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Recensione ► Eagulls: "Ullages" (Partisan, 2016)

recensione Eagulls, Ullages, Partisan, 2016
Poco, pochissimo è rimasto di quella bellissima e fugace ondata di band che, durante i primi anni Dieci, rileggevano e mescolavano liberamente -dopo la sbornia wave revival e nu rave- scorie di post-punk ottantiano, shoegaze e dreampop. Ne uscivano album notevoli (penso agli esordi dei Chapel Club, dei Toy e degli S.C.U.M, alla costante evoluzione degli Horrors, a gemme sottovalutate come Airship e Lowline, a followers del calibro di Younghusband e Patterns), prodotti da band che si sarebbero presto sciolte o dedicate ad altro, lasciando il campo a un più vasto (ma meno interessante) sottobosco di revivalisti shoegaze. Non esiste nemmeno un nome per descrivere quella proto-scena di difficile delimitazione (il filo rosso che univa le varie band, ognuna libera di interpretare a suo modo la materia privilegiando questo o quell'ingrediente, era piuttosto vago, legato più ad un “sentire” comune che ad uno stile codificato). Eppure gli Eagulls, partiti da tutt'altre coordinate, sembrano oggi raccogliere e portare avanti quel discorso lasciato aperto.


Eagulls” (Partisan, 2014) era infatti maggiormente legato a sonorità feroci di stampo hardcore, per una favella post-punk urlata e roboante alla maniera di band come Balaclavas, Iceage, Holograms, Protomartyr (e, guardando al passato, Killing Joke). Eppure già ai tempi dell'esordio si notava il gusto per un chitarrismo espanso e trattato, per nulla monocromatico ma anzi espressivo, spazioso, mutevole. Caratteristiche, queste, che finiscono al centro del nuovo “Ullages”, capace di riscrivere i dosaggi di un sound totalmente reinventato (l'anagramma è rivelatore: “ullage” sta per “spazio non riempito di un contenitore”, come a voler suggerire -vista la netta evoluzione- un processo di “riempimento” del potenziale della band di Leeds).



Le chitarre di Mark Goldsworthy e Liam Matthews lavorano di fino, lasciando da parte i riff al fulmicotone per concentrarsi, da un lato, su tessiture di arpeggi liquidi e tremolanti, dall'altro su nugoli ambientali sullo sfondo. Si prenda il dialogo tra basso e chitarre jangly nella bellissima ed incalzante “Euphoria”, coinvolgente prova di addensamenti ed espansioni (le chitarre shoegaze che montano in alternanza ai ricami solisti), o la fitta ballata “My Life in Rewind”, densa di tremolii e riverberi (vale qui la pena seguire l'evoluzione finale dell'arabesco onirico tratteggiato dalla chitarra solista), intrisa di romanticismo decadente frutto dell'incontro tra i Cure di “Pornography” e i Chapel Club. A mutare è anche la voce di George Mitchell, non più urlata ma dolente e squillante (come non notare la somiglianza con il timbro di Robert Smith?), in sintonia con un mood meno opprimente, più orientato verso quello che da molti è stato letto come un discreto ottimismo (per quanto virato su tinte dark). Tutto, poi, fiorisce in arrangiamenti ricercati e traslucidi, per scenografie cromate, pluridimensionali (frutto anche del peculiare studio di registrazione ricavato tra le navate di una chiesa sconsacrata), capaci di giocare al contempo con una psichedelia disincantata e cupi retroscena gotici. Si prenda “Velvet”, cosi spigliatamente pop eppure così invischiata nell'impasto informe sullo sfondo, o la cupa e ieratica “Psalms”, capace di sfruttare al meglio una produzione aleggiante, dilatata, spaziale, o ancora la galoppata a ritmo motorik immersa nei cromatismi delle sei corde di “Blume” e il post-punk affilato e roboante di “Lemontrees” (che mette assieme The Smiths e Chameleons).



Poco è rimasto di quella ondata di band capaci di ridare originalità al rock contemporaneo, si diceva. Ecco, gli Eagulls sono ancora qui, e con “Ullages” rilanciano con vigore una sfida che forse vale ancora la pena di accettare.
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