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DIIV - Is the Is Are (Captured Tracks, 2016)


Oshin”, la dipendenza da eroina, l’arresto, la disintossicazione (?) e ora, di nuovo, i DIIV. Il doppio “Is the Is Are” è un punto d’arrivo importante per Zachary Cole Smith, che sembra aver messo anima e corpo nei nuovi brani in scaletta: diciassette pezzi che appaiono come tanti sassolini lasciati sul percorso di una parabola turbolenta, come a voler lasciare tracce del proprio passaggio per evitare di perdersi del tutto.

Ascoltando il nuovo lavoro a firma DIIV è difficile notare un vero e proprio stacco tra l'esordio e questa nuova tappa: Cole è tornato letteralmente sui suoi passi, anche se questa volta sono maggiori i segni di disagio e irrequietezza. Non parlo solo di brani come “Blue Boredom (Sky's Song)”, “Valentine”, “Mire (Grant's Song)”, che nei loro andamenti cupi, tesi e noise risentono fortemente dei Sonic Youth di Bad Moon Rising (ma anche dei Cure di “Seventeen Seconds”), manifesta ossessione di Cole nel periodo di gestazione di “Is the Is Are”, ma di un mood complessivo, meno solare e spensierato rispetto all'esordio.

Detto ciò, la scaletta approfondisce senza mutare radicalmente la formula surf/post-punk/shoegaze (o “mid-fi”, come brillantemente definita da Daniel James Schlett, al missaggio ai tempi di “Oshin”) inaugurata quattro anni or sono: fantasmi dei Beach Fossils (il bellissimo attacco di “Out of Mind”) irregimentati in ritmiche motorik e turbolenze psichedeliche (l'energica “Under the Sun”, la densissima “Yr Not Far”), il tutto colorato da un chitarrismo preponderante ed espanso, passato attraverso il filtro della fornitissima pedaliera della band (si prenda la possente e stratificata “Is the Is Are”, dove il lavoro sui layer delle sei corde è davvero stordente).



Se, come detto, non possiamo parlare di innovazioni in senso stretto, possiamo però soffermarci sulla maggiore introspezione -che a livello musicale si traduce in tessiture ricche e profonde- raggiunta dai pezzi di Cole: si prendano le circolarità degli arpeggi di “Take Your Time”, o il malinconico dream pop di “Healthy Moon” (che ricorda i Wild Nothing più ispirati), o ancora il librarsi etereo delle chitarre di “Loose Ends”, impegnate in un continuo reiterarsi di riflessi.

Is the Is Are” è un disco spettrale (che dire della delicatissima prova finale “Waste of Breath”?), costretto a scavare in se stesso in giri e rigiri di spirali discendenti e ossessivi (“(Napa)”), capaci di scurire anche gli episodi più solari senza per questo rinnegare momenti di poesia e di grande sensibilità melodica. Sembra di poter cogliere tra i solchi una costante dose di spossatezza, di rassegnazione (le voci filtrate, spesso in secondo piano, come dei sussurri). Un punto di non ritorno? Il prematuro canto del cigno? Speriamo che Cole Smith risalga la china: le cose da dire potrebbero essere ancora molte.



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