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L'arte della cover

l'arte della cover articolo matteo castello
Le cover possono essere interpretate come appropriazioni indebite, come esercizi di stile (penso alla celebre "Misirlou", pezzo obbligato per le surf band degli anni Sessanta), oppure come geniali terreni di gioco per mettere alla prova l'abilità dell'interprete. Sgombrando il campo dalle discutibili cover band da pub (per quanto possano essere un primo modo per approcciarsi alla musica), l'interpretazione di brani altrui può essere una vera e propria forma d'arte: infondere la propria personalità in brani celebri è una bella sfida, impresa forse più spinosa della composizione di pezzi originali. In pochi riescono nell'impresa.

Provo a elencare qualche cover, più o meno nota, che per me è diventata indispensabile almeno quanto l'originale.
Partiamo dalla bellissima "Landslide" dei Fleetwood Mac. Onestamente, come fare meglio? I delicati intarsi in arpeggio di Lindsey Buckingham, la voce suadente, di impostazione country, di Stevie Nicks... Eppure ecco che arrivano gli Smashing Pumpkins, che scelgono di non apportare alcuna variazione significativa al brano, se non fosse per i riverberi notturni applicati alle corde e l'interpretazione roca di Billy Corgan. Un omaggio, in questo caso, ma fatto proprio, immerso nel mondo chiaroscurale della band di Chicago.



Altro brano immancabile nel repertorio di qualsiasi amante della musica è la famosissima "Everybody's Talking" di Fred Neil (conosciuta soprattutto nella versione cantata da Harry Nilsson). Diversi decenni dopo un gruppetto shoegaze omaggia il brano immergendolo nell'intrico liquido di riverberi e distorsioni con cui sono trattate le chitarre, producendo una deliziosa gemma psichedelica. Loro sono i Moose, l'album è "...ZYZ" del 1992.



Proseguendo lungo la via della totale appropriazione non si può non citare la versione di "Only Love Can Break Your Heart" dei Saint Etienne: dal country-folk corale e campestre di Neil Young, la band inglese tira fuori un seducente groove alternative dance colmo di influssi balearic.


Altra cover riuscitissima e storpiata a dovere, quella dei Devo, che stravolgono in un incedere epilettico e spezzettato "(I Can't Get No) Satisfaction" dei Rolling Stones. Piena de-evoluzione postmodernista in salsa new wave.


Quello che è capace di fare Mark Kozelek con "Neverending Math Equation" dei Modest Mouse, poi, è stupefacente. Un bel pezzo indie-rock trasformato in un piccolo capolavoro intimista, in pieno stile Sun Kil Moon.



Ultima cover degna di nota: la bellissima "Isn't It a Pity" di George Harrison, presa in prestito dai Galaxie 500, capaci di far rivivere l'originale grazie al loro indiepop psichedelico da cameretta, glassato e trasognato. Una versione che, sono sicuro, avrà lasciato deliziato lo stesso Harrison.



E poi, come chicca, c'è questa:


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