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Train Kept A-Rollin

racconto Matteo Castello Gene Vincent
Il treno colpisce la macchina con tutta la sua forza, tanto da farla prima sobbalzare come per un grande spavento e poi capovolgere su di un lato e qui, sospinta in un complesso frasario di scintille sulle rotaie, accartocciarsi progressivamente, finendo col ruzzolare esausta sul ciglio di un fossato erboso. Roba da applausi. Il conducente non ha nemmeno il tempo di capire che cazzo stia succedendo: il colpo è secco e violento, lo finisce subito. Il resto -cosa accada a quel torso ingiubbettato, a quei jeans stretti e lisi, a quegli stivali di pelle nera con le punte consumate, a quelle labbra cristallizzate all'insù, tra lo schifo e lo stupore- lo immaginerete benissimo da voi.
Succede però che l'urto innesca una strana reazione di circuiti elettrici: il volume dell'autoradio si impenna e sale, tanto da rendere quasi inavvicinabile -più che per i resti, il fumo, la paura, la benzina che comincia a formare rivoli e pozze infiammabili- l'auto sbriciolata. Avrebbero scritto: “il conducente moriva ascoltando a tutto volume uno dei suoi artisti preferiti, Eddie Cochran, fonte di ispirazione come per la vita così per la morte”.

Giusto la sera prima pensava che in fondo non avrebbe mai voluto frequentare i musicisti che ascoltava. Stupidi esibizionisti, spocchiose teste di cazzo! A lui interessava la musica, non chi la eseguiva. C'erano gli idoli, sì, ma non avevano niente a che fare con entità in carne e ossa: erano effigi, simboli. Era strano, però, rendersi conto di come nonostante i musicisti facessero musica per espandere e diffondere la loro persona, quella stessa musica cominciasse a funzionare solo quando diventava altro dal suo autore, quando anzi lo rinnegava per finire nelle braccia vogliose del primo di passaggio. Non c'era nessuna reale comunicazione tra il musicista e il pubblico: si trattava di pura e semplice appropriazione. In fondo a chi importa che uno sconosciuto, un giorno, sia stato triste per un amore andato a male, o che sia stato al settimo cielo per qualche stupido motivo? A nessuno. A tutti invece interessa il fatto che in una certa canzone ci si ritrovi in tutto e per tutto. Quella canzone potresti averla scritta tu, l'hai scritta tu, è tua. Mentre pensava queste cose l'aria intorno vorticava ed esplodeva in fumose nuvolette di vapori alcolici, un'aria resa frizzante dagli strascichi di cocaina/anfetamina/cannabinolo assunti lungo la nottata. Aveva un po' esagerato, forse, ma il pensiero sembrava uscirli dalla testa piuttosto chiaro. Poteva quasi vederli, i suoi pensieri, come parti cesarei, venir fuori dal suo cranio impomatato.

In fondo chi era lui, per pensare troppo? Tutte le volte che si abbandonava alle sue elucubrazioni mentali, il che solitamente succedeva dopo notti drogate o durante certe mattine in cui non aveva voglia di uscire e se ne stava sul divano con un braccio penzoloni e l'altro intento a reggere una sigaretta e un'altra ancora, be' in quelle occasioni prima si emozionava, poi si vergognava. Si emozionava perché riusciva, anche solo per un attimo, a farsi trasportare altrove: usciva dalla topaia nella quale abitava, dai tafferugli in cui era stato coinvolto qualche giorno prima e che sapeva forieri di conseguenze spiacevoli (querele, polizia, regolamenti di conti, etc.), dalle preoccupazioni riguardo a possibili malattie veneree contratte qua e là. Si vergognava perché lui era, a dirla tutta, un buono a nulla, un pezzettino di carne sputato su questo mondo e qui del tutto intenzionato a farsi avanti a spallate e, pensando, sentiva di fare qualcosa di innaturale, di ridicolo, di inutilmente emotivo. Se pensava si incasinava. In fondo bastava uno sguardo storto di qualche frequentatore di bar notturni o passeggiatore di vicoli zozzi, qualche volta, per scatenarlo. Con gli amici, poi, era irrefrenabile: si arrovellava in continue provocazioni, in risate eccessive, in pacche sulle spalle che sembravano finalizzate all'annientamento. Si placava raramente, a volte si spegneva e stava ore con il mento appoggiato ad un tavolino e lo sguardo fisso su un dettaglio lontano, decomposto in un lento sfocare. Spesso succedeva quando ascoltava certi pezzi rockabilly che sembravano parlargli. E lui ascoltava e -eccolo lì- cominciava a pensare. Poi si vergognava come un verme e giù manate, risate, bicchieri ingollati. L'idea era questa: se avesse pensato troppo prima o poi qualcuno l'avrebbe colto impreparato e glielo avrebbe messo nel culo.
Ascoltava musica allo stesso modo in cui viveva: lascivamente, sfrenatamente, con violenza. Voleva lasciarsi penetrare da quelle chitarre sediziose e da quei ritmi frenetici colmando ogni sua fibra di sostanza sonica, caricandosi ed appassionandosi allo scorrere narrativo -quasi come fosse un film- delle sue canzoni preferite. Era maniacale, musicalmente parlando. Sapeva snocciolare notevoli quantità di informazioni su singoli misteriosi del '56, o su personaggi improbabili associati ad una chitarra o ad un contrabbasso. Era limitato, però: il 1965 era un punto d'arresto inesorabile, oltre il quale tutto si tramutava, prosasticamente, in merda. Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, David Bowie: tutta merda. Non avevano lo stesso spirito, non sembravano bruciare dentro. C'era soltanto il punk che proprio una merda non gli sembrava, ma su questo era prudente e non si esprimeva troppo: in certi periodi amava ascoltare i Cramps e i Gun Club, ma subito tornava ai classici degli anni Cinquanta, ogni volta scoprendo un nuovo pezzo sepolto da decenni. Quel pezzo lo sfoggiava come fa con una pepita un cercatore d'oro e ne era geloso: che nessuno si azzardasse a spacciarlo come farina del proprio sacco. L'aveva scoperto lui, era suo.
-Perché ascolti solo vecchiume? Aggiornati cazzo, ci sono un sacco di band forti in circolazione, gli aveva chiesto un conoscente al bancone.
Per poco non gli era saltato addosso, ma era troppo ubriaco per alzarsi dallo sgabello. -Le band di oggi! Le band di oggi sono tutte... delle fighette! Sì, delle fighette con la faccina di cazzo pulita! Ecco perché non le ascolto. Johnny Burnette non era una fighetta, no bello mio, no. Lui faceva musica che era... una battaglia, cazzo! Sì sì sì, una battaglia...
Come succedeva spesso era il barista a svegliarlo dalle sue pose contorte al bancone. Lui grugniva, si metteva a posto il chiodo in pelle e se ne andava barcollando.

-Tu non sei normale, gli aveva detto una volta una ragazza conosciuta durante una gara di dadi per strada. -Perché, tu sei normale a stare qui a guardarci giocare a dadi?, le aveva risposto. -Non ci ho mai pensato, forse sì, forse no, poco importa. Mi diverto abbastanza.
Le aveva offerto una birra presa dalla ghiacciaia di uno dei suoi, lei aveva accettato annoiata.
- Quindi perché non sarei normale?
- Perché sembra che tu non ci sia mai.
- In che senso?
- Nel senso che, come dire... dai, si vede troppo. Quando urli sembra che non urli tu, ma che sia come... un riflesso condizionato. Quando ti incazzi anche, lo stesso. Come se ti muovesse qualcosa ma non fossi davvero tu a fare tutte quelle cose.
- Certo che non ci vai leggera con le stronzate, bella mia! A me pare di esserci invece. Cazzo, sì! L'altro giorno il pugno di quel merdoso del buttafuori l'ho sentito io, mica qualcun altro.
- Tanto non mi capisci... Ma io dico che non ci sei proprio.
Poco più tardi si allontanarono dal gruppo approfittando di una pausa-pisciata collettiva. Scoparono in macchina più o meno decentemente, ma con foga.
- Dimmi che non c'ero adesso, chiese lui accedendosi una sigaretta.
Lei non rispose, si rimise le mutandine continuando a masticare quella sua gomma che teneva in bocca da ore, disse “allora ciao”, uscì dalla macchina e sparì dalla sua vista.

C'era o non c'era? Lui sentiva bene la propria presenza, sentiva il tessuto sdrucito del sedile sulle cosce, sentiva la plastica del volante e il sangue pulsare nelle dita strette nella presa, sentiva quel dente mal curato che ogni tanto lanciava fitte acute, sentiva la rabbia, la noia, il disprezzo degli altri. Però forse non aveva tutti i torti, la ragazza. A volte era come se non fosse lui a vivere, ma qualcuno dentro il suo corpo che agiva in modo meccanico. Mise in moto e attaccò l'autoradio, lasciandosi dietro un nuvolone di polvere che sembrava quasi un'esternazione, un commento, uno sbuffo. Aveva forse esagerato, qualche volta. Ma chi non esagera? E poi sì, vero, era spesso ubriaco, ma non si sentiva in colpa per questo. Anche la gente intorno a lui beveva, anche gli altri si rotolavano sul pavimento e vomitavano farfugliando stupidaggini e oscenità. Non era diverso da nessuno, forse solo più feroce e con un più spiccato senso estetico.
Si ricordò che non aveva più un soldo. -Cazzo!
Aumentò la velocità, superò la piazzetta in porfido che faceva vibrare rumorosamente l'auto, puntò verso la periferia e si fermò quindici minuti più tardi davanti ad un ufficio postale abbastanza isolato e sfigato da non rappresentare un problema immediato in termine di allarmi, guardie e quant'altro. Sotto il cruscotto c'erano, nascoste in un doppio vano improvvisato, una CZ semiautomatica e un collant da donna. Era agitato, come sempre, ma anche carico. Tirò su un po' di polvere e uscì dalla macchina lasciando la portiera semichiusa. Entrò veloce nel piccolo ufficio postale usato perlopiù dagli anziani del quartiere per ritirare la pensione. Si guardò intorno: due signore sui sessant'anni sedute a chiacchierare tra loro in attesa che l'uomo allo sportello finisse di eseguire qualche pratica, assistito dall'unica operatrice. Prese un bel respiro, si tirò la calza sul viso, tese in aria la pistola e urlò:

QUESTA È UNA RAPINA! FATE I BRAVI E NON SUCCEDE NIENTE! FUORI I SOLDI, CAZZO!!!”.

Uscì pochi minuti dopo ostentando calma di fuori, ma dentro col fiatone e il cuore che andava a mille. In tasca aveva millesettecento euro, una piccola fortuna vista la zona e visti i tempi che correvano. Rimise in moto la macchina e schizzò via. Doveva levarsi subito dai coglioni ed andare in un posto sicuro, almeno fino all'indomani. La musica continuava a forzare le casse da due soldi collegate all'autoradio. Si sentiva in colpa perché questa volta, lì dentro, erano tutti anziani. Si tirò uno schiaffone sulla testa, poi un altro, si accese una sigaretta.
Well, I led an evil life, so they say
But I'll out run the Devil on judgement day, I said
”.
Correre più veloci del diavolo, correre, correre, correre. La macchina sfrecciava. Non andava bene, dare nell'occhio non andava per niente bene. E se il diavolo ce l'ho dentro?, pensava. Ripensò agli istanti nell'ufficio postale. Si ricordava di essere entrato, di aver urlato, di essersi sentito quasi annoiato dalla vista di quella quotidianità spenta, disertata. E poi l'amarezza, perché aveva visto la paura negli occhi delle poche anime presenti. Non si ricordava il resto. Era entrato in macchina come dopo un viaggio incosciente in una dimensione parallela. E se davvero qualcuno, qualcun altro, avesse preso il controllo dei miei gesti? Naaaa, non ci credeva al diavolo. Sarebbe stato troppo facile dare la colpa al diavolo. C'era lui in quell'ufficio postale con quella pistola, anche se non riusciva a ricucire esattamente tutti i tasselli. I soldi sarebbero bastati per un po', era andata bene, non aveva grosse pretese. -Cazzo! Si ricordò di quel debito del giorno prima, quello con il tizio della polvere bianca. Una buona parte del gruzzolo sfumava. Va bene, qualcosa rimane e sto tranquillo per qualche settimana.
E poi cosa farò? Merda... Non riusciva a vedersi nel futuro, non ce la faceva proprio. In questo caso era diverso dai buchi che si allargavano in qualche anfratto del passato. Era diverso, era come una mancanza d'immaginazione, una muta incredulità. Non era mai riuscito a crearsi un'immagine verosimile di lui stesso a quaranta, cinquant'anni. Avrò un figlio? E con chi? No, difficile. Come lo tiro su, io, un figlio? Un lavoro? Boh, di lavoro non ce n'era oggi e non capiva come potesse essercene domani, e d'altra parte le sue occupazioni erano durate poco perché si rompeva il cazzo di fare la stessa identica cosa per più di qualche mese. Poteva tutt'al più immaginare il suo presente allargato, circolare, costante. Era sempre andata così, i giorni si ripetevano, lui era sempre vivo, a volte aveva problemi, altre no. Se la cavava. Dove sarò tra vent'anni? Ecchiccazzosenefrega, corriamo và. Accelerò e schizzo via, poteva vedere in lontananza quel maledetto passaggio a livello in avaria da due settimane. Solo una cosa, però: ne era valsa davvero la pena, quella rapina? Forse no... no, no. Da vecchio non vorrò trovarmi con qualche stronzetto che mi punta la pistola contro, la vecchiaia è quasi una cosa sacra...

Il treno si mangiò quei pensieri appena un istante prima che lui si iniziasse a vergognare. Lo lasciò a metà tra lo stupore e lo schifo. La musica a palla, come ultima volontà. Certo, se avesse potuto tornare indietro su quella terra fatta di stradine puzzolenti, lavori da due soldi, gentaglia che non valeva un soldo, locali bui e ammuffiti e ragazze che dicevano la verità, se avesse potuto ritornare anche solo per pochi minuti (e lo avrebbe fatto molto volentieri), sarebbe certamente andato a cercare quello stronzo di giornalista accorso per scrivere dell'incidente per urlargli in faccia: “stavo ascoltando Gene Vincent, gran coglione che non sei altro!”.
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