Il mese di ottobre si porta appresso una serie di album per me importantissimi, indispensabili per la definizione dei miei gusti e della mia sensibilità musicale. Si passa dalle fantasie noise dei Sonic Youth alla raffinatezza alternative dei Placebo, fino alle cime raggiunte dall'indie del decennio scorso grazie ai Deerhunter. Nonostante i dischi trascurati, questa volta la scelta è stata più semplice che mai: al cuor non si comanda. Buon ascolto!
► 1968
Dopo un primo lavoro interamente votato a una sperimentazione psichedelica in sgargiante technicolor, il trio Winwood/Capaldi/Mason, sempre guidato dal produttore Jimmy Miller, dava alle stampe un sophomore più centrato e denso rispetto alle spinte centrifughe del primo "Mr. Fantasy", seppur ugualmente ricco nella resa sonora e nelle rotondità di un songwriting compatto, dotato della compostezza dei grandi classici (basti, a titolo esemplificativo, l'elegante ballata pianistica "No Time to Live").
A partire dalla prima "You Can All Jon In", irresistibile mistura di acid blues, folk-rock e arrangiamenti jazz antesignani dell'approccio che avrebbe dominato da lì a poco in quel di Canterbury, si infilano uno dopo l'altro pezzi senza sbavature, valorizzati da una produzione spaziosa e avvolgente (si prenda il blues acido e heavy di "Pearly Queen", o le spire di armonica, organetto e sax della ballad "Don't Be Sad"), senza rinunciare all'estro dell'episodio precedente, (come dimostrano il soul saltellante di "Who Knows What Tomorrow May Bring" o il tenue folk psichedelico e esotico di "Vagabond Virgin").
Le varie tendenze che i diversi componenti della band volevano imprimere al progetto Traffic convergono squisitamente in un unico, ottimo crocevia sonoro, per una formula già proiettata verso gli anni Settanta alle porte.
► 1978
Toto - Toto (Columbia)
Prendete symphonic prog e hard rock, concentrateli in un agevole formato radiofonico pop, ed ecco che avrete i Toto. Parlare oggi di Aor potrebbe sembrare un'eresia, ma è indubbio il ruolo del genere nel plasmare un sound ancora capace di fornire piacevoli spunti (pensiamo ai Crying del 2016, ma anche, meno esplicitamente, a band come Jimmy Eat World).
L'esordio dei Toto è quindi un elegante ed efficace concentrato di tutte le principali tendenze del rock anni Settanta, debitamente frullate in un propulsivo mix radio friendly ad elevata carica melodica, per brani capaci di mutare continuamente, risultando freschissimi pot-pourri multigenere. Ci sono le cavalcate pompose in aria prog ("Child's Anthem"), le sofisticate inflessioni jazz e funky degli Steely Dan ("Georgy Porgy", "You Are the Flower"), un hard rock ammorbidito a dovere ("Hold the Line"), un blue eyed soul in aria disco ("Girl Goodbye"), oltre a piccole chicche a metà tra un Billy Joel e il power pop più scanzonato ("Rockmaker") e melense ballate romantiche antesignane del sophisti-pop del decennio successivo ("Takin' It Back").
Da riscoprire, superando eventuali pregiudizi immotivati.
Prendete symphonic prog e hard rock, concentrateli in un agevole formato radiofonico pop, ed ecco che avrete i Toto. Parlare oggi di Aor potrebbe sembrare un'eresia, ma è indubbio il ruolo del genere nel plasmare un sound ancora capace di fornire piacevoli spunti (pensiamo ai Crying del 2016, ma anche, meno esplicitamente, a band come Jimmy Eat World).
L'esordio dei Toto è quindi un elegante ed efficace concentrato di tutte le principali tendenze del rock anni Settanta, debitamente frullate in un propulsivo mix radio friendly ad elevata carica melodica, per brani capaci di mutare continuamente, risultando freschissimi pot-pourri multigenere. Ci sono le cavalcate pompose in aria prog ("Child's Anthem"), le sofisticate inflessioni jazz e funky degli Steely Dan ("Georgy Porgy", "You Are the Flower"), un hard rock ammorbidito a dovere ("Hold the Line"), un blue eyed soul in aria disco ("Girl Goodbye"), oltre a piccole chicche a metà tra un Billy Joel e il power pop più scanzonato ("Rockmaker") e melense ballate romantiche antesignane del sophisti-pop del decennio successivo ("Takin' It Back").
Da riscoprire, superando eventuali pregiudizi immotivati.
► 1988
Quello che mi ha sempre impressionato e ammaliato del sesto lavoro della band newyorkese è la sua incredibile porosità: nonostante i pezzi abbiano la forza di blocchi compatti, c'è una grande quantità di spazio tra le trame strumentali, tra le fantastiche dinamiche noise messe in campo dalla band. Non è solo una questione di composizione, non si tratta semplicemente dell'alternanza tra tirate furiose e momenti più dilatati, ma è la sostanza stessa di cui è fatto il suono (come suonano e riverberano le chitarre sfibrate di Ranaldo e Moore, come borbotta e vibra il basso, come sfumano i rumori in sottofondo) a farsi portatrice di questa proprietà. Quel suono, quel continuo porsi su un fragile crinale a metà tra lo sfumato tremolante e la bomba incendiaria, connota e valorizza la carica di "Daydream Nation" conferendole proprietà destabilizzanti, sfaccettature in continua collisione creativa.
L'intro spaziosa di "Teenage Riot", ornata dai vocalizzi eterei di Kim Gordon, è già indice di questa compiuta transizione verso la maturità, raggiungendo il primo apice con l'attacco delle chitarre e la conseguente accelerazione ritmica, per una cavalcata irresistibile dalla compiutezza melodica e armonica mai raggiunta prima. Il piglio è urbano, fiero, seppure macchiato da uno spleen masticato a denti stretti. E le chitarre non smettono per un attimo di ingarbugliarsi, creare correnti incrociate, generare matasse informi ma risolute nel contribuire a dare direzionalità allo svolgimento apparentemente caotico delle composizioni. Lo stesso trasporto estatico imbeve il punk scalmanato di "Silver Rocket", la propulsione solenne di "'Cross the Breeze", la psichedelia incasinata di "Eric's Trip", senza tralasciare le iconiche gemme indie "Total Trash" e "Candle", fino alla monumentale conclusione di "Trilogy".
Tra i dischi della vita: una celebrazione totale di maestosità e rumore.
► 1998
Placebo - Without You I'm Nothing (Virgin)
Quante cose convivono in un disco dei Placebo, e in particolare in questo loro secondo lavoro? In fondo, pensandoci, i tre londinesi non erano affatto un prototipo alternative rock anni Novanta: non abbastanza sciovinisti e modaioli per entrare nel calderone britpop, né grunge né post, e nemmeno indie. Erano piuttosto un mix di glam, new wave, noise, spleen adolescenziale e rumore nevrotico, come se dei Sonic Youth un poco più sfigati avessero flirtato con dei Radiohead meno intellettuali. Eppure suonavano fin da subito come un classico, come un naturale dispiegamento dello spirito dei tempi, tanto da passare per "scontati" (il Telegraph usava il termine "convenzionale" per alcuni dei loro brani) vista la loro capacità di bucare lo schermo, di impregnare gli spazi tv e i grandi palchi (il tour con gli U2 del 1997), di essere iconici e al contempo (sospiro di sollievo) un tantino anonimi.
Con il loro secondo lavoro Brian Molko, Stefan Olsdal e il nuovo batterista Steve Hewitt tiravano dritto lungo la direzione tratteggiata dal predecessore, mettendo maggiormente a fuoco la visione e la produzione, forgiando un classico senza tempo, una tempesta di ormoni e angoscia generazionale, di nevrosi prestate a una squisita favella pop, incredibilmente ispirata e catartica. Per quanto "Pure Morning" sia senza dubbio il brano più noto della band, la sua è una presenza destabilizzante: il freddo e meccanico rintoccare della chitarra e il battito industrial di Hewitt rappresentano una sorta di bellissima falsa partenza. L'album infatti, a partire dalla seconda "Brick Shithouse", assume sembianze meno alienate e sospese, alternando fenomenali tirate rock ("You Don't Care About Us", "Allergic (To Thoughts of Mother Earth)", "Every You Every Me", "Scared of Girls") a raffinatissime ballate che, se isolate dalla tracklist, diventerebbero la raccolta più struggente di sempre (le sognanti "Ask for Answers" e "My Sweet Prince", la maestosa - da brividi - "Without You I'm Nothing", la lenta e sinuosa "Burger Queen", capolavoro nel capolavoro).
"It's definitely a strange record. - diceva Brian Molko a NME - It's either very fierce or very down. I think it might confuse people just because it's so incredibly schizophrenic. There's maybe only two songs that have the same vibe to them. It's also a record of extremes, because when it's down it's really down."
Ecco, da goderseli tutti fino in fondo gli estremi alti e bassi di "Without You I'm Nothing", senza sconti.
Quante cose convivono in un disco dei Placebo, e in particolare in questo loro secondo lavoro? In fondo, pensandoci, i tre londinesi non erano affatto un prototipo alternative rock anni Novanta: non abbastanza sciovinisti e modaioli per entrare nel calderone britpop, né grunge né post, e nemmeno indie. Erano piuttosto un mix di glam, new wave, noise, spleen adolescenziale e rumore nevrotico, come se dei Sonic Youth un poco più sfigati avessero flirtato con dei Radiohead meno intellettuali. Eppure suonavano fin da subito come un classico, come un naturale dispiegamento dello spirito dei tempi, tanto da passare per "scontati" (il Telegraph usava il termine "convenzionale" per alcuni dei loro brani) vista la loro capacità di bucare lo schermo, di impregnare gli spazi tv e i grandi palchi (il tour con gli U2 del 1997), di essere iconici e al contempo (sospiro di sollievo) un tantino anonimi.
Con il loro secondo lavoro Brian Molko, Stefan Olsdal e il nuovo batterista Steve Hewitt tiravano dritto lungo la direzione tratteggiata dal predecessore, mettendo maggiormente a fuoco la visione e la produzione, forgiando un classico senza tempo, una tempesta di ormoni e angoscia generazionale, di nevrosi prestate a una squisita favella pop, incredibilmente ispirata e catartica. Per quanto "Pure Morning" sia senza dubbio il brano più noto della band, la sua è una presenza destabilizzante: il freddo e meccanico rintoccare della chitarra e il battito industrial di Hewitt rappresentano una sorta di bellissima falsa partenza. L'album infatti, a partire dalla seconda "Brick Shithouse", assume sembianze meno alienate e sospese, alternando fenomenali tirate rock ("You Don't Care About Us", "Allergic (To Thoughts of Mother Earth)", "Every You Every Me", "Scared of Girls") a raffinatissime ballate che, se isolate dalla tracklist, diventerebbero la raccolta più struggente di sempre (le sognanti "Ask for Answers" e "My Sweet Prince", la maestosa - da brividi - "Without You I'm Nothing", la lenta e sinuosa "Burger Queen", capolavoro nel capolavoro).
"It's definitely a strange record. - diceva Brian Molko a NME - It's either very fierce or very down. I think it might confuse people just because it's so incredibly schizophrenic. There's maybe only two songs that have the same vibe to them. It's also a record of extremes, because when it's down it's really down."
Ecco, da goderseli tutti fino in fondo gli estremi alti e bassi di "Without You I'm Nothing", senza sconti.
► 2008
Deerhunter - Microcastle / Weird Era Continued (4AD)
Ok, l'album è di fatto uscito ad agosto, ma per errore: messo a disposizione su iTunes dopo l'imprevista diffusione sulla rete, Bradley Cox e soci decidono che il formato fisico, previsto per ottobre, sarebbe stato licenziato come doppio, tirando fuori dal cappello un secondo capitolo di inediti.
Tra le tante band indie del decennio passato, i Deerhunter sono stati capaci di dare concretezza a una formula weird/dream che, nel capitolo precedente, era ancora ben lungi dal funzionare, forgiando finalmente un suono convincente e fornendo - assieme ad altri - le coordinate sonore per il passaggio al decennio successivo. Per questo "Microcastle" è una fucina di spunti inesauribile, dove il dream pop più etereo e cantilenante ("Agoraphobia") incontra shoegaze e post-punk ("Never Stops" e la splendida "Nothing Ever Happened"), psichedelia aerea e sghemba ("Little Kids", "Neither of Us, Uncertainly") e sperimentazione d'ambiente ("Microcastle" e la sua impennata finale, le rarefatte "Green Jacket" e "Activa"), il tutto saldato da un'irresistibile messa a fuoco pop.
Merito sicuramente della scrittura di Bradford Cox, connesso ad una lunga tradizione pop, ma anche a una squadra affiatata, capace di dare consistenza alle idee dell'ingombrante frontman (in grado peraltro di reggere la prova solista con i lavori a nome Atlas Sound). La visione di Cox è chiara, ponderata, i riferimenti sono chiari, da vero appassionato musicofilo, tra Animal Collective, Panda Bear, My Bloody Valentine, contemporaneità e storia ("I wanted it to be a spooky, 60s kind of actually I was way more into the 50s when I first started conceptualizing it. - raccontava a Exclaim - Another influence was some new wave stuff, Television was a big influence on the guitar work. A huge influence on this album was the Wipers").
Il secondo album rappresenta un ottimo compendio per approfondire la vena sperimentale della band, tra jam drogate e fantasie psych pop. Un album che suona ancora freschissimo e che, raggiunti brillantemente i dieci anni di età, dimostra tutte le qualità di un vero classico capace di durare nel tempo.
Ok, l'album è di fatto uscito ad agosto, ma per errore: messo a disposizione su iTunes dopo l'imprevista diffusione sulla rete, Bradley Cox e soci decidono che il formato fisico, previsto per ottobre, sarebbe stato licenziato come doppio, tirando fuori dal cappello un secondo capitolo di inediti.
Tra le tante band indie del decennio passato, i Deerhunter sono stati capaci di dare concretezza a una formula weird/dream che, nel capitolo precedente, era ancora ben lungi dal funzionare, forgiando finalmente un suono convincente e fornendo - assieme ad altri - le coordinate sonore per il passaggio al decennio successivo. Per questo "Microcastle" è una fucina di spunti inesauribile, dove il dream pop più etereo e cantilenante ("Agoraphobia") incontra shoegaze e post-punk ("Never Stops" e la splendida "Nothing Ever Happened"), psichedelia aerea e sghemba ("Little Kids", "Neither of Us, Uncertainly") e sperimentazione d'ambiente ("Microcastle" e la sua impennata finale, le rarefatte "Green Jacket" e "Activa"), il tutto saldato da un'irresistibile messa a fuoco pop.
Merito sicuramente della scrittura di Bradford Cox, connesso ad una lunga tradizione pop, ma anche a una squadra affiatata, capace di dare consistenza alle idee dell'ingombrante frontman (in grado peraltro di reggere la prova solista con i lavori a nome Atlas Sound). La visione di Cox è chiara, ponderata, i riferimenti sono chiari, da vero appassionato musicofilo, tra Animal Collective, Panda Bear, My Bloody Valentine, contemporaneità e storia ("I wanted it to be a spooky, 60s kind of actually I was way more into the 50s when I first started conceptualizing it. - raccontava a Exclaim - Another influence was some new wave stuff, Television was a big influence on the guitar work. A huge influence on this album was the Wipers").
Il secondo album rappresenta un ottimo compendio per approfondire la vena sperimentale della band, tra jam drogate e fantasie psych pop. Un album che suona ancora freschissimo e che, raggiunti brillantemente i dieci anni di età, dimostra tutte le qualità di un vero classico capace di durare nel tempo.
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