Cerca nel blog

La fine si passa assieme. Epica Etica Etnica Pathos: dai CCCP ai CSI.

cccp csi lindo ferretti massimo zamboni punk

26 dicembre 1991. SSSR, ultimo atto. Il muro di Berlino è caduto da un pezzo, l'Unione Sovietica crolla. Ma il gruppo di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni si scioglie un anno prima della disintegrazione dell'Urss. Ferretti ha anticipato i tempi. 

Ottobre 1990. Unificazione delle due Germanie. Non poteva esserci data più ovvia per mettere la parola fine alla teatrale messinscena etichettata come “punk filo-sovietico”, inaugurata proprio nella Berlino di qualche anno prima, quella ancora divisa da un (provvido) muro. Maciste contro tutti è ora più solo che mai, non rimangono che tentativi antologici di tirare le fila di ciò che è stato. Ecco i miei gioielli raccoglie così un'esperienza che nel corso degli anni Ottanta non ha mai smesso di mutare, sebbene conservando un immutato spirito punk-mistico, dissacrante e contorto, provocatorio e canzonatorio. Ciò che si sottoponeva a motteggio (trasposto in parodistica e distorta celebrazione) era la grandeur di un regime sovietico morente, a sua volta deformato dalla lente di un ethos provinciale di provincia emiliana, dove il comunismo era buona amministrazione, circoli Arci, feste dell’Unità, fedi politiche sempre più autoreferenziali, miscugli di tradizione che non muore e abbagli di modernità. Contro-autobiografia della nazione, quella dei CCCP, verrebbe da dire. 

Nel settembre 1992, dalle ceneri dei CCCP, nascono i CSI. La Comunità degli Stati Indipendenti si trasfigura musicalmente in Consorzio Suonatori Indipendenti. Un'indipendenza che si manifesta sia nella veste di un approccio inedito alla "cosa" musicale (che in Italia, in quegli anni, faceva fatica a trovare proprie strade), sia nel ruolo centrale del personaggio Lindo Ferretti all’interno del gruppo: i CSI sono un’esperienza di cantautorato rock, dove Ferretti parla molto di sé, fa gravitare attorno alla sua persona le parole, la sua penna si fa meno anthemica-generazionale e più biografica e narrativa. Accanto a questo assestamento dell'asse narrativo/rappresentativo si nota anche un più posata conquista di maturità, grazie alla quale si smussano certi spigoli (quelli più dissacranti e spontaneisti, oltre che quelli dell’avanspettacolo anarcoide), ma se ne creano altri forse ancora più taglienti (le chitarre di Giorgio Canali e il loro scalpitare noise), rafforzati da una consapevolezza di sé inedita, che sa come e dove colpire (al contrario della gragnola di colpi assestati da molti brani di carattere più espressionista dei CCCP). 

Il passaggio tra un tempo (quello degli Ottanta) e l’altro (gli anni Novanta), espresso simbolicamente attraverso il cambio di formazione, non rappresenta però una cesura radicale. La continuità c’è ed è manifesta: a volte si sostanzia in lasciti sclerotizzati, altre volte sfuma in tentativi di lasciarsi alle spalle il passato e percorrere strade inedite, prevedendo quello che sarà e accettando il clima nuovo che si impone piegando la volontà. A legare i due piani, i due percorsi, c’è Maciste, il gigante buono e forte ma destinato a crollare. Maciste contro tutti, 1993. Maciste contro tutti, 1990. Un legame, un filo rosso che si tende tra il live album collettivo registrato durante il Festival delle Colline da Ustmamo, Disciplinatha e i neo-costituiti CSI, e il brano che chiude l’ultimo lavoro a firma CCCP, quell’Epica Etica Etnica Pathos che deve essere indagato per il suo rappresentare la porta lasciata aperta tra un prima e un dopo. 

 -------- 

Epica Etica Etnica Pathos, uscito nel settembre del 1990, è un album che ho sempre trovato faticosamente incostante, imparando ad apprezzarlo solo a poco a poco, mentre approfondivo la contornante produzione CCCP e CSI. Contornante perché Epica è come un monolite scomodo che divide a metà un percorso relativamente scorrevole. Un ostacolo che bisogna considerare, con cui occorre fare i conti. L’ascolto non è facile, o almeno non lo è mai stato per il sottoscritto, per quanto qui siano incastonati, come diamanti grezzi nella granitica tracklist, alcuni dei brani migliori del gruppo. I pezzi della scaletta dell’album si susseguono tra stacchi netti, salti umorali, dilungamenti oziosi (lo psichedelico intermezzo di “Baby Blue”), home recordings in bassa fedeltà, variazioni armoniche che si infiltrano nelle trame di un disco logorante, ambizioso, ma ogni volta come intestardito nel non voler dare organicità a quello che sembra voler a tutti i costi suonare come un disco rudimentale, oppositivo, inquieto, fieramente domestico (anticipando in qualche modo le nuove tendenze indie lo-fi del rock anni Novanta), genuinamente sperimentale. Se pensiamo poi che solo con il live album dal titolo programmatico In quiete (1994) i CSI si presenteranno compiutamente al pubblico, ecco che qui traspare con forza l’esigenza – immediata, urgente, di pancia - di una sorta di disordinato, caotico e creativo rituale collettivo per esorcizzare le molte esperienze che si apprestavano a giungere a termine in quell’inizio anni Novanta che sapeva anche di fine di secolo. 

La fine si passa assieme. Il gruppo si ritira così in una villa reggiana per registrare i pezzi “in tempo reale, suonando tutt’insieme nello stesso tempo. E spessissimo nello stesso spazio fisico”, come i Jefferson Airplane nel 1967, o la Band nel 1968. O come gli stessi CSI che, nell’estate del 1993, registreranno Ko de Mondo ritirandosi a Finistère. Finis terrae, la fine della terra. Diventa difficile non leggere quest’esperienza senza ricorrere alla simbologia della fine che richiama un nuovo inizio, simbologia irresistibile, che impregna i solchi e impone una lettura coerente di quella che, solo a posteriori, appare come una tappa perfettamente integrata in un percorso complessivo. Si ricompone così, postumo, quel mancato filo logico interno alla scaletta, quella mancata organicità che invece era lì fin dall’inizio, nell’insieme, negli intenti. Bastava solo allargare lo sguardo. 

Ora però è necessario stringer la visuale, tornare al singolo episodio. L’atmosfera del disco, passate le prime due tracce (un misto di tronfia magniloquenza incredibilmente connessa all’attualità – “Aghia Sophia” – che vira nel profondo misticismo di “Paxo de Jerusalem”), si aggroviglia in un misto di registrazioni casalinghe (“Tutto lo sporco degli anni ‘90 con la tecnologia degli anni ‘70”) che misurano il polso a un’esperienza corale, dove tuttavia Ferretti è già in qualche modo solo, inscenando la parte dell’autore (o del personaggio) accompagnato da un banda di musici riverenti, in visita. Lindo Ferretti & CCCP. Eppure sono tre i mesi passati a vivere e suonare a Rio Saliceto, poco sopra Reggio, a due passi da Carpi (“da Reggio a Parma, da Parma a Reggio, da Modena a Carpi, da Carpi al Tuwat”) nella calura della primavera che diventa estate e che nella piana è cocente, appiattente, sfiancante. Immagino le ore lunghe di noia e le esplosioni di comunanza, di suoni. Così la fisarmonica procede al battere delle mani a tempo, un cane abbaia (“Sofia”), e poi ecco l’abrasività della chitarra elettrica di “Narko’$”, presto sfumata nella soffice siesta di “Baby Blue”, e ancora la quiete sonnacchiosa di “Campestre”, che ingigantisce la capacità espressiva e poetica degli ex-punk CCCP. Proprio qui, tra le chitarre che intarsiano suggestioni mollemente pastorali, si consolida la prima seria impressione che ci sia qualcosa di grosso tra i solchi di quest’album disordinato. “Svanisce la città, sfuma il traffico, sfuma. S’impone la poesia, s’alza la luna e sale, decolla”. Un’ode al ritiro, Berlino è lontana più che mai, e pensandoci qui troviamo il Ferretti che si sarebbe autodefinito reduce, quello del futuro ritorno a casa. Qui comincia la narrazione di un recupero del sentiero perduto, della famiglia che tira dalle radici, del recupero di una religiosità contadina e testarda, vissuta come lezione tramandata e mandata giù a forza, ma come si manda giù il pane, serbata come fibra intima ineliminabile per quanto sputata, esorcizzata, fuggita. Una reazione, l’ennesima tutta individuale, di fronte al crollo. 

Il crollo. La tematica del ritorno solleva mille dubbi, è contrastata da constatazioni di sgretolamento e caduta. “Depressione caspica” è il manifesto del nuovo Millennio giunto prima del tempo, “ecco che muove sgretola dilaga”, quel crollo che impone di ripensare a tutto, alle proprie certezze, alle proprie religioni laiche e di mettersi in un’attesa indefinita, incerta (“io in attesa a piedi scalzi e ricoperto il capo, canterò il vespro la sera”). L’ostacolo al lasciar correre però sta nella speranza intima di non dover bere l’amaro calice (“no non ora non qui questa pingue immane frana”, che rimanda a Sant’Agostino e al suo “ma non ora”), nella consapevolezza che i mutamenti in atto sono destinati a essere frastornanti, massicci, e a nulla valgono i richiami alla fermezza morale (“se l’obbedienza è dignità fortezza, la libertà una forma di disciplina, assomiglia all’ingenuità la saggezza”). Unico rimedio il riunirsi, ancora, il cantare, il perdersi nelle voci sparse (“In occasione della festa”: anni più avanti Ferretti produrrà il suo canto più leggero e spensierato, “Alla pietra”, anno 2004). La politica si squaglia, perde solidità (oltre che serietà, e gli “Appunti di un viaggiatore nelle terre del socialismo reale” saranno eloquentemente striminziti). La politica aleggia però tutt’intorno, questa volta contrassegnata dallo stigma dell’emergente berlusconismo (i cui tratti culturali erano già presenti prima della fondazione di Forza Italia). “Causa nostra, cosa nostra”, recita il coro sfumato di “L’andazzo generale”, tra chitarre sciolte e singhiozzanti, incedere free-folk che se fosse stato composto da un barbuto ventenne americano a metà Duemila sarebbe passato come capolavoro indie (per non parlare dell’Etnica “Al Ayam”, che recita eloquentemente “sono giovane, eppure gli eventi hanno imbiancato i miei capelli”). Eppure no, qui abbiamo un gruppo di emiliani che suona e canta, le chitarre incredibili dell’assorto Zamboni e il solito invocare – accettare – il crollo imminente (“bramo le rovine auguste e gli ariosi crolli, amo le mie colpe i guasti e le pappemolli”). 

Ma si può ascendere in virtù di una forza che è discendente. “Maciste contro tutti”, brano enigmatico: “Emilia paranoica” aggiornata al 1990. Tour de force sonoro, continuo sali e scendi di toni, di riferimenti, di immagini. “Maledirai la Fininvest”, il presente-futuro che si mescola con un arcano inno di battaglia, con il richiamo alla preghiera – che torna come una costante, l’attrazione mistica del ritiro, della figura del monaco, vera linea rossa dell’esperienza Ferrettiana – con la rinnovata ricerca di disegnare i tempi nuovi che arrivano come predoni: “Sembra sole nascente, Il sole d'Occidente, Sembra sole che nasce, Questo sole calante, Accende l'orizzonte, Infiamma il firmamento, Il buio lo sorprende, Fosco nero avvolgente”. Il buio lo sorprende ma, ricorda, “non temerai i terrori della notte non temerai il terrore”. Coraggio, eppur bisogna andar. 

E in tutto questo c’è il Ferretti autore, cantante. Cantautore. “Amandoti”, “Annarella”, raccolte non a caso nell’ultimo singolo, sono testamenti di un quasi quarantenne già parecchio adulto, di una maturità rassegnata, solenne e austera, che nella sua assertività sembra voler forzare un mutamento di pelle, traghettando il personaggio pubblico oltre un’esperienza che sembra non vestirlo più come si deve (come è appropriato vestirsi a una certa età), riassettando su un equilibrio più conforme al nuovo sé il rapporto tra personaggio privato e personalità pubblica. 

Il legame di quest’album con l’esperienza dei CSI è dichiarato, e fa spiccare tutta la riflessività, il dubitare, il vacillare del gruppo – e di Ferretti – di fronte all’ennesimo squarcio della e nella modernità. Vera e propria costante il continuo domandarsi e cercare risposte, il tratteggiare certezze nette, subito dopo date in pasto al dubbio. Una ricerca di senso mai definitiva, per quanto ogni volta proclamata con la forza di chi non sente il peso di dover dare per forza una risposta univoca. Di fronte alla complessità del presente "che preme, compatta, schiaccia", l'affermatività di Ferretti conferma e insieme rompe l'evidenza, mettendo in mostra la contraddizione. Dopodiché, prodotta la frattura, si scava. Un metodo netto che continuerà per tutta la stagione CSI, periodo di scoperte, di viaggi, di pellegrinaggi. “Per me, per la mia vita che è tutto quello che ho. È tutto quello che io ho e non è ancora finita”.



Share:

0 commenti:

Posta un commento

Commenta e di' la tua. Grazie!