stato sistemato solo e soltanto per accordarsi alla pigra andatura di quel momento, per accompagnare la fuga in avanti della mia prospettiva in progressione. 

Non era un angolo di città su cui ero solito soffermarmi, forse perché troppo di passaggio, al contrario dei più adeguati spazi destinati all’attesa – di qualcuno, di un mezzo – che di tanto in tanto scandagliavo con l’attenzione di un esperto di architetture urbane. Allora notavo lo stile vagamente art nouveau dell’inferriata di un balcone, l’accenno brutalista di una facciata, gli stucchi tardo-barocchi dei palazzi istituzionali o le bizzarre contorsioni di una grondaia di rame scintillante al sole. Quella volta però, passeggiando per la via che dalla piazza centrale porta a sud in un infittirsi di rimandi al tempo in cui quel pezzo di centro era ancora periferia agreste, poco prima del momento in cui avrei svoltato per lo slargo che apre la veduta, slanciandola oltre le casette basse e in fila, proprio allora fui travolto da quella consonanza che a volte capita di percepire quando tutto sembra svolgersi secondo i nostri sviluppi intimi, interni. 

Cosa mi affascinava dello spazio che si organizzava come a volermi abbracciare? Mi venne in mente la concezione di città-museo narrata da Kogonada, dove la città e l’uomo sono entrambi concepiti per essere in costante interazione, come se il rapporto di contemplazione fosse reciproco, e le storie della vita non possano che svolgersi all’interno di scenari adeguatamente rappresentativi, rigorosamente estetizzati. 

Provai l’irresistibile tentazione – forse per quell’esigenza estetica di situarmi nel paesaggio come fosse un palcoscenico - di fermarmi con la scusa di bere del caffè, così mi sedetti ad uno dei tavolini attigui alla facciata intonacata a grana grossa, di colore grigio scuro, adiacente alla vetrinetta di un ferramenta. Fermo nello spazio, nell’attesa che un cameriere arrivasse per prendere la mia ordinazione, rivalutai la mia rinnovata posizione. Da quel punto d’osservazione potevo vedere scorrere i passanti, mentre gli edifici – prima in evoluzione, in movimento – erano fermi. Di fronte a me un caseggiato austero, la cui facciata di pietra locale e calce era appena scalfita dagli angusti solchi delle finestre, alcune delle quali sormontate da architravi in mattone intonacato che rimandavano ai timpani dei templi romani. Qualche fiore ai davanzali e poi, sotto il tetto, un cornicione in legno che poteva avere anche mille anni. Mentre l’edificio stava immobile la gente passava, e da quel flusso si staccò una ragazza che si sistemò pochi tavolini più in là del mio, sedendosi in modo che potessi guardarla di profilo senza essere notato. 

I capelli raccolti da un elastico colorato lasciavano scoperto un collo sottile ed elegante che si congiungeva con grazia alla schiena abbronzata, tagliata in due dal segno recente del costume. Mi soffermai sul punto in cui i capelli si arruffavano in riccioli delicati sulla nuca e improvvisamente mi prese la voglia di accarezzare lo spazio teso dietro l’orecchio. Desiderare una sconosciuta mi riempii di malinconia. Distolsi lo sguardo e notai un paio di piccioni sotto i tavolini del locale dirimpetto. Si inseguivano frollando le ali e tubando nervosamente. Compivano piccoli cerchi, poi avanzavano, e di nuovo si giravano fronteggiandosi per pochi istanti, il collo turgido e gonfio. Poi con uno scatto un piccione afferrò con il becco l’ala dell’altro, trascinandoselo appresso per un tratto, finché quello, con uno strattone, riuscii a divincolarsi e volare via. Andò a posarsi proprio nel sottotetto dell’edificio di fronte a me. L’altro si librò in aria vittorioso, descrivendo un paio di circonferenze ascendenti che lo portarono sul davanzale di una casa poco distante, ma opposta al riparo dell’avversario. Per cosa lottavano? Non vedevo femmine nei dintorni, e le mie conoscenze rudimentali sul tema mi suggerivano che, avendo entrambi gli esemplari mostrato il collo gonfio ed avendo esibito una certa aggressività, fossero da considerare maschi. 

Tornai a considerare la ragazza che ora, intenta nella lettura di un libricino, mostrava il suo profilo curvo, piegato come uno stelo. Una ciocca di capelli sfuggita dalla stretta dell’elastico formava una linea obliqua sul volto, e il braccio che reggeva il libro premeva delicatamente sul seno, che così compresso si rivelava d’una materia soffice e conturbante, facendomi quasi sussultare. Cercai di riportare i pensieri alle sensazioni che poco prima mi infondeva l’ambiente intorno. Eppure qualcosa si era incrinato. Mi tornò alla mente quanto avevo letto sui piccioni. I maschi non lasciano che nessuno si posi accanto alla propria compagna, a meno che il volatile non sia a sua volta accoppiato. In questo caso i maschi fanno attenzione ad appollaiarsi l’uno accanto all’altro tenendo le rispettive femmine all’esterno, il più lontano possibile da ogni tentazione di infedeltà. Se però sopraggiunge una terza coppia questa strategia non è più possibile: non esiste una combinazione soddisfacente. E allora succede che i due maschi ammettono il terzo tra loro, ma quest’ultimo scaccia la femmina, costringendola a rannicchiarsi lontana dal gruppo. A causa della sua insicurezza sessuale il maschio è disposto ad esporre la femmina alle intemperie, alla scomodità, alla lontananza. 

Quando tornai a volgere lo sguardo al tavolino dove era seduta la ragazza la sedia era ormai vuota, e lei stava raccogliendo le sue cose. Mise il libricino nella borsa, si rassettò i capelli riordinando il ciuffo ribelle e finalmente si diresse verso la via, piegando la vita elastica nella gincana di tavolini. Questo la portò verso di me, del tutto ammaliato dai suoi movimenti. La ragazza incrociò il mio sguardo, si fermò e mi sorrise. Si piegò leggermente come a volersi fare sentire meglio. 
“Bisogna trasfigurare la realtà, non limitarsi a rappresentarla” disse, per poi allontanarsi sciogliendosi tra i passanti, inglobata dai palazzi. 

Dopo poco mi alzai anche io. Lasciai qualche moneta accanto alla tazzina del caffè. Notai subito come lo spazio che poco prima mi aveva integrato ora non combaciava più, non stava dentro i margini. C’era qualcosa - in me o nella città, non saprei dirlo - in eccesso. La materia traboccava, o forse ero io che la sovrastavo, trovandola così angusta e inadatta a rappresentare qualcosa che non fosse un rimando infinito a sé stessa. Chissà cosa rimarrà di tutto questo, mi chiesi. E così, frastornato, come scontornato dal quadro generale, decisi di liberarmi dal centro cittadino come di un cappotto logoro fuori stagione. Mi avviai verso casa.
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