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Gérard

  
racconto castello indipendenza aosta
Il segretario Gérard Blanquin non era un uomo soddisfatto di sé. Avrebbe sempre desiderato varcare le imponenti porte scorrevoli che introducevano all’atrio del Palazzo della Regione in veste di consigliere, o addirittura di assessore. Perché no? Se lo meritava. A testa alta avrebbe oltrepassato il desk dotato del suo pass personale, tradendo un’espressione lievemente annoiata, noncurante, ricevendo i saluti deferenti e cordiali di qualche usciere che si sarebbe poi vantato con gli amici del bar di conoscere personalmente le più alte cariche politiche e di bere tutti i giorni il caffè addirittura in compagnia del Presidente. Avere voce in capitolo sulle questioni importanti, essere ricordato: questo sì sarebbe stato il degno epilogo per uno come lui che da sempre si occupava della cosa pubblica, sebbene in privato. 

    Niente nella sua vita era però mai andato nel verso giusto. Sentiva dentro di sé un’energia che il suo corpo spigoloso pareva prosciugare ad ogni mossa, che la sua voce monocorde, per quanto le parole pronunciate potessero essere dure e sferzanti, sviliva in una favella retorica, da professorino. Non era mai riuscito a levarsela di dosso quell’aria bolsa e avvilente da bibliotecario, nonostante l’esercizio da camminatore esperto (e però aveva sempre l’andazzo del cercatore di funghi o dell’ornitologo, non dell’alpinista), nonostante i tentativi giovanili di darsi un tono con vestiti alla moda (che su di lui risultavano inadeguati e posticci), nonostante la maturata esperienza retorica che lo portava ad affrontare con agevolezza i dibattiti più accesi. 
    Coltivare il proprio lato intellettuale era stato dunque un ripiego forzato: l’uso del cervello gli veniva naturale e, come per tutte le cose in cui si primeggia senza sforzo, anche quella gli era sempre sembrata una condanna, una scomoda conferma della propria incapacità a costruirsi come davvero voleva. Avrebbe dato ogni cosa pur di avere un briciolo di fascino virile in più, avrebbe preferito sbagliare le coniugazioni verbali francesi e non saper distinguere tra le varianti francoprovenzale e occitana. A riprova di quanto fosse svalutata quella sua dote attitudinale, lo studio e la scrittura non gli erano mai valsi il riconoscimento di intellettuale, o di ideologo, quanto piuttosto l’etichetta del secchione, del professorone, del topo da biblioteca. Quando andava bene gli si dava dello storico, che altro non era che il titolo ottenuto decenni prima all’università con il massimo dei voti. 

    E ora, dopo decenni di politica fatta dietro le quinte, frequentando gli infruttuosi palcoscenici offerti a chiunque osasse alzare la manina nell’arena politica locale, si era convinto che quello fosse il momento di tentare la sorte e imporre uno strappo alla sua scialba esistenza. Per una volta proviamo a seguire gli eventi, si disse, a farci trascinare dall’entusiasmo. Dopo attenta riflessione Gérard Blanquin si era riscoperto radicale, aveva respirato a grandi boccate l’adrenalina di un irredentismo passionale, di un separatismo che recuperava l’ardore viscerale delle esperienze basche e irlandesi. La lotta per l’autodeterminazione aveva smesso di solleticare solo le sue sinapsi, diventando aspirazione fisica alla lotta, una lotta che assumeva i tratti estetizzanti di una rivalsa personale, di un disperato tentativo di affermare il proprio misconosciuto valore. 

    Quel maledetto Claudio Giacchin era proprio riuscito a fargli perdere la testa. “Maledetto Giacchin!” si ripeteva tra sé e sé Blanquin mentre vedeva oltrepassare le porte scorrevoli del Palazzo della Regione dal suo manipolo di sgangherati rivoltosi, con le armi nascoste in zainetti o sotto le giacche gonfie. “Buongiorno dottor Blanquin”, lo aveva salutato poco prima l’usciere, restando poi sorpreso dall’assembramento improvviso radunatosi attorno all’uomo, ma del tutto fiducioso della natura pacifica di quella presenza innocua che da sempre frequentava – sebbene non da protagonista – le sedi istituzionali. “Ha un appuntamento? Vi attende qualcuno?”. Il tempo per decidere il da farsi sembrò a Blanquin un’eternità. Era davvero pronto a impugnare la pistola, estraendola da dietro i pantaloni ed esclamare a tutta voce “nessuno si muova, questo Palazzo ora è nostro!”?. 

    Tempo prima Giacchin era stato netto. “Vestiti bene questa sera, Blanquin, andiamo in un posto di un certo livello”. I due si erano così dilungati di fronte a liquori dai nomi stravaganti e dai sapori ottundenti messi a disposizione dal locale svizzero dove era maturato l’accordo per la grande svolta del movimento indipendentista. Blanquin sapeva che Giacchin era un tipo di cui non fidarsi, ma si sentiva onorato dalla considerazione che questo gli rivolgeva. Claudio era il classico spaccone che ai tempi del liceo si sarebbe preso gioco di quel secchione petulante e moscio. Ora invece, finalmente, le parti sembravano, se non proprio invertite, almeno equiparate. 
    Claudio Giacchin si rivolgeva al suo compare di bevuta come ad un vecchio amico, tra pacche sulle spalle e complicità alcolica. Chiedeva pareri, annuiva interessato di fronte alle spiegazioni che il professore snocciolava, prendeva sul serio i dubbi avanzati e si mostrava partecipe dell’entusiasmo con cui Gerard difendeva le proprie ragioni, sottolineate con sempre più enfasi grazie al vino versato nei calici da camerieri accondiscendenti e le strette di mano con distinti sconosciuti che passavano a salutare Claudio e si complimentavano del perfetto francese del commensale. Quando poi un paio di donnine spuntate da chissà dove iniziarono a fare le gatte morte al loro tavolo, Blanquin non seppe più trattenersi. Fu una serata stupenda, di quelle capaci di rovinare una carriera politica, una famiglia, una reputazione consolidata, ma anche di rinvigorire lo spirito più fiacco. 
    Durante quella serata si definì il sodalizio che ora, varcate le porte del Palazzo della Regione, manifestava tutta la propria follia. “Chi me l’ha fatto fare?”, si ripeteva Blanquin mentre gli ostaggi lo guardavano intimoriti e increduli. Claudio Giacchin aveva saputo essere convincente. Avrebbe portato soldi al movimento, avrebbe costruito una nuova immagine grazie alla sua consolidata capacità organizzativa. Avrebbe aperto la strada alla realizzazione di un’aspirazione secolare. Il fatto che l’operazione non fosse del tutto pulita rappresentò, nelle motivazioni addotte dall’uomo, una postilla a margine, un dettaglio da poco. E comunque un qualcosa di cui Gerard e il suo movimento non dovevano preoccuparsi. 
    
    La responsabilità, da questo punto di vista, è tutta mia”, aveva assicurato Claudio. Blanquin, dal canto suo, aveva deciso che quella volta avrebbe abbandonato la sua prudenza da invertebrato. Ancora stordito dalle attenzioni di una rossa profumata e intraprendente, decise che il vecchio Gerard si sarebbe astenuto dalla sua pavida attitudine al lassismo. “Al diavolo, facciamo qualcosa di grande, osiamo!”. 
    Le armi dovevano essere solo una garanzia, un deterrente. “E di questi tempi bisogna essere pronti a tutto, vero Gérard?”, diceva Giacchin. “Noi siamo abbastanza preparati da anticipare i tempi, da saperne cogliere lo spirito e le opportunità prima degli altri. Si mette male, Gérard. La gente è stanca, i moderati non hanno più il sostegno di nessuno. Il popolo è pronto. Bisogna consolidare la nostra forza, anche dal punto di vista militare. È un affare sicuro, me ne assumo la responsabilità, passo dalla vostra parte proprio per questo, per mettere la mia firma, dare la mia garanzia”. Unione Italiana avrebbe portato come dote ai separatisti un bel gruppetto di nuovi iscritti e la promessa di mettere in atto una strategia coordinata finalizzata alla presa del potere. “Le armi sono proprio necessarie?”, aveva avuto il coraggio di chiedere Blanquin, sentendosi rispondere con convinzione che sì, erano fondamentali, rappresentavano un salto di qualità necessario. Non ci si poteva tirare indietro. 

    Il piano insurrezionale era stato quindi definito con dovizia di particolari. Logorata la maggioranza attraverso un’operazione di palazzo volta a frammentare i partiti di governo, Unione Italiana e il Partito per l’Indipendenza avrebbero stretto alleanza e preso il potere. Il percorso per la svolta indipendentista, una volta assicuratasi la maggioranza, sarebbe stato accelerato con l’istituzione di una milizia armata. “Che qualcuno provi a fermarci, noi qui si fa sul serio! Altrimenti a cosa servono tutte le conoscenze accumulate, tutte le parole spese in questi anni? A cosa è servita la tua dedizione? Dimmi, Gérard, la tua vita che senso ha se non cogli l’occasione ora?”. 
   
    Le armi in realtà dovevano solo trovare un acquirente insospettabile e “raffreddarsi” per un po’ di tempo, poi sarebbero state rivendute. Questo però il povero Blanquin non poteva immaginarlo, pieno com’era di quella volontà di eroismo tanto simile a una crisi di mezza età. E mentre il ragazzo che Giacchin gli aveva presentato pochi mesi prima come affidabilissimo faceva partire una raffica micidiale terrorizzando i poveri uscieri e facendo scattare l’allarme antincendio, capì che si era giocato tutto come un cretino. Non ne sarebbe uscito pulito, avrebbe passato decenni in carcere. Sarebbe invecchiato dentro a una cella in compagnia di albanesi e marocchini. “Maledetto Giacchin, doveva proprio farsi arrestare?”. 
    Fu proprio in quel momento, una volta assorbito il sussulto causato dall’esplodere dei proiettili sul soffitto, che si convinse davvero di ciò che andava preparando da mesi. D’un tratto realizzò che, non avendo altra scelta se non quella di coprirsi di ridicolo e scappare a gambe levate, tanto valeva prendere il comando. Una volta sola nella vita. “Finiscila di sparare, conserviamo i colpi per quando ne avremo bisogno!”, proruppe con una vocina nervosa e piccata. “Forza voi, se fate i bravi non vi succederà niente. Siamo qui per la liberazione, non per farvi del male. Intercettate la gente che scende dalle scale e radunate tutti i presenti qui nell’atrio. Voi, sbarrate le porte!”. Il manipolo non aspettava altro che essere guidato da qualcuno, non avendo bene idea di come muoversi in quella situazione surreale. 
    Nuori affiancò Blanquin nelle operazioni, e cominciò a distribuire compiti al gruppo armato, prefigurando un piano che apparve subito colmo di pecche. “Ci sono quattro piani e un sacco di uscite di sicurezza. Come facciamo a controllarle tutte e badare anche agli ostaggi?”, sussurrò uno, diffondendo un’incertezza strisciante che finì col minare l’entusiasmo iniziale. Così fu presa la decisione insindacabile di liberare gran parte degli ostaggi riversatosi increduli nell’atrio pensando a un’esercitazione antincendio. “Blanquin ma che stai facendo? Sei impazzito? Non fare sciocchezze!” , l’apostrofò sinceramente meravigliato l’assessore alle attività culturali sbucando dalla calca, il quale per colpa di quel suo ardire fu trattenuto insieme ai dieci ostaggi scelti – quelli sì - a casaccio. Gli altri furono cacciati fuori con disprezzo e quasi ci rimasero male. 
    
    Nel frattempo fuori dal Palazzo si accumulavano camionette e agenti con le armi spianate, compatti, mentre i rivoltosi erano stati divisi in coppie ed erano del tutto allo sbando, privi di una qualsiasi prospettiva. “Che facciamo adesso, qual è il nostro obiettivo?”, domandò una militante al segretario, visibilmente spiazzato da una considerazione disarmante: l’obiettivo era già stato raggiunto. Nelle sue fantasie il semplice compiersi di quel gesto estremo bastava ad occupare ogni proiezione. Ora però i suoi uomini vacillavano, doveva dar loro una qualche certezza. O almeno una scadenza intermedia per tenerli buoni. “Se entro questa sera alle… 20.30 non accettano le nostre richieste…”, aveva iniziato Gerard cercando complicità nello sguardo interrogativo di Nuori, “… be’, se entro quell’ora fanno orecchie da mercante, noi facciamo finta di ammazzare un ostaggio!”. Rimasero tutti increduli. 
    Come sarebbe a dire facciamo finta? Ma è una cazzata!”, esclamò Nuori spazientito dal ridicolo atteggiamento da comandante in capo del segretario. “Come ti permetti!”, sibilò questo avvicinandosi minacciosamente al compare, come invaso da una smania di potere e furioso di fronte a quella mancanza di rispetto. In tutta risposta David Nuori sferrò un ceffone all’ometto che gli soffiava contro i suoi vani richiami all’ordine, riducendolo in un istante al pavido e timoroso vigliacco che era sempre stato. Tremante, umiliato, Gerard si mise seduto contro un pilastro, abbracciando il fucile che stringeva tra le mani sudate, e lasciò che le cose facessero il loro corso. 

    Non ne voglio sapere più nulla”, pensò, sperando intimamente che quel semplice dissociarsi l’avrebbe dispensato dalle proprie responsabilità. Nuori radunò quindi gli uomini per un briefing. Bisognava contrattare la resa e uscirne il più garantiti possibile. Occorreva resistere ancora un po’, mostrare i muscoli senza rendere evidente la propria debolezza, prendere tempo. “Facciamo un discorso, iniziamo ad avanzare delle richieste di massima. Questo è un atto politico, facciamo sentire le nostre rivendicazioni!”. Blanquin ascoltava raggomitolato per terra e non gli sembrava che il suo piano fosse poi tanto peggiore. Tra deliranti fantasticherie di fuga immaginava di ricominciare tutto da capo, di non accettare il lusinghiero invito a dirigere il movimento, di sbattere il telefono in faccia a quel ruffiano di Giacchin, di rintanarsi nella sua biblioteca a leggere, leggere, leggere. In pace. Eppure c’erano dieci ostaggi chiusi dentro la sala stampa al primo piano, e gli uomini del commando parevano nervosi e incattiviti. 
    Come se non bastasse Nuori era deciso a far durare ancora quella pazzia nella speranza che, nell’attesa, gli sarebbe balenata in testa un’idea per venirne fuori. Quando iniziarono ad arrivare le prima notizie dalle redazioni occupate l’atmosfera tornò a riscaldarsi. Uno dei più entusiasti del gruppo si offrì come volontario per leggere il discorso preparato nel frattempo (“io l’avrei scritto meglio”, pensava Blanquin), portandosi appresso un ostaggio per evitare di finire impallinato da qualche cecchino immaginario. Nessuno, da dentro, riuscì ad ascoltare una sola parola urlata a gran voce dal balcone dell’ufficio di presidenza che dava proprio sulla piazza. Poi la raffica di mitra raggelò il commando. “Mio Dio, l’hanno ammazzato!”. 

    Blanquin si nascose la testa tra le mani. Quando però videro sbucare il pistolero con un sorriso beffardo e l’ostaggio bianco come un cero, un diffuso senso del ridicolo si impadronì degli animi. “Ma perché cazzo hai sparato?”, chiese minaccioso Nuori. “Non so, ho pensato che fosse una buona conclusione per il discorso. Poi hai detto tu che dobbiamo mostrarci forti, no? Sembravano spaventati, la gente scappava!”. Si levò un mormorio confuso. “Abbiamo i fucili e ogni volta che li usiamo ci dite di non farlo, ma che senso ha?”, postillò uno dei militanti. 
    
    Gerard Blanquin si mise a ridacchiare nervosamente. Nuori invece si rifugiò in un silenzio livido. Ognuno, a partire da allora, cominciò a pensare solo a sé, a come scappare, magari sgattaiolando via da una porta sul retro, perché no? La notizia dell’arresto del commando de La Voce fu la definitiva doccia gelata. “Siamo fottuti”, disse una donna cominciando a singhiozzare senza trovare alcun conforto nei visi pallidi e tesi degli altri. “Siamo fottuti”, echeggiò Blanquin ridendo come un pazzo. “Siamo fottuti, nous sommes foutus!”, continuò a ripetere delirante tra gli sguardi attoniti del gruppo. 
    Fatelo calmare, perdio”, sibilò tra i denti Nuori, richiamando poi bruscamente all’ordine tre uomini armati che avevano abbandonato le loro postazioni di guardia e fumavano seduti sui gradini come scolari in gita, i quali bofonchiando parole stizzite tornarono a presidiare scocciati le entrate da cui non sembrava voler fare irruzione nessuno. 

    La notte passò come un lungo Medioevo, oscura e malsana. I volti erano maschere che nascondevano domande vorticose, che si irrigidivano di paura ricacciata giù per la gola secca deglutendo vistosamente. Chi poteva dormire, approfittando dei turni organizzati per garantire la guardia almeno degli accessi principali (gli altri, secondari, erano stati sbarrati con tavoli e sedie, nessuno aveva acconsentito a rimanere un secondo di più di fronte a una porta chiusa), non riuscì a prendere sonno, indugiando in una veglia affannata, come quella di un condannato a morte durante l’ultima notte da vivo, sapendo che non ci sarebbe stato un domani. Il palazzo che gli indipendentisti avrebbero dovuto conquistare pareva inghiottirli nel silenzio delle sue volute alte di pietra lucida, sfumata dai bagliori bluastri delle sirene, riempiendo i corridoi vuoti di ombre aguzze lanciate dai riflettori puntati dalla piazza gremita di forze dell’ordine stanche e spazientite. Una notte così non poteva lasciar scampo. 
    L’occupazione era durata anche troppo e tutti masticavano rabbia e ansia, ricamando un livore che non lasciava alcuna speranza di redenzione. Una scelta che fino a poche ore prima era parsa solida si sgretolava come un castello di sabbia lambito dalla spuma di un’onda. Che stupidi! Come potevano immaginare che quel piano avventato, folle, frutto dei deliri di capi inesperti, avrebbe avuto qualche speranza di successo? Come da bambini basta uno schiaffone per cancellare di colpo le ragioni di qualche marachella insensata, così il commando indipendentista si trovava spogliato di una qualsiasi ragionevole motivazione plausibile da addurre come giustificazione del loro assedio. Era impossibile prendere sonno senza risposte. 

    La mattina dopo il nervosismo era quindi arrivato alle stelle, lo sgretolamento dell’impresa un fatto annunciato. Solo Gerard si era calmato e appariva serafico, raggiante. “Viva l’indipendenza!”, esclamava di tanto in tanto facendo su e giù per le scale, “viva l’indipendenza e abbasso Giacchin, maledetto Giacchin!”.
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