Dovette sembrare un'operazione reazionaria, nell'effervescente panorama musicale dei primi anni '80, veder spuntare gruppi come i Green On Red. Un po' meno reazionaria sembrò forse l'uscita di "The Days of Wine and Roses" dei colleghi Dream Syndicate, più legati a certe innovazioni stilistiche e a movenze direttamente collegate alla new wave e al post-punk.
I Green On Red invece pescavano dal roots più puro, da quel “americana” desertico e parodisticamente redneck, seppur accelerato e modernizzato, condizionato dall'impossibilità di sfuggire totalmente dalle sonorità della nuova onda e colorato da un disinvolto e aggraziato approccio "flower power".
La storia del sottogenere paisley underground investe però in pieno il discorso del rapporto tra elementi conservatori e progressisti nella musica pop. D'altronde pochi anni prima i punk avevano dato origine ad un'operazione reazionaria gigantesca (sebbene dagli effetti rivoluzionari), quella del recupero della retorica dei teddy boy (sottocultura legata al rock'n'roll) in opposizione al modernismo kitsch, intellettuale e borghese di certo glam-rock e alla generale mitizzazione del rock. Perché quindi non pescare, invece che dagli anni '50, dai gloriosi anni '60? Perché non riportare in quel di Tucson, Arizona, la sfrontatezza solare dei gruppi garage armati di chitarre e organetto e mischiarla con un po' di altra sfrontatezza beatnik e bohémienne alla Patti Smith, Modern Lovers e Television?
Già, perché no...
Suona certamente più di revival, va detto, il paisley underground: dalla riscoperta di garage e psichedelia, di Neil Young e del folk rock dei Byrds e dell'abbigliamento hippie (larghe camicie colorate, gilet, collanine, capelli lunghi e caschetto, cinturoni e pantaloni aderenti di pelle, il tutto magari unito dalla nota urbana di un bel paio di occhiali da sole scuri).
Fatto sta che nel 1980 la band The Serfers si sposta a Los Angeles assumendo il nome definitivo di Green On Red e tre anni dopo, Dan Stuart (voce e chitarra), Jack Waterson (basso), Alex MacNicol (batteria) e Chris Cacavas (organetto) daranno alle stampe il loro primo album, lo storico "Gravity Talks".
Va poi ricordato che proprio intorno ai Green On Red si formerà la scena che generò band come i Dream Syndicate, i Rain Parade, i Long Ryders e i Three O'Clock, una scena di gruppi legati da amicizia e forte sodalizio (a quanto si legge dall'articolo di John L. Micek su Popmatters).
Ma passiamo all'album a questo punto.
L'apertura è da urlo, da camminata fiera e spensierata per la strada in una giornata di sole con la convinzione spavalda che il mondo sia ai tuoi piedi: "Gravity Talks" ci mette pochi secondi a sconvolgere l'ascoltatore grazie ad un mirabolante e frizzante incedere dove l'impeccabile organetto in pieno stile doorsiano (come non si sentiva da tanto tempo), si unisce ad un chitarrismo jangle e ad un vocalist maudit e sfrontato, magnetico e accattivante, incredibilmente a metà strada tra lo svogliato distacco e la vigorosa presenza. "Old Chief" si abbandona invece ad un folk rock rilassato e disteso, percorso da un motivetto continuo d'organetto e da episodici ingressi di steel guitar, nonché dall'intenso e rotondo giro di basso.
Ma eccoci di nuovo immersi nell'acido onirismo decadente di "5 Easy Pieces", piena e rigonfia, grave e densa, dagli accordi veloci e brucianti, smorzata nuovamente dalla rallentata "Deliverance", lasciata navigare sui flussi psichedelici dell'organetto di Cacavas e dal solito mood ciondolante dai ritornelli in crescendo enfatizzati e vigorosi.
"Gravity Talks" procede dunque così, in un alternarsi di brani dall'espressività strabordante, che sprizzano energia da tutti i pori, dall'andante cadenzato di "Over My Head" alle spirali dense di "Snake Bit", passando per il saltellante e spensierato "That's What You're Head For", e giungendo alla dylaniana "Brave Generation" (ed eccola la retorica generazionale derivata dal punk, anche se è più che evidente la differenza tra “blank” -ricordate i Voidoids?- e “brave”...) per non parlare poi dell'ultima allucinata e contorta "Narcolepsy", ottimo esempio di ibrido tra chitarrismo schizzato post-punk e movenze classiche.
Il disco è terminato e a malapena ci ricordiamo che altrove stanno uscendo dischi come "Soul Mining" dei The The, "Power, Corruption and Lies" dei New Order, "Head Over Heels" dei Cocteau Twins, "Confusion Is Sex" dei Sonic Youth, ovvero, per farla breve, dischi che stavano cercando di portare la musica in avanti, dischi non chiusi in un localismo sfrontato (motivo per cui la scena paisley non ha avuto il successo che meritava) ma aperti alla notorietà globale.
Ma i gruppi di Los Angeles avevano ancora molto da dire e dovevano sfornare ancora alcuni capolavori (il successivo "Gas Food Lodging", vera e propria vetta artistica e punto d'arrivo stilistico di Stuart e compagni, nonché l'incredibile "Medicine Show" dei Dream Syndicate) perché il loro valore venisse pienamente compreso e perché si scoprisse che, a suo modo, la musica avanzava anche grazie a questo geniale revival.
In tale contesto questo "Gravity Talks" non è che uno dei primi grandi passi.
Recensione pubblicata su Storiadellamusica.it
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