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Non temo la gente, parte 1


Lui nella vita sociale ci sguazzava, parola mia. Non ho mai conosciuto nessuno capace quanto il buon R. di destreggiarsi con tanta maestria attraverso la jungla delle relazioni, le rapide delle logiche di gruppo, le correnti dell'accettazione sociale. Sapeva cosa fare e cosa dire sempre e comunque, illuminava con il suo ego ogni ambiente dove fossero presenti più di due persone (lui escluso), aveva assi nella manica per ogni evenienza e necessità. Faceva tutto con garbo, mai sopra le righe. E vinceva, inutile dirlo, ogni mano.
Erano tempi strani quelli in cui ho conosciuto R., tempi che sono passati troppo in fretta, vissuti pienamente ma senza pensarci su troppo. Idea e realtà sembravano collegati: non lo erano affatto. Si agiva e basta, credendo di essere guidati da qualche ideale che però sfumava appena la foga collettiva scemava, lasciando come scarti solo stanchezza e incompletezza. Il tempo in quel periodo era una melassa che si contorceva e si modellava disordinatamente, creando strati su strati che si mischiavano, si addensavano, restavano appiccicati alla pelle. Se ti ci trovavi dovevi starci dentro, invischiato fino al collo. A volte mi capita di pensarci e sembrano passati decenni, altre invece è come se fossero trascorsi pochi giorni.
Eravamo diversi, io e R. Non credo che quel periodo per lui abbia avuto lo stesso valore, che si sia manifestato in maniera tanto prepotente. Tutto sembrava scivolargli addosso. Eppure lui era lì nel mucchio, come uno scoglio in mezzo al mare: la sua presenza era tanto fisica da fendere le correnti di folla senza esserne scalfito. Ne era piuttosto levigato, e riluceva statico del riconoscimento e dell'ammirazione altrui, che colava sui suoi bordi, schiumando e frizzando.
Aule gremite, strade e piazze piene. Vociare indistinto, proclami metallici di megafoni a pile. Sirene, musica, sudore, freddo e cielo blu elettrico. Ottobre, poi novembre. La città andava a fuoco nell'aria limpida, le università erano occupate, i locali continuavano ad essere pieni con le loro luci soffuse, i cervelli si dondolavano tra mille stimoli culturali, politici, etilici, sessuali. Le mani si muovevano su pelli sudate, i balli si alternavano alle marce e agli inni. Tutto all'unisono, come un unico grande corpo eccitato. C'era come una linfa che scorreva e portava con sé un profumo di pienezza, capace di infondere un'illusione di senso, di sensualità, di estetica e di bellezza che riempiva tutto, allacciando in un unico pensiero molteplici anime, disparate ambizioni, opposti fini.
Nell'ordinarietà delle lezioni, uniche manifestazioni di come la sostanza non fosse per niente turbata dal ronzio studentesco, ho conosciuto R. Non era uno di quelli da prima fila, non ricercava l'approvazione dei professori, non gli interessava -apparentemente- rendersi visibile. Ma riusciva comunque ad essere destinatario di attenzioni e interesse. Avvolto nel suo trench nero usciva dall'aula appena finita la lezione, eppure qualcuno lo fermava appena varcata la soglia. Dubbi sul concetto di habitus, che è una struttura strutturante e quindi è un po' come dire che c'è qualcosa di deterministico nelle relazioni sociali (vieni da me a cena, così ripassiamo, o guardiamo un film, o usciamo, ti va?), commenti su quanto l'etnocentrismo sia un odioso problema della cultura occidentale (c'è un ristorante africano che è una meraviglia, ci vado con degli amici, vieni anche tu?), o su quanto fosse spregevole il didascalismo del professore di geografia economica (chissà cosa pretenderà che gli diciamo all'esame, ma al limite studiamo insieme, da me c'è posto).
Io non gli chiedevo nulla, pur trovandomi spesso vicino a lui, nelle file di mezzo. Le file di mezzo erano ottime per non dare troppo nell'occhio, per avere un certo controllo sull'aula senza isolarsi del tutto piazzandosi negli ultimi posti. Era il posto della normalità, che poteva essere occupato tanto da mediocri quanto da brillanti arrampicatori sociali.
Il materialismo storico dice che … la storia è fatta soprattutto dalle... dalle cose materiali, cioè, dai soldi e dal cibo, tipo. No?” Un sorriso cinico, uno sguardo: quello è stato il primo contatto con R. La derisione sottile di un “collega” della nostra comune azienda universitaria.
- Chissà se gli chiedeva la caduta tendenziale del saggio di profitto, ho bisbigliato io.
- Marx aveva il senso dell'umorismo, si starà sbellicando nella tomba, ha detto lui.
Complicità, si era creato un legame. È passato del tempo prima che io e R. cominciassimo a frequentarci: un conoscerci lento, fatto di commenti appena abbozzati sulle lezioni, occhiate di intesa o smorfie di disappunto.
La polizia aveva caricato più volte il giorno in cui abbiamo fatto la prima vera chiacchierata. Tutti noi eravamo ancora frastornati ed esaltati dalla scarica di adrenalina che ci rifocillava e ci dava, a chi in buona fede e a chi meno, le motivazioni per “continuer le combat”. Nonostante il sudore, i piedi doloranti e un filo di mal di testa la lezione delle 16 non si poteva perdere. La rivoluzione era importante ma lo erano anche gli esami arretrati e il foglietto di carta che poteva garantire uno stipendio un po' maggiore, alla faccia della lotta di classe. Ovviamente R. era presente, con la sua solita eleganza discreta, mai troppo presuntuosa.
- Che giornata oggi, hanno caricato. Avevo voglia di sapere che ne pensava della mobilitazione studentesca, e soprattutto perché non si era mai fatto vedere ad una riunione o ad una manifestazione.
- Mmm? Immerso nelle nuvole si mostrava sorpreso del mio evidente tentativo di cominciare un dialogo vero e proprio.
- No, dico, la polizia. Oggi c'era manifestazione.
- Ah, si ho sentito... Avete corso quindi. Nelle sue parole c'era cordialità, ma non interesse. La cosa mi affascinava tantissimo: come ci si poteva mostrare indifferenti di fronte al sommovimento generale che finalmente dava l'impressione di un cambiamento in atto, o almeno di una disintegrazione della staticità (che non era comunque poco)?
- Tu non c'eri. Come mai?
- Non mi interessano queste cose. Cioè, la dimensione collettiva mi...
Il professore invitava a prendere posto per l'inizio della lezione.
- Ne parliamo dopo, ok?
Me l'aveva chiesto lui, non potevo rifiutare. Così due ore dopo io e R. eravamo l'uno di fronte all'altro al tavolino di un bar a bere un caffè. Si era già fatto buio e l'aria era limpida e gelata. Quell'ora mi piaceva tantissimo, tutto sembrava rallentare e i contorni delle cose si facevano meno sgranati, più nitidi. La stanchezza della giornata di manifestazione era riassorbita da una normalità che in quell'ora particolare acquistava un fascino impagabile. Il tepore del locale che ospitava giovani studenti impegnati a far di tutto per scrollarsi di dosso la postura accademica mi faceva l'effetto di un balsamo.
- Tu di dove sei?
- Di qua, mi ha risposto.
- Ma dai, sei un reduce quindi?
- In che senso?
- Nel senso che tutti solitamente se ne vanno dalla propria città per l'università.
- Mi chiedo perché, sinceramente, ha risposto lui.
- Mah, forse per vedere nuovi posti, per cambiare aria... Abbozzavo ragioni sommarie, perché mi interessava sapere cosa pensava lui.
- Mmm. Di solito si cercano nuove persone, non nuovi posti. E poi l'aria più o meno è sempre la stessa dovunque. Ha fatto un sorrisetto per smorzare il tono polemico.- In realtà da questo punto di vista è come se mi fossi mosso anche io. Sai, tutti gli autoctoni se ne sono andati lasciando il posto ad una marea di fuori sede, di gente nuova. Ho cambiato aria senza muovermi di un passo, no?
- Forse hai ragione, sta di fatto che per me spostarmi è stata la salvezza. Da me non succede nulla, tutto è fermo.
- Ma no, è un'impressione, fidati. Perché, qua si muove qualcosa?
- Be' si dai, c'è il movimento.
- Ah già, il movimento. Si muove per definizione il movimento.
Aveva un suo modo di essere simpatico dandoti torto che non poteva offendere, non riusciva ad apparire sgradevole. Era liberissimo di dire quello che pensava, lo faceva con schiettezza ma mantenendo aperti spiragli, senza mai chiudere la discussione. Il suo modo di essere socievole era quasi perfetto: teneva in piedi la conversazione dicendo quello che pensava, ma in modo sfumato, così da lasciartelo percepire senza chiarire del tutto il suo modo di vedere le cose. E questo alla gente piaceva, perché non veniva mai veramente contraddetta da R. Più volte avevo fatto attenzione al suo modo di porsi con gli altri, e sembrava avesse un preciso metodo al quale si atteneva con fermezza e naturalezza. Con me però era diverso, mi aveva dato torto, anche se aveva mantenuto il suo enigmatico contegno. Però volevo andare oltre, volevo che mi dicesse “stai dicendo cazzate”.
- Dicevi, prima, che non ti interessa la politica.
- No, in realtà non è che non mi interessa la politica. È la dimensione collettiva della politica che non mi convince.
- In che senso?
- Nel senso che per quanto possano esserci ragioni, buoni motivi, analisi serie... be', tutto viene banalizzato non appena deve diventare ragione di massa. Si passa dalla teoria allo slogan, dai passaggi logici ai mantra catechistici. La ragione in tutto questo non c'entra per niente, così non me ne interesso.
- Ma allora non si possono cambiare le cose, bisogna star fermi. Non c'è speranza, ho chiesto.
- Al giorno d'oggi no. Perché la gente si accontenta... anzi, vuole lo slogan. Quindi lo slogan non è solo un modo per semplificare il ragionamento, per renderlo funzionale all'assorbimento rapido, ma diventa l'anima stessa dell'espressione collettiva delle idee.
- Non sono d'accordo. Non è così. Se tu partecipassi alle assemblee, alle riunioni, ai gruppi di lavoro... Be' capiresti che c'è un'elaborazione che procede, che si sta sviluppando. Servono parole nuove, pratiche condivise...
- Per fare che? Per scendere in piazza a dire le stesse cose trite e ritrite? Vogliono una nuova università ma poi accettano completamente le ragioni e le valutazioni di questa università. Vogliono l'università antiborghese ma mantengono i parametri e gli schemi concettuali borghesi. Se avessero davvero voluto abbattere l'università non si sarebbero dovuti iscrivere. L'università ha, che lo vogliate o meno, uno scopo preciso, che è quello della divisione del lavoro, della formazione della classe dominante.
- Ma la cultura critica, i saperi... L'università dovrebbe...
Ero spiazzato, in qualche modo pensavo che le sue critiche avrebbero pescato dal classico repertorio populista “sono tutti figli di papà a cui piace far casino”, ma la sua analisi era più complessa, e io non ero abbastanza preparato. Ero stato troppo occupato a immedesimarmi nella protesta per avere avuto il tempo di coglierne gli aspetti critici.
- Ma senti -mi ha detto lui- tu perché hai fatto l'università?
Una domanda facile. Facile?
- Be', perché mi interessava...volevo...
Non sapevo perché diamine ci fossi finito, all'università, questa era la verità.
- Perché non avevo altra scelta, ho concluso.
- Bene. Pure io. Facile no?
Ci siamo scambiati un'occhiata di approvazione, poi ci siamo messi a ridere, entrambi sollevati di aver chiuso una conversazione che stava diventando troppo impegnativa. Ci siamo alzati dal tavolino, ognuno ha pagato la sua consumazione, ci siamo stretti la mano e ci siamo salutati.

Matteo Castello
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