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Recensione ► Francesca Michielin: "2640" (Sony, 2018)

francesca michielin 2640 album 2018
Perché quando si parla di mainstream, in Italia, non si parla mai di musica? Leggendo le varie interviste rilasciate dalla Michielin in giro per il web è difficile, se non difficilissimo, trovare domande riguardanti la materia prima di cui ci si dovrebbe occupare parlando di album, canzoni, suoni. Insomma, sappiamo che Francesca Michielin è andata in Bolivia e da questa esperienza ha tratto buona parte dell’ispirazione per il suo “2640”, sappiamo che ha coinvolto personaggi legati all’ondata italo indie degli ultimi anni (Calcutta, Tommaso Paradiso, Cosmo), ma che ha curato personalmente, coadiuvata dal produttore Michele Canova e dall’autore Dario Faini, la maggior parte dei brani. Sappiamo tante cose (la simbologia in copertina, l’impegno politico e sociale, la passione per la Formula 1), ma la curiosità sul come e perché di certi suoni, sulle fonti di ispirazione, sulle opinioni riguardo alla scena italiana, sulle peculiarità italiche dell’incontro tra indie e mainstream, sulla (dubbia) validità dei talent come strumenti di reclutamento e di svecchiamento della proposta… Niente. Sappiamo, in sordina, che forse Lorde è un punto di contatto con una scena internazionale che, qui, si sente parecchio. Abbiamo poi un rapido accenno a Bat For Lashes relativamente a “Lava”. Poco altro.
Il punto è che sento, in questo “2640”, qualcosa che raramente mi è capitato di trovare (nonostante la mia scarsa frequentazione di certi territori, lo ammetto) nel pop italiano degli ultimi anni: molto lavoro sulle tessiture e sugli sviluppi strumentali, articolati e creativi, capaci di parlare linguaggi sommessi ma netti, di rivendicare un ruolo autonomo e strutturante, non solo di accompagnamento e di rafforzo del bel canto, in grado quindi di reggere una posizione di pieno equilibrio con le liriche (che hanno qualcosa di “storto” che sembra stridere, quando invece rompe semplicemente qualche schema consolidato). Qui sento, in poche parole, quello che l’indie italiano non è riuscito a fare, cioè lavorare a un’espressività musicale che non si accontenti del testo come unico perno della composizione, o che non scimmiotti le sonorità più alla moda per risultare cool.

Si prenda la prima “Comunicare”, ottima apertura dove gli accordi di piano sono lasciati ad echeggiare in un ambiente denso dove, accanto ai corposi beat hip hop, si snodano nugoli di campionamenti vocali, fino all’orecchiabilissimo ritornello rinforzato da un synth che si insinua leggero, in controluce, per un impianto sonoro vicino (con le dovute proporzioni) a una Solange, o più in generale all’r&b contemporaneo americano. Il lavoro sulle texture è evidente in brani come “Bolivia”, che mette assieme frammenti di trap, chitarre traslucide di derivazione indie, oltre alla solita produzione rifinitissima che riempe lo spettro sonoro inanellando uno dopo l’altro gli elementi che, pian piano, contribuiscono a un soundscape compatto ma non appiattito, dove ogni elemento è valorizzato a dovere in una visione d’insieme. Ogni brano ha il suo stampo: gli arpeggi di synth di “Noleggiami ancora un film” (con quel loop vocale che aggiunge delicatezza all’ispessimento elettronico del refrain), la ritmica etno condita da dense linee di basso wobble di “Bolivia”, il flusso in continua trasformazione della ballatona “Scusa se non ho gli occhi azzurri” (dove a partire da metà brano diventano dominanti gli elementi che prima erano relegati sullo fondo, dalle tastiere alle chitarre). Non tutto, però luccica, visti diversi angoli ancora da smussare, tra cui l'immaginario un tantino stereotipato che si nutre di un non troppo credibile effetto nostalgia da millennials, e il mancato affrancamento dal formato canzone X Factor, troppo presente in brani per me insipidi come “E se c’era...”, “La Serie B” e “Alonso”, che indeboliscono la tracklist allentando la carica innovativa dell’album.


Un pezzo bellissimo come “Io non abito al mare” regala però grandi speranze, perché riesce a integrare alla perfezione le tendenze pop italiane (smontandone intelligentemente la retorica con un testo – scritto assieme a Calcutta – inusuale e piacevolmente sbarazzino) e la ricerca sonora di un sottobosco di effetti elettronici che formicolano e si infittiscono sullo sfondo sospinti dalle tessiture ariose delle tastiere, per un crescendo di grande impatto evocativo.


Insomma, quando si fanno ingranare lo sforzo congiunto di autorialità pseudo-indie, produzione certosina e scrittura a base di moduli espansi electro/r&b, la Michielin appare come un unicum nel panorama nazionale. Puntare su questo strada (senza cedere alla banalizzazione danzereccia o alle derive melodico-cantautorali) potrebbe portare a risultati davvero inattesi.

Recensione tratta da Storiadellamusica.it
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