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Rumore



C'è sempre qualcuno che tossisce durante uno spettacolo. Prima che inizi un concerto, ad esempio: tutto è pronto, l'orchestra ha finito di accordare gli strumenti, gli occhi dei musicisti sono fissi sullo spartito, il direttore è ritto e concentrato. Gli ultimi istanti di silenzio teso prima che un gesto definitivo dia il via al movimento introduttivo. Proprio in quel frangente di attesa, però, è certo che a qualcuno scappi un colpo di tosse -di quelli improvvisi, impossibili da trattenere- o che cada qualcosa sul pavimento da una tasca, o ancora che uno spettatore, sentendosi scomodo (o forse poco a suo agio in quell'improvviso magnetismo), aggiusti la sua posizione quel tanto da far scricchiolare il legno della seggiola.

Era da un po' di tempo che il mondo sembrava essersi cristallizzato in un simile stato: l'ultimo ricordo era la frenesia, il caos. Poi un bubbolìo decrescente, increspato, sempre più vago. Infine il silenzio più assoluto. Si trattava, però, di una calma tutt'altro che definitiva: ogni attimo pareva un preludio, e l'impressione che qualcosa stesse per accadere -un altro boato, o una luce accecante, o qualsiasi altra cosa- covava in stadio embrionale nei minuti, nelle ore, nei giorni. E come lo spettatore involontariamente rumoroso si ripiega un poco nell'imbarazzo, con un rossore o una malcelata disinvoltura, così i piccoli scricchiolii e i discreti tonfi che di tanto in tanto increspavano l'aria piatta inducevano in me la stessa vergogna, lo stesso disagio, come fossi stato io la causa di quelle fortuite esplosioni (tali sembravano in quell'immobilità). Niente, però, sembrava voler porre fine a quella stasi, a quel decadere sordo del paesaggio. Ero rimasto solo?

Camminavo da settimane su strati di cenere, su residui di qualche fantasma di materia organica o su strati di calcinacci ridotti a polvere granulosa. I suoni dei passi si avviluppavano su loro stessi, annullandosi. Il cielo, una distesa grigia di giorno e nerissima la notte, suggeriva la stessa assordante assenza di qualsivoglia varietà cromatica. Regnava un'omogeneità irrispettosa di ciò che era stato un tempo il mondo. Più andavo avanti e più mi rendevo conto di quanto fosse dura sopportare un tale orrore. Eppure una forza residua mi spingeva a continuare, a lasciarmi alle spalle gli “ex-posti”, quelli che non facevano che ricordami il loro essere stati qualcosa che, ora, non c'era più. In fondo non mi restava altro da fare.

Tutto era successo in un attimo. Era una giornata di festa, c'era il sole, faceva caldo. Le persone erano fuori casa. Ricordo che prima di scendere nello scantinato il mio vicino mi aveva invitato a bere una birra. Arrivo subito, tienimela fredda. Per quanto ne sapessi nessuno era sopravvissuto. Solo io: un errore, una casualità. Una delle cose che non dovrebbero succedere ma che immancabilmente capitano. Come un colpo di tosse in una sala concerti. Altri nella mia situazione son rimasti sepolti vivi sotto le macerie. Non so dire se mi sia andata bene, ma da allora ho iniziato a camminare, è stata semplicemente la prima cosa che mi è venuto in mente di fare. Forse di fronte all'immobilità ho voluto spezzare l'equilibrio, mi sono mosso.

Da qualche giorno l'aria si era fatta più pesante, come stagnante. Attorno a me il paesaggio iniziava a gonfiarsi dei profili di colline incenerite, tanti squallidi Golgota, e gli unici segni dell'antica presenza di strade erano gli sparuti pali della luce piantati nel terreno. Un mondo di rovine. La sera arrivava all'improvviso, cogliendomi sempre alla sprovvista. Non restava che individuare la cosa più simile ad un riparo e fermarsi, accendere un fuoco con materiale di fortuna che sbuffava un denso fumo nero e incenerire qualche provvista trovata nelle poche case non del tutto crollate, per poi abbandonarsi ad un sonno muto e inquieto. E di nuovo il grigio della mattina, e il cammino a testa bassa. Quello che doveva essere un lago ora era un reticolo di pozze maleodoranti e fangose.

È stato lì, una volta superato l'acquitrino, che ho visto la prima persona dopo tanto tempo. Era ripiegata su se stessa, immobile. Anche lei. Nonostante l'entusiasmo mi sono avvicinato piano, tanto piano che quella non mi ha sentito fino a che non le sono stato tanto vicino da poterla toccare. E allora, dopo aver emesso un rantolo, è balzata in piedi sbraitando, la bava alla bocca, gli occhi vuoti, persi, in un susseguirsi di scosse inconsulte e maledizioni sboccate, slacciate da ogni logica. Insulti e oscenità lanciate non tanto a me, quanto al mio destare quella apparente morte. Era andata, persa nella sua furia.

Sono scappato terrorizzato, tanto da esaurire le forze. Mi sono abbandonato accanto ad un mucchio di mattoni che un tempo avevano composto un muro. Avevo dissipato ogni coraggio e l'angoscia si era trasformata in una forza che mi teneva bloccato al suolo, raggelato. A che serve continuare se la pazzia finirà col divorarmi?

È stato solo un soffio di vento gelido, la mattina dopo, a costringermi a rimettermi in piedi. Me ne rendo conto solo adesso di quanto sia stato importante quell'alito che per la prima volta rimescolava l'aria viziata. Allora, però, ero svuotato e mi rassegnavo ad andare avanti per inerzia, senza che un'emozione mi attraversasse, come annientato da quello spavento inatteso. Mandavo avanti un piede e l'altro, dietro, mi seguiva trascinandosi. L'orizzonte, concetto sempre più insensato nell'atmosfera lattiginosa, aveva smesso di rappresentare una speranza. Procedevo a testa bassa, respirando piano, noncurante, e il silenzio era sempre più completo.

Il più delle volte le cose succedono all'improvviso, senza nessun intermezzo che ammorbidisca gli stacchi. Ad un tratto, infatti, qualcosa si spezzò sotto il mio piede. CRAC! Un flebile sbriciolarsi che ebbe per me la stessa intensità di uno scoppio. Mi fermai e per un attimo rimasi immobile. Mi sentii risputato nel mondo. Quando guardai in basso lo vidi: era un rametto sottile, non del tutto secco. Un pezzo d'albero. Un albero! Non ne trovavo da settimane, forse da mesi. Non vedevo più in là di una cinquantina di metri: ero in quel momento della giornata in cui cielo e terra sembravano inglobarsi a vicenda, sfumando l'uno nell'altro in tonalità grigiastre e pallide. Smisi però di trascinarmi e ricominciai a fare dei passi veri e propri. Se c'era un ramo lì doveva esserci stata una foresta. Forse qualcosa era sopravvissuto. Man mano che procedevo aumentavano i residui di una vegetazione che, seppur devastata, rappresentava quanto di più vicino al concetto di natura avessi mai incontrato fino ad allora. Sentivo anche un particolare mutamento nella consistenza dell'atmosfera, che si era fatta meno opprimente, più frizzante. Pensai che fosse semplicemente l'effetto del mio rinato scintillìo di speranza, ma che importava? Mi sentivo vivo e tonificato, nonostante la fame e la fatica e lo spavento.

Fu solo il giorno dopo che successe quello che avevo tanto desiderato. Me li trovai lì davanti all'improvviso. File scure che si stagliavano nella nebbia e si perdevano nere nel cielo. Sempre più fitte. Fino a che non mi trovai nel bosco. Non avevo percepito alcuna linea di demarcazione, sembrava che i tronchi mi fossero spuntati attorno. Non riuscii a trattenere un singhiozzo e caddi in ginocchio. Sentii la terra bagnata infradiciarmi i pantaloni. La terra! Avevo paura che ogni cosa potesse sparire da un momento all'altro, perciò feci ancora pochi passi, trovai un albero sotto cui sdraiarmi e mi ci appoggiai. Il legno rugoso mi sosteneva meglio di qualsiasi muro schiantato. Alzai la testa e scoprii che lì la nebbia era meno fitta, tanto da permettermi di vedere i rami più alti carichi di fogliame. Era un sogno? L'avrei fatto durare per sempre. Non mi mossi di un millimetro per ore, respirando a pieni polmoni come per ubriacarmi di quell'aria finalmente viva, quasi profumata.
Ad un certo punto notai un altro particolare. Il vento. Non quello gelido e velenoso di qualche tempo prima, ma un soffio dolce, fresco. Un respiro. Sibilava tra la vegetazione e sembrava parlare. Percorreva il labirinto d'alberi con libertà trasparente, senza una direzione precisa. E ad un certo punto rimbalzò in alto e accarezzò le foglie, facendole frusciare. Era un canto: i suoni si moltiplicavano in modulazioni sottili, prendendo le sembianze di tante note in reciproca interazione. Era una sinfonia. Il silenzio era finito, la tensione sciolta. Cercai di star fermo, di non farmi scappare un colpo di tosse. Non volevo fare il minimo rumore.

Ancora oggi, dopo tanto tempo, nutro la stessa religiosa riverenza per il bosco. Mi sono stabilito tra gli alberi, ho costruito un riparo. Comincio anche a vedere qualche bestia furtiva, ogni tanto. Non so quanto sia estesa questa macchia di vegetazione, non so se ne esistano altre. Credo però che prima o poi arriverà qualcuno, oltre agli animali. La vita chiama la vita, non può essere altrimenti. Io nel frattempo aspetto, cercando di essere rispettoso come fossi un ospite. E cerco di fare meno rumore possibile.



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