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Recensione ► Mount Kimbie: "Love What Survives" (Warp, 2017)

mount kimbie album 2017 recensione
Lo si diceva poco tempo fa: tra i protagonisti della stagione dubstep, il duo londinese dei Mount Kimbie si distingueva fin dal principio per la sua grande capacità di ibridazione, per la risoluta volontà di stare fuori dagli schemi. A partire dai primi EP l’evidente vocazione era infatti quella di andare oltre, di superare ogni stringente confine di genere. Già future garage, quindi, quello consacrato con l’esordio datato 2010, così splendidamente in bilico tra left-field pop (per usare un termine generico capace di abbracciare i diversi ingredienti del sound) e le tipiche atmosfere Uk bass allora in voga.
Con questo nuovo episodio lo strappo è di nuovo netto, radicale, tanto da far pensare, più che ad un balzo in avanti, ad un curioso (retromaniaco, direbbe qualcuno) guardarsi indietro. La musica di “Love What Survives” appare meno digitalizzata e modernista, le componenti elettroniche sono integrate in un vasto frasario dove convivono bassi post-punk, sintetizzatori analogici, ritmiche motorik, chitarre sfibrate, stravaganza arty. Siamo di fronte ad una maniera rétro di intendere il synthpop, come se a suonare fossero gli OMD, o i Joy Division, per intenderci.

Il tratto caratterizzante, però, risiede nella natura smaccatamente pop della proposta: la tracklist è un susseguirsi di canzoni, lasciando che l’elettronica (un’elettronica poco futurista e molto waveggiante) ricopra spesso un ruolo scenografico, di supporto ad una scaletta dedicata alle voci forti del recente sottobosco britannico. King Krule (nella bellissima “Blue Train Lines”), Mica Levi, l’immancabile James Blake (doppietta, la sua, con “We Go Home Together” e “How We Got By”): featuring che vanno oltre la mera comparsata o il cammeo, lasciando agli ospiti un ruolo importante nella gestione del sound, per vere e proprie collaborazioni, come a voler registrare lo stato dell’arte (non posso non pensare ad un lavoro come “Psyence Fiction” di UNKLE, vero e propria rassegna all-stars, radiografia dell’allora scena alternativa).

 

Un album di spessore, anche se l’impressione è che si tratti di una prova di transizione, di una proposta le cui parti – non sempre ottimamente sincronizzate – richiederebbero una maggiore sistemazione all’interno di un discorso che, nonostante tutto, rimane davvero affascinante.
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