Nella puntata di luglio si sta rigorosamente nel Regno Unito, fatta eccezione per gli Stati Uniti blues e country dei Creedence. Alla faccia della Brexit. Buon ascolto!
► 1970
La copertina del quinto lavoro dei Creedence è stonata, fuori luogo, soprattutto se confrontata con le cover dei lavori precedenti. Gli artwork anni Sessanta, curati dal fotografo Basul Parik, privilegiavano psichedelia e open air, mentre Cosmo's Factory ritrae il gruppo in un istante non "estetizzato", in un momento di puro svacco da retroscena (non a caso l'autore dello scatto è di Bob Fogerty, fratello di John Fogerty). Il detto "mai giudicare un libro dalla copertina" è però in questo caso oltremodo adeguato: l'album riscosse un grande successo, imponendosi come uno dei lavori più noti del gruppo. L'attacco di "Ramble Tamble" è fulminante, ma presto il brusco cambio di tempo incanala il pezzo lungo una jam che apre a un'inedita spazialità (dove la chitarra gocciolante e singhiozzante di Fogerty regala momenti impareggiabili). Accanto a blues e rokabilly rimaneggiati e rinvigoriti ("Before You Accuse Me", "Ooby Dooby", "I Heard It Through the Grapevine"), ci sono i pezzi scritti da John Fogerty tra cui spiccano la memorabile "Lookin' Out My Back Door", "Up Around the Bend" (con il suo irresistibile piglio power pop) e la ballatona soul country di "Long As I Can See the Light". Un pezzo indispensabile nella discografia di qualunque amante del rock.
► 1980
A proposito di copertine. Il fatto che l'artwork di uno degli album più belli di sempre ritragga, scattata da Bernard Pierre Wolff e riadattata dal grafico Peter Saville, la tomba della famiglia Appiani del cimitero monumentale di Staglieno (sopra Genova), è qualcosa di stupefacente. Una celebrazione funebre dettata dal caso, visto che la copertina era stata approvata da Ian Curtis stesso, prima - ovviamente - del suicidio e della conseguente fine dei Joy Division. Ora, però, quella fotografia in bianco e nero appare come una doverosa, tragica e solenne epigrafe. Venendo alla musica c'è solo da rinnovare il senso di stupore. Il solito Martin Hannett guida la band con ancora più maniacale rigore, fissandosi non solo sul tipico pernio drum & bass (le percussioni qui assumono la rigida sembianza di ghiaccioli rintuzzanti su lastre di vetro, il basso, privo di risonanze, implode accigliato ad ogni rintocco delle corde), ma allargando il campo su synth algidi ("Isolation") e distese atmosferiche diafane e - letteralmente - gelate ("Heart and Soul", da brividi, per non parlare di "The Eternal"). L'energia vitale che ancora animava Unknown Pleasures qui è prosciugata (la voce di Curtis e monotona, stanca, sempre pronta a spezzarsi), e la rabbia si aggruma in occasionali addensamenti di nervosismo chitarristico (la prima, stupenda "Atrocity Exhibition", o l'ossessiva "Colony"), animandosi di pulsazioni nerissime in capolavori assoluti del post-punk ("A Means to an End"). Mai album fu tanto tragicamente espressivo e capace di tradurre in musica un passaggio interiore verso la rassegnazione e l'oscurità. In Closer si possono leggere molte cose, spesso discutibili (tra cui una sorta di celebrazione romantica del suicidio), ma nulla può togliere un briciolo di spessore a uno degli album più profondi e intensi della storia del pop.
► 1990
Splendido come la novità, un tempo, passasse senza soluzione di continuità dalla nascente dance alternativa ai Rolling Stones anni Sessanta, quelli più beat. Madchester fu questo: un calderone colorato dove il pop britannico si riorganizzava per le esigenze di ragazzi e ragazze con tutte le intenzioni di vivere la loro personale summer of love. Il 1990 è un anno che cattura splendidamente gli umori di quella scena, vedendo celebrati discograficamente nomi caldi come Happy Mondays, Charlatans, Inspiral Carpets, James, EMF. I Soup Dragons si aggiungono dignitosamente ai nomi appena elencati: il loro è un pop gasato e sudaticcio, euforico e su di giri. Il sound dance alternativo fa vibrare pezzi densi e psichedelici, pescando dalla tradizione ("I'm Free") e guardando al futuro ("Mother Universe"), bazzicando rock imbastardito e anfetaminico ("Backwads Dog", le bellissime "Lovegod" e "Sweetmeat"), mostrando sempre un gusto al confine tra l'indiepop di fine anni Ottanta e i tentativi di superamento di band come The House of Love e Stone Roses. Insomma, forse un lavoro per completisti, ma capace di rendere benissimo il clima e il mood di quegli anni. Cosa non da poco.
► 2000
Un esordio promettente, molto promettente, che in qualche modo normalizzava una scena britpop arrivata al limite, offrendole un agevole paracadute. Il pop dei Coldplay tornava a sfoggiare con sicurezza e pacatezza una scrittura tipicamente e caparbiamente british: melodica e sicura di sé, sottile eppure così densamente aggrappata a una tradizione autorevole che si respira ad ogni ascolto, in ogni solco. Ci sono i Radiohead, certo, ma filtrati attraverso un approccio devoto a un songwriting easy listening e pacificato, lontano dalle sperimentazioni di quella parte della scena che cercava di uscire a suo modo dal Cool Britannia. Un reflusso o una riconquista dell'equilibrio, fate voi. Certo è che brani come "Shiver", "Sparks", "Yellow", "Trouble", tutte sospese tra grazia acustica e rinforzi elettrici e aggrumate da una grazia compositiva unica, sono un vero balsamo per le orecchie.
► 2010
C'è stato un tempo, non molto tempo fa, in cui il post-punk tornava ad essere una forza viva, non un semplice minestrone riscaldato. Gli O. Children, poi, avevano stile da vendere. Il vocione di Tobias O'Kandi, profondissimo e gutturale, era la ciliegina sulla torta di una line-up di fuoriclasse, capaci di scrivere pezzi densi e espressivi, equilibratissimi tra scenografie oscure e melodie capaci di rimanere incastonate nel cervello (bastino le prime due composizioni: "Malo" e "Dead Disco Dancer"). Appartenenti, almeno trasversalmente, alla fugace scena brit-rock, eredi nobili di quanto fatto da Interpol, Editors e White Lies, i nostri ibridavano il loro suono a dovere, aggiungendo agli ingredienti tipicamente gothic e post-punk ("Radio Waves"), elementi synth (l'epica "Heels", l'arty "Ezekiel's Sons"), shoegaze e indie-rock ("Fault Line", "Smile", "Ruins"). Nel 2010 il rock era più vivo che mai, accidenti.
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