I Money come
teatro drammatico personale, come un palco su cui sfoggiare velleità
interpretative altisonanti, intrusive, anche ingombranti. Certo, la
scenografia, fin dal buon “The Shadow of Heaven”, faceva
la sua bella parte, ma sempre con la funzione di inchinarsi alle
esigenze di un Jamie Lee bisognoso di potersi muovere in un
ambiente rarefatto, liquido, impalpabile. Una bella prova per un
complesso rock: rendere la propria musica trasparente eppure
tesa alla declamazione, al crescendo patetico. Una sorta di liturgia
romantica dove trovavano uguale spazio le prestazioni a cappella del
frontman -parti isolate, lasciate ad echeggiare nel vuoto- e le
sonorità moderne di certo art-pop d'ambiente.
Una scommessa
aperta, dunque, che finalmente possiamo valutare alla luce del
tardivo seguito “Suicide Songs”, un lavoro che se da un
lato riesce nell'operazione di sublimare ancor più gli elementi
dell'esordio portando così al limite la tendenza estatica e vaporosa
sopra descritta, dall'altro lascia maggior spazio (ed è un bene) al
songwriting. Quindi sì, una dirompente ma disincantata emozionalità
(un tempo c'era il bisogno dichiarato di essere parte di qualcosa, di
unirsi ad un sentire collettivo più o meno reale, oggi questa
esigenza sembra esser venuta meno: “Standing in the doorway,
laughing, Singing songs to myself”canta Lee in "I'm Not Here", reclamando una gelosa intimità), tesa però a dar
vita ad uno “spectacle
of beauty” più strutturato, volto non ad atterrare
l'ascoltatore (ci penserà agli ascoltatori Lee?), ma ad
elevarlo, piuttosto.
Il trittico iniziale
è pura meraviglia. “I Am the Lord”, immersa in
un'atmosfera psichedelica che mastica ragga indiani alla maniera
britpop dei Kula Shaker, tingendo il tutto con sbuffi
vaporosi che sembrano presi dai Beatles di “Within You
Without You”; “I'm Not Here” -quasi uno strascico
del mood introduttivo- momento corale picchiettato da un piano
attorno cui si sviluppa la linea melodica della chitarra elettrica,
che accompagna un lirismo
dolente ma ispiratissimo; “You Look Like A Sad Painting on Both
Sides of the Sky”, infine, ballata folk acustica
gonfiata progressivamente in un crescendo da camera. La band si
rivela coesa e tutt'altro che subordinata alla presenza del
frontman, e
i brani si concatenano come
vera e propria sequenza di un percorso, come
un flusso.
Così
i pezzi più impalpabili e free (“Night Came”),
si integrano meglio nella
scaletta, ritagliandosi un ruolo scenico
dotato di maggior
peso specifico, legando
perfettamente con gli episodi più pop
del lotto (“Hopeless
World”, che sembra uscita da
un disco dei Waterboys,
“I'll Be the
Night”, ulteriore esempio di
fascinazione folk e
accresciuta stazza
autoriale, “All My Life”,
dove si insinua addirittura una vena gospel, ricordando un
poco i Blur
di “Tender”).
Permane l'approccio
teatrale così come l'egocentrismo di Jamie Lee (che continua
a peccare di eccessivi sbrodolamenti, di tanto in tanto), ma si
rafforza la visione d'insieme, si infittisce la densità della
proposta artistica. E se “The Shadow of Heaven” era il
volo, questo “Suicide Songs” è la caduta. Aspettiamo la
fase dell'elaborazione del lutto (“Not ashamed of what I'm
doing
But I'm ashamed of what I've done”, recita Lee in “All My Life”) e nel frattempo godiamoci lo spettacolo.
But I'm ashamed of what I've done”, recita Lee in “All My Life”) e nel frattempo godiamoci lo spettacolo.
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