Anche nel 2019 non sono mancate le letture. Qui una selezione di quelle che più hanno saputo influire sulla mia prospettiva, aiutandomi a pormi nuove domande e a cercare meglio eventuali risposte.
Difficile riassumere un lavoro complesso e articolato come La distinzione in poche righe. Bourdieu analizza il gusto e i consumi culturali alla luce di una più generale teoria sulla società divisa in classi. La classe è intesa qui come uno spazio multidimensionale che arriva a condizionare le nostre scelte a partire da un livello inconscio, attraverso l'influsso di comportamenti indotti, trasmessi a livello famigliare e utili per orientare le nostre azioni nella società (il concetto di habitus, inteso come una natura sociale, una forma incorporata della condizione di classe e dei suoi condizionamenti), arrivando a strategie più o meno consapevoli di posizionamento nel quadro di una costante e rinnovata lotta di classe. A questo punto il gusto diventa l'espressione del nostro status sociale, che a sua volta si definisce nel rifiuto dei gusti altrui: il gusto è strumento di distinzione, di definizione di sé entro i limiti dello spazio sociale (il fare "di necessità virtù"), di razionalizzazione delle frustrazioni derivanti da un possibile o attuale declassamento. Il gusto pone dei confini netti tra me e chi sta immediatamente sotto di me nella scala sociale, partendo dal gusto per il "pratico" e per il funzionale, al progressivo rifiuto di tutto ciò che rimanda alle condizioni materiali d'esistenza, alle vili "urgenze pratiche" (come nel caso dei gusti disinteressati, esosi e disinvolti dei gruppi dominanti). Tutto ciò viene sviluppato entro i confini amplissimi e articolati di una radiografia dell'essere (e apparire) di classe, tenendo conto dei diversi tipi, pesi e interazioni di capitale che connotano le varie posizioni sociali (capitale economico, sociale, culturale e scolastico), oltre che dell'origine e delle traiettorie nello spazio sociale. Facendo luce sulle logiche profonde delle nostre scelte in una società divisa per gruppi di interesse, Bourdieu sottrae dal più totale arbitrio soggettivistico il mondo delle pratiche culturali, fornendo un tentativo solidissimo di spiegazione del binomio "essere e dover essere" nello spazio sociale. Un lavoro che costringe a mettersi seriamente in discussione, imponendo una decostruzione di comportamenti dati per scontati e autenticamente personali, inquadrandoli invece in un fitto coacervo di influenze famigliari e sociali.
Una breve ma densa dissertazione dove la cultura è vista nelle sue molteplici accezioni e entro il rapporto fondamentale "natura/cultura", nel tentativo di depurare il concetto da ogni riduzionismo e determinismo e di superare una visione troppo estensiva, secondo cui tutto quanto prodotto dall'uomo è culturale ("affermare che siamo interamente creature culturali da una parte assolutizza la cultura, dall'altra relativizza il mondo"). La cultura come civiltà, poi come critica romantica al capitalismo, poi ancora come modo e modi di vita, in un viaggio che arriva fino al relativismo culturale e alla politica dell'identità postmoderna, con le sue mille contraddizioni. Una nota importante che si trae dal lungo e ininterrotto flusso di Eagleton è che la cultura (quando non è intesa come Civiltà, o come Cultura alta) è storicamente quella degli altri: "definire cultura il proprio mondo significa rischiare di relativizzarlo", dunque di farne uno dei tanti modi di vita possibili, mentre invece "sono gli altri ad essere etnici, incompatibili, caratteristici culturalmente". Per questo verrebbe da dire che il passaggio postmoderno alla priorità del discorso culturale, porta con sé la vittoria di una visione relativizzante e quindi appiattente, che mette sullo stesso piano - separandole - le varie forme di esistenza, aprendo così il campo all'azione livellatrice, ideologicamente neutrale e pluralistica, delle forze del mercato. Non solo: il discorso culturalista pone l'accento su divisioni che, in fondo, sono forzate e minano ogni progetto universalista di emancipazione e di immedesimazione con l'altro. Dice Eagleton: "non esiste qualcosa come le peculiarità locali. Ogni luogo è permeabile e indefinito, sovrapposto ad altri contesti simili, tradisce una rassomiglianza familiare con situazioni apparentemente distanti, e sfuma ambiguamente ne loro dintorni ugualmente sfumati". Le differenze culturali impongono dunque degli steccati ("se la politica unifica, la cultura diversifica") che inibiscono la comprensione dell'altro, a meno di non essere parte di quella cosa esclusiva e incommensurabile che è la sua cultura. Mentre invece: "la comprensione non è una forma di immedesimazione. Il fatto di non essere mai stato ridotto in schiavitù non m'impedisce d'immedesimarmi in uno schiavo, e mi è possibile apprezzare le sofferenze dovute al fatto di essere una donna anche se non sono una donna. Credere questo significa commettere un errore crudamente romantico sulla natura della comprensione". Ecco che cultura diventa un tutt'uno con identità, e la definizione di sé passa per un individualismo che dimentica l'astrazione di genere, l'umano, per concentrarsi su definizioni mutualmente esclusive e totalizzanti (pur essendo, in realtà, permeabili, indeterminate, contraddittorie, non esaustive). Come se l'essere gay piuttosto che eterosessuale, religioso piuttosto che ateo, donna piuttosto che uomo, rappresentasse l'elemento distintivo dell'identità della persona, un mondo chiuso e dominato da leggi ferree, un'ermeneutica incomunicabile e intraducibile a chi non rientra nell'arbitraria e stringente catalogazione culturale di volta in volta scelta come caratterizzante. La connessione tra individuale e universale cessa di esistere a favore di molteplici individui nevroticamente alla ricerca della migliore definizione di se stessi, e la cultura diventa identità collettiva "difensiva", escludente, connessa con una politica sempre più aggressiva e tesa alla tutela di culture minacciate da altre.
Andare oltre la cultura senza ripudiare il fatto che essa sia "nella nostra natura", significa "rimetterla al suo posto": da una parte tornando a riflettere sul fatto che buona parte dei problemi che ci troviamo ad affrontare non sono esclusivamente culturali, ma hanno a che fare con i bisogni, con i fatti; dall'altro che un problema culturale diventa politico quando è inserito in un conflitto, e la depoliticizzazione di quel problema dovrebbe essere il vero obiettivo di una "politica della cultura". Una depoliticizzazione che, però, richiede una forte politicizzazione (per quanto non in senso culturalista, ma di emancipazione umana): "solo attraverso una democrazia pienamente partecipativa, una democrazia che regolasse anche la produzione materiale, si potrebbero aprire completamente i canali per dare espressione a questa diversità culturale".
David Sloan Wilson - L'altruismo (Bollati Boringhieri, 2015)
Biologo e antropologo, Wilson apre qui alla divulgazione le sue ricerche sulla selezione inter-gruppo e sull'evoluzione multi-livello. In sostanza, l'analisi parte dalla constatazione che la strategia altruistica, in una selezione evolutiva, avrebbe la tendenza a scomparire, visto che impone dei costi nella fitness relativa che, rispetto alle strategie egoistiche, risulterebbero svantaggiosi e dunque destinati a non riprodursi. Eppure l'altruismo e la cooperazione sono parte costitutiva della specie umana e animale e non sembrano essere destinati a scomparire: "Se per altruismo intendiamo quei tratti che evolvono perché apportano un beneficio a un gruppo intero pur essendo svantaggiosi sul piano della selezione all'interno del gruppo, allora non ci sono dubbi: l'altruismo esiste ed è responsabile dell'organizzazione funzionale a livello di gruppo che osserviamo in natura". La visione di Wilson parte quindi dal concetto di organizzazione funzionale di gruppo, cioè quell'organizzazione che permette al gruppo di prendere delle decisioni collettive. Grazie agli studi del premio Nobel Elinor Ostrom, il mito della tragedia dei commons pare sfatato: i gruppi umani, entro certe condizioni, sono in grado di gestire i beni comuni senza distruggerli. Al centro del discorso di Wilson, allora, sono le condizioni responsabili del buon esito delle dinamiche cooperative in una società. Per questo l'idea di selezione multilivello è centrale: se immaginiamo un esercito composto da soli soldati egoisti, quell'esercito sarà destinato ad essere sconfitto. Se però consideriamo due eserciti a confronto, quello con più altruisti, disposti a sacrificarsi, sarà premiato, permettendo così una superiorità evolutiva dell'intero gruppo, per quanto saranno probabilmente i più altruisti a cadere per primi. Le società umane saranno dunque favorite dalla diffusione di logiche selettive inter-gruppo rispetto a quelle intra-gruppo: si tratta a questo punto di capire come promuovere, anche nel design istituzionale, gli incentivi all'altruismo, alla cooperazione e all'organizzazione funzionale di gruppo. Le società non possono funzionare bene basandosi sull'egoismo, per quanto non sia per forza necessario che le persone pensino in modo altruistico (non si tratta di modificare una presunta natura umana, o di cambiare i sentimenti delle persone): "Tutte le società che funzionano bene hanno bisogno di meccanismi che coordinino le azioni e impediscano lo sfruttamento dall'interno. Si tratta di meccanismi altruistici o egoistici, in termini di pensieri o sentimenti? Non importa, purché facciano il loro lavoro in termini di azioni". Quello che occorre, quindi, è una "pianificazione volontaria", soprattutto in vista dei grandi problemi globali (uno su tutti il cambiamento climatico), che richiedono un coordinamento su larga scala: "è necessaria una struttura che coordini le azioni e impedisca l'insorgere dello sfruttamento dall'interno. Se si vuole che la struttura funzioni su scala globale, il criterio di selezione dovrà essere il benessere su scala globale".
Biologo e antropologo, Wilson apre qui alla divulgazione le sue ricerche sulla selezione inter-gruppo e sull'evoluzione multi-livello. In sostanza, l'analisi parte dalla constatazione che la strategia altruistica, in una selezione evolutiva, avrebbe la tendenza a scomparire, visto che impone dei costi nella fitness relativa che, rispetto alle strategie egoistiche, risulterebbero svantaggiosi e dunque destinati a non riprodursi. Eppure l'altruismo e la cooperazione sono parte costitutiva della specie umana e animale e non sembrano essere destinati a scomparire: "Se per altruismo intendiamo quei tratti che evolvono perché apportano un beneficio a un gruppo intero pur essendo svantaggiosi sul piano della selezione all'interno del gruppo, allora non ci sono dubbi: l'altruismo esiste ed è responsabile dell'organizzazione funzionale a livello di gruppo che osserviamo in natura". La visione di Wilson parte quindi dal concetto di organizzazione funzionale di gruppo, cioè quell'organizzazione che permette al gruppo di prendere delle decisioni collettive. Grazie agli studi del premio Nobel Elinor Ostrom, il mito della tragedia dei commons pare sfatato: i gruppi umani, entro certe condizioni, sono in grado di gestire i beni comuni senza distruggerli. Al centro del discorso di Wilson, allora, sono le condizioni responsabili del buon esito delle dinamiche cooperative in una società. Per questo l'idea di selezione multilivello è centrale: se immaginiamo un esercito composto da soli soldati egoisti, quell'esercito sarà destinato ad essere sconfitto. Se però consideriamo due eserciti a confronto, quello con più altruisti, disposti a sacrificarsi, sarà premiato, permettendo così una superiorità evolutiva dell'intero gruppo, per quanto saranno probabilmente i più altruisti a cadere per primi. Le società umane saranno dunque favorite dalla diffusione di logiche selettive inter-gruppo rispetto a quelle intra-gruppo: si tratta a questo punto di capire come promuovere, anche nel design istituzionale, gli incentivi all'altruismo, alla cooperazione e all'organizzazione funzionale di gruppo. Le società non possono funzionare bene basandosi sull'egoismo, per quanto non sia per forza necessario che le persone pensino in modo altruistico (non si tratta di modificare una presunta natura umana, o di cambiare i sentimenti delle persone): "Tutte le società che funzionano bene hanno bisogno di meccanismi che coordinino le azioni e impediscano lo sfruttamento dall'interno. Si tratta di meccanismi altruistici o egoistici, in termini di pensieri o sentimenti? Non importa, purché facciano il loro lavoro in termini di azioni". Quello che occorre, quindi, è una "pianificazione volontaria", soprattutto in vista dei grandi problemi globali (uno su tutti il cambiamento climatico), che richiedono un coordinamento su larga scala: "è necessaria una struttura che coordini le azioni e impedisca l'insorgere dello sfruttamento dall'interno. Se si vuole che la struttura funzioni su scala globale, il criterio di selezione dovrà essere il benessere su scala globale".
Dylan Riley - The Civic Foundations of Fascism in Europe (Verso, 2019)
Attraverso lo studio degli sviluppi del fascismo in Italia, Spagna e Romania, Riley da' credito all'ipotesi che il fascismo non sia nato dall'apatia civica e dallo scarso sviluppo della società civile: anzi, in tutti i paesi analizzati la vitalità politica e sociale era altissima, e le rivendicazioni dei movimenti fascisti erano dirette verso l'allargamento della rappresentanza, seppur in ottica anti-liberale, e della partecipazione politica dei nuovi strati sociali che non trovavano voce nei sistemi politici presi in analisi. Il fascismo, dunque, non come movimento antidemocratico, ma come forma di "democrazia autoritaria" e illiberale, basata sulla partecipazione di massa (realizzata nell'integrazione totale nelle strutture del partito-stato) e sull'organizzazione corporativa degli interessi di gruppo. Le analogie con l'attuale era dei populismi è preoccupante, per quanto oggi manchino i corpi di intermediazione (sindacati, cooperative, leghe, società di mutuo soccorso) presentissimi invece nei paesi in cui vinsero i fascismi: le richieste di rappresentanza di fronte a élite politiche del tutto distaccate dagli interessi materiali degli strati popolari e medi (e incapaci di formare una stabile alleanza egemonica tra diversi gruppi sociali), unito a un rifiuto delle autorità costituite, rappresentano un contesto di crisi organica e di legittimità che può avere delle analogie con il passato. L'antipolitica del movimento fascista italiano degli esordi e il suo appello a forme di partecipazione non elettorale e non politica non possono che far venire in mente il Movimento 5 Stelle, e più in generale il sentimento anti-politico che domina le forme di protesta contemporanea. L'insegnamento generale da trarre dal libro di Riley è che in una situazione di crisi politica in cui allo sviluppo della società civile non corrisponda un tentativo egemonico da parte dei gruppi dominanti ( e di conseguenza contro-egemonico da parte di quelli dominati), e in cui politica e società non siano connesse da un qualche progetto condiviso, genera spazio fertile per opzioni insidiose e autoritarie derivanti da un conflitto sociale che non viene politicizzato adeguatamente, che non viene canalizzato nell'ottica di un interesse generale condiviso.
Attraverso lo studio degli sviluppi del fascismo in Italia, Spagna e Romania, Riley da' credito all'ipotesi che il fascismo non sia nato dall'apatia civica e dallo scarso sviluppo della società civile: anzi, in tutti i paesi analizzati la vitalità politica e sociale era altissima, e le rivendicazioni dei movimenti fascisti erano dirette verso l'allargamento della rappresentanza, seppur in ottica anti-liberale, e della partecipazione politica dei nuovi strati sociali che non trovavano voce nei sistemi politici presi in analisi. Il fascismo, dunque, non come movimento antidemocratico, ma come forma di "democrazia autoritaria" e illiberale, basata sulla partecipazione di massa (realizzata nell'integrazione totale nelle strutture del partito-stato) e sull'organizzazione corporativa degli interessi di gruppo. Le analogie con l'attuale era dei populismi è preoccupante, per quanto oggi manchino i corpi di intermediazione (sindacati, cooperative, leghe, società di mutuo soccorso) presentissimi invece nei paesi in cui vinsero i fascismi: le richieste di rappresentanza di fronte a élite politiche del tutto distaccate dagli interessi materiali degli strati popolari e medi (e incapaci di formare una stabile alleanza egemonica tra diversi gruppi sociali), unito a un rifiuto delle autorità costituite, rappresentano un contesto di crisi organica e di legittimità che può avere delle analogie con il passato. L'antipolitica del movimento fascista italiano degli esordi e il suo appello a forme di partecipazione non elettorale e non politica non possono che far venire in mente il Movimento 5 Stelle, e più in generale il sentimento anti-politico che domina le forme di protesta contemporanea. L'insegnamento generale da trarre dal libro di Riley è che in una situazione di crisi politica in cui allo sviluppo della società civile non corrisponda un tentativo egemonico da parte dei gruppi dominanti ( e di conseguenza contro-egemonico da parte di quelli dominati), e in cui politica e società non siano connesse da un qualche progetto condiviso, genera spazio fertile per opzioni insidiose e autoritarie derivanti da un conflitto sociale che non viene politicizzato adeguatamente, che non viene canalizzato nell'ottica di un interesse generale condiviso.
Quanto poco conosciamo del mondo in cui viviamo? Questa è la domanda fondamentale che ha fatto scattare la molla della curiosità al giornalista di viaggi Bill Bryson: una curiosità totalizzante, che lo ha tenuto impegnato in approfondimenti e studi durati anni, per arrivare infine a una brillante opera di divulgazione scientifica capace di coprire (senza alcune pretesa di esaustività) i principali sentieri della conoscenza scientifica. Si parla di scoperta del cosmo, di fisica, di geologia, di storia dell'uomo e di scienze naturali. Se ne parla a partire dalle personalità (spesso eccentriche) di scienziati che hanno sacrificato le loro vite lavorando su aspetti iper-specialistici, conoscendo gloria solo postuma o, nel peggiore dei casi, finendo nel dimenticatoio. La conclusione, spiazzante, è che sappiamo ancora pochissimo su qualsiasi cosa. Il cammino però non si arresta: c'è tutto un mondo da conoscere, il difficile è scegliere da dove cominciare.
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