I. Natura e alienazione in Marx
“Strappando all’uomo l’oggetto della sua produzione, il lavoro estraniato gli strappa perciò la sua vita specifica, la sua oggettività specifica reale e trasforma il suo primato sull’animale nello svantaggio del fatto che il suo corpo inorganico, la natura, gli viene sottratto.”
Il concetto di alienazione (qui ancora legato al Feuerbach di “Essenza del cristianesimo”) è, in Marx, di fondamentale importanza per capire non solo la sua critica sociale ed economica, ma anche la sua impostazione etico-filosofica. L’idea di alienazione si fonda infatti sull’idea di una separazione, di una frattura che si realizza tra uomo e natura e di conseguenza tra uomo particolare e uomo generale, tra l’uomo inteso come lavoratore e l’uomo inteso come specie. Il lavoro estraniato separa l’uomo dall’oggetto della sua produzione, e quindi lo separa dalla sua vita di genere: l’uomo è produttore, produrre rappresenta la sua genericità (e al contempo la sua specificità). La separazione tra l’uomo e la sua oggettività specifica reale, coincide con la separazione dell’uomo dal suo corpo inorganico, la natura.
“Il lavoratore non può creare nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Essa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, in cui è attivo, a partire dal quale e mediante il quale esso produce”.
Per Marx esiste una realtà esterna, oggettiva, tramite la quale l’uomo esercita la sua azione. L’uomo, come lo concepisce Marx, è però caratterizzato dall’essere consapevole di appartenere alla specie, per rapportarsi a se stesso come a “un essere universale e dunque libero”. L’uomo quindi è allo stesso tempo specificato in quanto individuo, ma generalizzato nel suo essere consapevole delle qualità generali che lo legano ai suoi simili. Solo questo, cioè la capacità di pensarsi (e agire) come membro di una specie (e non come atomo separato) entro i confini di una realtà esterna oggettiva, crea le condizioni per la libertà (che consiste nell’essere uomo, nell’agire secondo la propria natura, la propria essenza).
La vita della specie, spiega Marx, è dunque l’universalità dell’uomo, e implica un rapporto con la natura esterna a sua volta universale (perché la coscienza di sé come specie è anche coscienza della propria esistenza in un mondo per e della specie): la natura appare come il corpo inorganico dell’uomo, cioè come un’estensione oggettivata dei suoi bisogni e delle sue qualità universali, della sua attività universali. Nella natura l’uomo non riconosce solo un’entità indipendente e strumentale, separata, ma riconosce, per il fatto che essa è il suo mezzo e strumento di vita (cioè l’ambito dove si realizza la sua attività vitale), anche l’altro uomo, che similmente vive nella natura e da essa trae il fondamento della propria specificità di genere. La natura è umanizzata e al contempo l’uomo è naturalizzato.
“La lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come un essere cosciente appartenente alla specie, cioè un essere che si rapporta alla specie come al suo proprio essere, o a sé come appartenente alla specie”.
È proprio attraverso la lavorazione del mondo oggettivo che l’uomo si dimostra un essere appartenente alla specie, ci dice Marx: la natura, lavorata dall’uomo, è quindi l’oggettivazione della sua vita specifica. L’uomo si riconosce nella natura e nell’altro uomo, perché la natura è sia condizione che risultato dell’attività umana. L’uomo è ciò che produce perché ciò che produce esprime un determinato modo di esistenza, la connessione necessaria tra la natura esterna e le capacità manipolative, creative, intellettuali, pratiche, tipiche della specie umana, dell’uomo. L’uomo crea il mondo non in senso idealista, ma in senso realista, attraverso l’azione modellatrice su una realtà oggettiva, esterna, ma allo stesso tempo parte integrante (cognitivamente e fisicamente) della natura umana. L’uomo è parte della natura, e la natura è, nell’uomo, realizzazione dell’uomo stesso e riconoscimento dell’altro uomo.
Tuttavia, specifica Marx, la condizione del lavoratore salariato determina che quanto più questo si appropria della natura con il suo lavoro (quanto più produce), tanto più la natura gli diventa ostile, estranea, tanto più questa cessa di essere “mezzo per vivere”, diventando invece potenza separata e dominatrice. Il lavoratore, già estraniato nei confronti di ciò che produce e dei mezzi di produzione (a causa della proprietà privata), è estraniato anche dalla sua umanità, dunque da quell’attività vitale che è rapporto libero, cosciente, umano con la natura. L’essere specifico dell’uomo è l’attività vitale nel mondo naturale, è l’attività di specie: è rapporto con una natura che immediatamente è anche rapporto con il proprio simile. Il lavoro estraniato rappresenta a questo punto una rottura: il prodotto, essendo estraniato, separa l’uomo da ciò che lo distingue come uomo (la sua attività vitale), dalla natura (che è luogo dove gli uomini, esercitando la propria attività vitale si riconoscono l’un l’altro), e quindi dall’altro uomo.
II. Natura e problemi ambientali: la doppia alienazione
Per quanto Marx abbia presto superato (ma non abbandonato) la sua idea di natura umana intesa come insieme di tratti costanti e universali concentrandosi su una più articolata teoria storica del cambiamento e del legame tra relazioni sociali e modi di produzione (“l’essenza dell’uomo non è un’astrazione inerente in ogni singolo individuo. Nella sua realtà esso è l’insieme delle relazioni sociali”, scriverà nelle “Tesi su Feuerbach”), la concezione di una natura umanizzata e umanizzante contrasta fortemente con le concezioni spiritualistiche, astratte, di una natura religiosamente intesa come un “giardino dell’Eden violato”. Si prenda un passaggio da “L’ideologia tedesca” (citato in “Marx and human nature” di Norman Geras, come tutte le citazioni successive), in cui Marx fa uso della sua idea di natura umana per criticare le mistificazioni del cristianesimo:
“L’unica ragione per cui la cristianità voleva liberarci dalla dominazione della carne e “del desiderio come forza trainante”, era perché vedeva nella nostra carne, nei nostri desideri, qualcosa di estraneo; voleva liberarci dalla determinazione dalla natura perché concepiva la nostra stessa natura come non appartenente a noi. Perché io stesso non sono natura, se i miei desideri naturali, la mia indole, non appartiene a me stesso – questa è la dottrina del cristianesimo – e allora ogni determinazione naturale – che sia dovuta alla mia indole naturale o da ciò che si sa essere natura esterna – mi sembra una determinazione da parte di qualcosa estraneo, una catena, una costrizione usata contro di me, eteronomia in quanto opposta all’autonomia dello spirito”.
In questo passaggio è evidente come l’allontanamento da noi stessi e l’allontanamento dalla natura siano la stessa cosa. Vista all’interno della teoria del materialismo storico, che pone l’accento sulla struttura delle relazioni sociali (introducendo quindi una sorta di contingenza all’interno di una più generale legge/tendenza del cambiamento storico-sociale), la concezione della natura di Marx introduce un elemento normativo importante per direzionare la sua ricerca scientifica. Se è vero che l’uomo è condizionato dalla forze sociali prevalenti, dal rapporto con i mezzi di produzione e con chi ne detiene la proprietà, è anche vero che è insito nell’uomo un insieme di proprietà “tipiche”, che lo rendono quello che è (o quello che dovrebbe essere). Ed è quello che l’uomo è (insieme di elementi costanti e variabili, storico-sociali) a determinare i suoi bisogni, a loro volta mutevoli a seconda delle condizioni sociali. Il riconoscimento del bisogno come umano (normativamente libero, frutto dell’impiego cosciente e sociale delle proprie capacità) contrasta dunque con i bisogni artificiali, indotti (per quanto essi non siano mai del tutto tali), che prendono il sopravvento nella società capitalista, che impone e limita i bisogni invece di favorire un loro pieno dispiegamento e una loro reale soddisfazione. Il concetto di natura in Marx è quindi un punto di partenza, una base solida su cui poggiare i piedi per rivendicare la libertà cui l’uomo dovrebbe aspirare, e per delimitare un campo di qualità, di proprietà, di bisogni (potenziali, teorici) che sono praticamente messi in discussione dagli assetti sociali. Il modo di produzione, dice Marx, non riproduce soltanto l’esistenza fisica degli individui, ma è una “forma definita dell’attività degli individui, una forma definita di esprimere la loro vita, un modo definito di vita. Come gli individui esprimono la loro vita, così essi sono. Quello che sono, quindi, coincide con la loro produzione, sia con quello che producono, sia per come lo producono. Dunque quello che gli individui sono dipende dalle condizioni materiali della loro produzione”. Quello che gli individui sono è, in sostanza, la loro natura (cioè un insieme di caratteristiche costitutive). E la loro natura coincide con il modo di produzione, che a sua volta dipende dalle condizioni materiali d’esistenza. Separando l’uomo dalle sue potenzialità, dalle sue pratiche, dalla sua natura, il capitalismo, minaccia e distrugge la capacità umana di determinare la sua storia (“gli uomini hanno una storia perché devono produrre la loro vita, e perché devono produrla in un certo modo: questo è determinato dalla loro organizzazione fisica; la loro coscienza è determinata nello stesso modo”), di soddisfare i propri bisogni, di vivere umanamente nel mondo (si rimanda a questo punto alla concezione oggettiva dei bisogni umani di Ian Gough e Len Doyal).
Questa separazione sembra però esprimersi in tutta la sua forza nell’attuale atteggiamento critico rivolto ai problemi ambientali e alla concezione dell'azione umana sul mondo. Il mondo, secondo una certa narrazione ambientalista, appare come una minaccia esterna, un’entità in rivolta, come una natura ostile che l’uomo (appiattito a puro ente generico “negativo”, indifferenziato, privo di connotati sociali), non riconosce come parte di sé, ma come semplice mezzo da sfruttare. La natura è separata nel senso che gli individui umani sono percepiti come corpi estranei, la cui azione trasformativa, anziché esprimere una proprietà costitutiva dell’azione umana, non può che corrompere l’ecosistema. La natura è raffigurata come entità astratta, disumanizzata, mentre l’uomo è snaturato proprio in questa separatezza: non è parte del mondo, non si riconosce più nella sua attività vitale tipica (nella produzione, nella manipolazione della natura), a tal punto separata da lui da andare incontro a richieste di autolimitazione, censura, freno, di interventi simbolici di castrazione (la riduzione della popolazione). Dal momento che si fa strada l’idea di un’improbabile natura esterna non umana (nel senso di una natura dove l’uomo non trova posto, trionfo dell’alienazione e della mistificazione), l’uomo può solo ritrarsi dal mondo, rinunciare al suo rapporto vitale e creativo con esso. La produzione capitalista, forzata, alienata, strumentale, snaturata (che sfrutta e inquina, che è caratterizzata da conflitti d’interesse che vengono oscurati e de-socializzati) è invece naturalizzata, concepita come l’unica possibile e inesorabile manifestazione dell’attività umana: non è concepito altro modo di plasmare il mondo se non quello parassitario, incontrollato, illimitato, anarchico e individualista del capitalismo. Invece dell’uomo “naturalmente” produttore, parte integrante di un mondo che è prima di tutto vissuto secondo la propria specificità umana, si fa largo l’idea di un uomo predatore, animalesco, la cui unica salvezza è la sottrazione, l’auto-limitazione, il volontarismo ascetico (riflesso in negativo dell’ascetismo mondano del borghese, libero dal bisogno), il cui posto non è nel mondo, ma in un altrove non meglio definito (abbondano le utopie del ritiro, del piccolo commercio e della prossimità, del ritorno a comunitarismi e localismi immaginari).
Si conferma così, in maniera tutta negativa, l’animalità dell’uomo (oppure il primato dell’homo oeconomicus), e si consolida il feticismo per cui l’uomo smette di vedere se stesso come entità sociale situata nel mondo naturale, smette di vedere nella natura la fonte almeno potenziale, il mezzo di soddisfazione (e di rivendicazione) dei propri bisogni (universali), ridotti anch’essi a strane astrazioni culturali, a pretese false e falsificate (dimenticando del tutto la natura sociale, in continua trasformazione, dei bisogni), a “desideri non appartenenti a noi”. In questa visione scompaiono le differenze sociali e i ruoli differenziati che i gruppi umani hanno nella produzione: sebbene associati a gradi più o meno pesanti, tutti sono messi sul piano della colpevolezza (del peccato originale?), perché tutti sono accomunati dal semplice fatto di esercitare “pressione” sulle risorse naturali, cioè di usare il mondo invece che contemplarlo francescanamente, secondo un’idea di armonia che implica non costruzione, ma rinuncia.
La rinuncia alla critica sociale è un tutt’uno con la rinuncia al "dominio" della natura, che implicherebbe non "proprietà" capitalisticamente intesa, ma cura, convivenza, impiego cosciente della capacità umane (la tecnologia, la scienza, ecc.), riaffermazione della propria umanità, e non mero sfruttamento. La rinuncia a questo è il più evidente segnale di sconfitta, la più chiara vittoria delle forze distruttive e disumanizzanti del capitalismo, oltre che il ritorno di un pensiero religioso seppur ateo, dai connotati nichilisti dove l’unica salvezza è, al limite, quella volontarista, personale, morale. Il cambiamento non è contemplato, ma subìto oppure affidato a straordinarie prese di coscienza collettive. La liberazione dunque non avviene nel mondo reale, con mezzi reali, ma in un altrove o in un limitatissimo qui, per una concezione che pare abbandonata alla rassegnazione, all'immutabilità di una struttura sociale e umana data per acquisita.
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