“Oshin”,
la dipendenza da eroina, l’arresto, la disintossicazione (?) e ora,
di nuovo, i DIIV. Il doppio “Is the Is Are” è un
punto d’arrivo importante per Zachary Cole Smith, che sembra
aver messo anima e corpo nei nuovi brani in scaletta: diciassette
pezzi che appaiono come tanti sassolini lasciati sul percorso di una
parabola turbolenta, come a voler lasciare tracce del proprio
passaggio per evitare di perdersi del tutto.
Ascoltando il nuovo
lavoro a firma DIIV è
difficile notare un vero e
proprio stacco tra l'esordio e questa nuova tappa: Cole
è tornato letteralmente sui suoi passi, anche se questa volta sono
maggiori i segni di disagio e irrequietezza. Non parlo solo di brani
come “Blue Boredom (Sky's Song)”, “Valentine”,
“Mire (Grant's Song)”, che nei loro andamenti cupi, tesi e
noise risentono fortemente dei Sonic Youth di Bad Moon
Rising (ma anche dei Cure di “Seventeen Seconds”),
manifesta ossessione di Cole nel periodo di gestazione di “Is
the Is Are”, ma di un mood complessivo, meno solare e
spensierato rispetto all'esordio.
Detto ciò, la
scaletta approfondisce senza mutare radicalmente la formula
surf/post-punk/shoegaze (o “mid-fi”, come
brillantemente
definita da Daniel James Schlett, al missaggio ai tempi di
“Oshin”) inaugurata quattro anni or sono: fantasmi dei
Beach Fossils (il bellissimo attacco di “Out of Mind”)
irregimentati in ritmiche motorik e turbolenze psichedeliche
(l'energica “Under the Sun”, la densissima “Yr Not
Far”), il tutto colorato da un chitarrismo preponderante ed
espanso, passato attraverso il filtro della fornitissima pedaliera
della band (si prenda la possente e stratificata “Is the Is
Are”, dove il lavoro sui layer delle sei corde è davvero
stordente).
Se, come detto, non
possiamo parlare di innovazioni in senso stretto, possiamo però
soffermarci sulla maggiore introspezione -che a livello musicale si
traduce in tessiture ricche e profonde- raggiunta dai pezzi di Cole:
si prendano le circolarità degli arpeggi di “Take Your Time”,
o il malinconico dream pop di “Healthy Moon” (che
ricorda i Wild Nothing più ispirati), o ancora il librarsi
etereo delle chitarre di “Loose Ends”, impegnate in un
continuo reiterarsi di riflessi.
“Is the Is Are”
è un disco spettrale (che dire della delicatissima prova finale
“Waste of Breath”?), costretto a scavare in se stesso in
giri e rigiri di spirali discendenti e ossessivi (“(Napa)”),
capaci di scurire anche gli episodi più solari senza per questo
rinnegare momenti di poesia e di grande sensibilità melodica. Sembra
di poter cogliere tra i solchi una costante dose di spossatezza, di
rassegnazione (le voci filtrate, spesso in secondo piano, come dei
sussurri). Un punto di non ritorno? Il prematuro canto del cigno?
Speriamo che Cole Smith risalga la china: le cose da dire
potrebbero essere ancora molte.
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