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Rihanna - ANTI (Westbury Road, 2016)

copertina album Rihanna, Anti
Fare come voglio io”, per una come Rihanna, ha un significato piuttosto particolare: uno stuolo di produttori e collaboratori da capogiro, ad esempio. E poi il contratto milionario stipulato con la Samsung , che ha acquistato un milione di copie dell’album conseguentemente distribuite in free download su Tidal (“delle moderne strategie di marketing”, dove gli album si smaterializzano diventando marginali all’interno di una più ampia strategia promozionale dove conta creare la più diffusa “awareness” possibile, e dove l’acquisto da parte degli ascoltatori del supporto o del file digitale non è più cosa necessaria per ottenere il disco di platino). Perché uno pensa a Rihanna che si mette nella sua cameretta a strimpellare la chitarra e a smanettare sul laptop per poi regalare altruisticamente l’album ai fan. Certo. E invece, ovviamente, no.


ANTI” rappresenta però un’attestazione di indipendenza capace di far impallidire sia i detrattori, quelli che consideravano la musicista barbadiana come l’ennesima figura stereotipata del burattino nelle mani delle multinazionali del disco, sia chi intravedeva, nella sua proposta, oltre il fumo anche l’arrosto. La verità è che “ANTI” conferisce alla dimensione espressiva di RiRi una solidità inedita (“finalmente un album e non una raccolta di singoli” è stata l’opinione di buona parte della critica musicale) e un’integrità artistica non disposta a scendere a compromessi con i gusti prevalenti di ipotetici target di pubblico, ma anzi risoluta nel voler dettare il passo e proporre all’ascoltatore una formula “difficile” e azzardata. “Se lo può permettere, una come Rihanna”, direte voi. Certo, così come se lo poteva permettere la Cyrus. Ma forse anche no: entrambe avrebbero potuto proseguire lungo un percorso segnato e sicuro.

Rihanna, invece, lavora su produzioni sperimentali e strutture minimali, spesso private di quella roboante glassa dance-r&b che impregnava i capitoli precedenti. Tutto trasuda umori inquieti, oppure una sensualità ad alto tasso erotico, o ancora si articola su linguaggi deformati (in “Work”, che vede la partecipazione di Drake, si ripete quella parola masticandola in un mix dialettale fino a sformarla, a mo’ di chewing gum, per un brano primordiale e pulsante, da dancehall futuristica e al contempo arcaica). Il risultato è una sintassi intricata, di non immediata intelligibilità (si prenda l’urticante loop di chitarre strascicate che domina l’incedere di “Woo”), nonostante la capacità di rimanere connessa ad un frasario prevalentemente pop, per quanto imbastardito e corrotto. Se con gli Smiths si parlava di “invasione della cittadella del pop”, qui siamo più dalle parti di un “inside job nel palazzo del mainstream” dove non solo si infiltrano dall’interno strutture -produttive, compositive- consolidate, ma si fagocitano (un’altra volta, come nel caso delle infatuazioni indie/psichedeliche di Miley Cyrus) i satelliti orbitanti attorno alla propria massa gravitazionale (i Tame Impala omaggiati/riscritti dalla bellissima cover di “Same Ol’ Mistakes”, piccolo capolavoro di bassi liquidi e synth scintillanti).



 “Consideration”, frutto della collaborazione con SZA (Solana Rowe) è la partenza perfetta: il flusso vocale in duetto che si incastra nell’ordito dei pattern ritmici squadrati, con lo snare bello sporco e rumoroso, e quella semplice scala di accordi di piano che tratteggia un essenziale accompagnamento. Di un ritornello vero e proprio neanche l’ombra. Produzione ingegnosa, minimalismo compositivo, strutture fluttuanti: lo si ribadisce nella successiva “James Joint”, breve interludio electro-soul incentrato sull’accoppiata tastiera-voce, o nella tenebrosa “Desperado”, costruita su corpose linee di basso e su un giro di piano soul che porta con se influenze classiche, di derivazione blues, o anche nell’andatura meccanica della pur convenzionale ballata “Kiss It Better”, questa volta scandita da una linea di chitarra elettrica e addolcita da un ritornello alla Frank Ocean, ma incastrata in quelle sequenze di hi hat stretchate che, assieme al fluttuare del synth, danno al pezzo un tocco straniante e vagamente onirico, più vicino allo stile di un Miguel che alle tipiche ballate della Fenty (il cui standard viene però ridefinito nel delicato wonky di “Yeah, I Said It”).



La coda dell’album, ben distinta grazie allo spartiacque di “Same Ol’ Mistakes”, è un’ulteriore sorpresa: interrompendo di netto il flusso sperimentale, i quattro brani di chiusura si consacrano ad una materia tradizionale superbamente padroneggiata, basti pensare alle gemme soul di “Love on the Brain” e “Higher”, entrambe raffinate ed eleganti, adagiate su arrangiamenti che pescano dagli anni Cinquanta e Sessanta (l’organetto spiritual, gli arrangiamenti da camera) e interpretate con strabordante personalità, senza dimenticare la delicata e acustica “Never Ending” e il commiato pianistico di “Close to You”.

Un album completo, a tutto tondo, questo “ANTI”. Una dichiarazione di intenti e di capacità, frutto di una visione complessiva e di una maniacale cura per i dettagli (ci sono voluti tre anni per arrivare al prodotto finito). Rihanna ha superato se stessa attestando definitivamente il suo valore, dimostrandoci un’altra volta quanto siano sviluppati i processi di miscela dei linguaggi operanti nel pop odierno (è ormai assodato il crollo dei confini tra musica nera e bianca, tra mainstream e indie, tra generi e stili) e di quanto molto possiamo ancora aspettarci da una popstar che, a dispetto di una lunga carriera, non è che all’inizio della sua maturazione. Lunga vita, dunque.


Recensione tratta da: http://www.storiadellamusica.it/hiphop-rnb-black/alternative_r_b/rihanna-anti(westbury_road-2016).html
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