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[#06] Dischi di giugno (con lo ⓪)

Caldissimo giugno di ripresa ('nsomma). Tra le uscite di questo mese ho ripescato sia materiale rinfrescante (gli Steeleye Span registrarono il loro esordio sotto la neve del 1969), sia roba decisamente infuocata (i Deftones). 
Buon ascolto, come sempre.

► 1970


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Steeleye Span - Hark! The Village Wait (RCA)

Maddy Prior è l'ennesimo esempio di quanto Bob Dylan sia stato importante da un lato all'altro dell'Oceano. La Prior si accorse di quanto il folk potesse essere divertente proprio ascoltando mr. Zimmerman, per poi approdare - in uno strano passaggio trans-culturale - alla riscoperta della noiosa tradizione britannica e applicarsi, assieme a Tim Hart, alla pratica del genere nei folk club inglesi, finendo col fondare gli Steeleye Span assieme a Ashley Hutchings (appena uscito dai Fairport Convention), Peter Knight e Gay e Terry Woods (che arrivava dagli irlandesi Sweeney's Men). La combinazione tra chitarre elettriche e pezzi tradizionali (risalenti al XVIII e al XIX secolo) esplode in tutta la sua carica innovativa nel primo Hark! The Village Wait, sfornando, dopo il seminale Liege and Lief, uno dei capolavori del folk revival britannico. Il suono, rispetto ai lavori successivi, è limpido e pienamente attinente ai canoni folk-rock anni Sessanta, anche se impreziosito dall'utilizzo di strumenti tradizionali (concertina, autoharp, bodhrán, liuto, mandolino, dulcimer - quest'ultimo elettrificato). Tra i brani spiccano "The Blacksmith", "Blackleg Miner", "The Dark Eyed Sailor" (la mia preferita in assoluto, insieme a "Lowlands of Holland"), "The Hills of Greenmore", tutte portate a nuova vita grazie allo splendido lavoro di interpretazione e arrangiamento della band, e in particolare del basso sempre protagonista di Hutchings, delle comparsate alla batteria di Dave Mattacks, dei sapienti accompagnamenti delle corde di Terry Woods e della voce incantevole di Maddy Prior. Un viaggio nel passato fondamentale per la riscoperta del folklore britannico in senso modernista.


► 1980 

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Azra - Azra (Jugoton)

Sebbene sia il secondo album degli Azra a meritarsi lo status di capolavoro, l'esordio del gruppo jugoslavo (dalla Republica socialista di Croazia) si inserisce ottimamente nel mood dell'ondata new wave che contraddistinse la musica giovanile anni '80. La Jugoton darà voce, nel corso del decennio "post-Tito", a una scena di straordinaria vitalità (che da Belgrado si diffuse per tutta la federazione), vedendo crescere esponenzialmente le uscite classificate come "rock" e le band punk, promosse benevolmente dal regime e in particolare dalle sue organizzazioni giovanili (Made in Yugoslavia: Studies in Popular Music). Tra scattante post-punk ("Jablan", "Krvava Meri"), colorato jangle rock ("Uradi nešto", "Vrijeme odluke", "Marina"), folk ombroso e atmosferico ("Gracija") e profumato ska ("Žena drugog sistema") si snoda la proposta di una band ancora acerba ma già in pieno controllo di una espressività cangiante ed esplosiva, che sarà poi perfezionata nel successivo Sunčana strana ulice. La capacità di assemblare e mescolare, senza troppe formalità, sonorità disparate senza timore reverenziale, in un misto di passionalità dirompente, sperimentazioni e intuito dissacrante e al contempo ammirato dalle sonorità occidentali, rende la new wave jugoslava tanto affascinante e preziosa. Un album da scoprire assieme a tutta la scena.


► 1990 

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Caifanes - Vol. II [El diablito] (RCA)

Dei Caifanes avevo parlato in occasione dell'anniversario del loro esordio. Ora, a distanza di un paio d'anni dal fortunato album del 1988, la band messicana sposa un sound ancora più variegato, che mescola post-punk e rock alternativo, aggiungendo altre nuance all'impasto (già variopinto) dei primi passi. Basti un brano come "Antes de que nos olviden": gli spazi si allargano rarefacendosi in trame vaporose di chitarre svolazzanti, in arie di tastiere leggere, per un brano fluttuante in una declamazione sognante, costantemente sospesa tra aperture armoniche e stasi onirica. È chiaro che l'evoluzione è netta, come confermano brani come "La vida no es eterna", dove l'ottimo Saúl Hernández declama il suo memento mori accompagnato dalle trame di chitarra di un ispiratissimo Alejandro Markovich, capace di alternare momenti di elettricità infuocata (come nella bellissima "De noche todos los gatos son pardos") ai soffici ricami atmosferici del ritornello, o come la splendida "Aquì no pasa nada", dove il sintetizzatore si insinua obliquo tra il notevole lavoro delle corde di Markovich, serpeggianti e indugianti sullo fondo fino ad esplodere in uno sgargiante intarsio jangle. Tra i migliori lavori inaugurali degli anni Novanta.


► 2000 

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Deftones - White Pony (Maverick)

White Pony è, per me, l'album dell'autonomia personale: lo scelsi ostinatamente all'età di 14 anni dopo un'accurata cernita dei cd messi a disposizione dalla biblioteca regionale (piccola oasi casuale nel nulla culturale più assoluto), incurante dell'opinione fredda e distaccata di un amico. Scelta tutta mia, una delle prime in ambito musicale: questa cosa piace a me, del tuo parere me ne fotto. Ecco, da allora ho sempre conservato il terzo lavoro dei Deftones come qualcosa di caro, come un tratto della mia personalità. Autobiografia a parte, il gruppo di Chino Moreno raggiunge nel 2000 il suo stato di grazia. Per quanto legata al filone nu-metal, la band si è sempre distinta per un approccio personale e sganciato, capace di aggiungere al tipico sound grossolano del genere (qui padroneggiato con estrema classe, basti la sola "Elite") un'inedita vena new wave anni Ottanta (di ispirazione Cure e Depeche Mode), riuscendo così a distinguersi per creatività e profondità sonica. Il processo di affrancamento dalla schiera di metal alternativo di fine anni Novanta si completa con l'arrivo del tastierista e deejay Frank Delgado, il quale non si limita a scratchare sui chitarroni in primo piano, ma aggiunge spessore sonico alla palette già oltremodo complessa dei brani. Elenco brevemente i motivi per cui amare questo disco. 1) L'inventiva geometrica di Abe Cunningham, vero artista dello strumento, in grado di creare vere e proprie strutture portanti semi-autonome, di tirar fuori dalle pelli toni e motivi in grado di incastonarsi in testa, facendo da perfetto contraltare alla matassa di rumor bianco delle chitarre di Stephen Carpenter. Si prenda "Digital Bath", con quel suo pattern ritmico complessissimo, avvolgente e geometrico, che stringe nelle sue spire un sound meticolosamente trattato (la produzione è affidata a Terry Date) e un mood trasognato e psichedelico, ma anche il lavoro di timbri in "Rx Queen" (una continua mescolanza di materiale trattato da Delgado e patterns di Cunningham). 2) Il rinnovamento sonoro, palese nel trip-hop campionato e atmosferico di "Teenager" o nella maestosa "Passenger", frutto del featuring con un altro innovatore del genere, Maynard James Keenan dei Tool, per non parlare di "Change", tre le cose più belle e poetiche scritte negli ultimi trent'anni di musica heavy.  3) Il vigore metal, che non lascia rivali in quanto a radicalità e abrasività. In pezzi come "Elite", "Street Carp", "Knife Party", le chitarre di Carpenter (la cui omonimia con il celebre regista non deve essere frutto del caso) risultano chirurgiche e frastornanti, dissonanti e sfibrate (ascoltate "Pink Maggit"), ma al contempo precise e affilate. Da cagarsi sotto, per dirla alla francese. 4) Non da meno, infine, il timbro inconfondibile di Chino Moreno, flebile e violento allo stesso tempo, capace di un'interpretazione unica e appassionata ("Knife Party" e "Korea", in questo senso, sono da applausi, come anche la stupenda "Pink Maggit", dove Moreno sussurra e bisbiglia, in uno dei più bei lamenti del rock). Insomma, un disco viscerale, totalizzante, cerebrale e di pancia allo stesso tempo. Capolavoro assoluto. 


► 2010 

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Ariel Pink's Haunted Graffiti - Before Today (4AD)

Personaggio enigmatico, Ariel Pink, e disco altrettanto enigmatico, questo suo ottavo. Before Today, come il resto della produzione del musicista di Los Angeles suona come uno scherzo, come una presa in giro. Bassa fedeltà, mood zappiano e strafottente, manipolazione ludica dei suoni. Eppure il lavoro del 2010 è un manifesto strabordante di retromania manipolata e rivisitata, un gioiellino di inventiva e creatività, di psichedelia mattacchiona e free form, ma anche di seri intenti sperimentali. La sostanza, quindi, non manca: "Bright Blue Skies" sfodera una brillante melodia motteggiando dei Ramones in veste Sixties, "Fright Night" è pop ipnagogico anni Ottanta sfumato e torbido, "Beverly Kills" è sinuoso synth-funk da pool party, "Butt-House Blondies" è hard rock in versione Aor, avvolto da miasmi erbacei e andazzo stonato, "Little Wigs" è un turbine di power pop farcito di umori acidi, "Can't Hear My Eyes" è fedele riproduzione di AM pop laccato e sinuoso, "Revolution's a Lie" è post-punk krauto e accigliato. Insomma, una zibaldone curato nel minimo dettaglio, un canovaccio di espressività e archeologia pop e rock, capace di sventagliare soluzioni frastornanti e coraggiose, personali alchimie che suonano ancora oggi come una sfida al buon senso ma - e qui sta la sorpresa - non al buon gusto. Un album innovativo, creativo, una gemma di pop psichedelico da non perdere.


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