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#11 Dischi di novembre (con l'➑) ∞

Pochi preamboli. Anche questa volta le annate passate in rassegna serbano grandi lavori, ognuno rappresentativo di approcci unici, innovativi, capaci di imprimere una grandissima personalità grazie ad album indimenticabili. Buon ascolto e buona fine di novembre!

► 1968

pearls before swine balaklava 1968 review
Pearls Before Swine - Balaklava (ESP)

Il fatto che un disco del genere esista è confortante. Un lavoro immerso in una patina eternamente démodé, quello di Tom Rapp, lontano da tutto quanto potesse risultare figo a fine anni Sessanta (e soprattutto nel '68, anno duro per eccellenza). E poi la sua pronuncia difettosa per colpa della zeppola, le atmosfere tenui e surrealiste nonostante il forte afflato antiguerresco, le scenografie di carta velina nonostante la forte carica politica (un po' come un Ivan della Mea meno bolscevico e più hippy, o meglio, come un Phil Ochs più psych-barocco e meno Greenwich Village).
Il folk diventa, per Rapp e la sua band, un attributo indefinito da trasfigurare e sublimare in scheletri ariosi, in sussurri e suoni d'ambiente diffusi. Si pensi a "Guardian Angels", sorta di ipnagogia dove pare di ascoltare un pezzo da camera suonato da un grammofono in un salotto antico, o alla prima "Translucent Carriages", tutta un levitare su sussurri e respiri in sottofondo, o a "Images of April", tra cinguettii in intimo intreccio con flauti e striature di chitarra elettrica, o ancora all'eleganza psichedelica della barocca "I Saw the World". E poi c'è tutta l'eleganza forbita di "Suzanne" e "Lepers and Roses", ballate delicate condotte con maestria tra arrangiamenti chamber e jazz, tra folk acustico e trame sottili di elettricità, o la grazia trobadorica di "There Was a Man".

Insomma, che un lavoro tanto gentile, personale, contro-intuitivo e bizzarro sia stato concepito e abbia superato la prova del tempo dovrebbe essere motivo di conforto per chiunque pensi che non c'è spazio, in questo mondo, per i "fuoriposto". E invece no, accomodatevi.

► 1978

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Siouxsie and The Banshees - The Scream (Polydor)

Punk ma, in qualche modo, raffinato. O meglio, dotato di una profondità capace di travalicare la semplice espressione di irriverenza e rumore (in fondo un'estremizzazione del rock'n'roll) dei Sex Pistols. Post-punk e gothic rock in un solo colpo: l'affettata tensione artistoide e il cupo e tarantolato incupirsi delle atmosfere. Con uno straordinario John McKay alla chitarra e una magnetica e sensuale Siouxsie - punk della prima ora - alla conduzione, l'esordio dei Banshees non poteva essere il miglior manifesto del superamento di quella scintilla nichilista che bruciò inibizioni e demitizzò il rock tra il '76 e il'77 (facendolo tornare alle sue origini popolari, mettendo l'accento sulla sua accessibilità, sul non-professionismo del musicista).

Il recupero dei canoni (la cover di "Helter Skelter" non è una parodia, ma un omaggio affascinato) e la capacità di forgiare nuovi standard: ecco la potenza di "The Scream". Nonostante le strutture serrate ("Jigsaw Feeling") e l'assenza totale di masturbazioni rock (esibizioni di validità tecnica, assoli di chitarra e roba simile), la carica torbida che esplode in ognuno dei ruvidi brani è come un negativo glam (si pensi a "Overground"), come un tentativo costante di conferire solennità e distacco alla musica: quanto di meno democratico potesse essere concepito da un manipolo di punk, più facilmente raffigurabile - come ricorda Simon Reynolds nel suo "Post-Punk" - come il vertice di una setta di adepti.

Mai un tira e molla tra tradizione e innovazione è suonato così stimolante: la trascinante "Carcass", debitrice tanto degli Stooges quanto dell'ossessività di un Brian Eno, ma infiltrata da una fascinosa e torbida enfasi, la tiratissima "Mirage", sfigurata dall'impiego massiccio del flanger, la splendida cavalcata di "Nicotine Strain", continuo rincorrersi tra batteria e accordi di chitarra elettrica.

Passare da "The Scream" è d'obbligo. Uscirne, forse, è meno scontato.

► 1988

my bloody valentine isn't anything 1988 review
My Bloody Valentine - Isn't Anything (Creation)

Il secondo album della band irlandese è uno dei grandi traguardi del pop contemporaneo. Tutta l'attenzione è rivolta alla trasfigurazione del sommo rappresentante del rock, la chitarra, qui ripensata nel tentativo di corromperne la grana, di farla deviare dal ruolo iconico che anche il noise più dilaniante non aveva fatto che confermare (per quanto in una sorta di estremizzazione cacofonica). La chitarra diventa non strumento fallico impugnato da statuari eroi pop, ma una componente amorfa e asessuata da plasmare grazie a imponenti pedaliere, su cui tenere lo sguardo inchiodato. L'approccio è quello del compositore di musica elettronica, poi portato ai massimi livelli espressivi anni dopo, con il capolavoro "Loveless".

"Isn't Anything" crea un perfetto equilibrio tra scrittura, melodia e sperimentazione, lavorando quindi di fino nella messa fuori fuoco (o, come suggerisce la copertina, nella perdita dei contorni e dei dettagli in una generale sovraesposizione) di ogni brano. A partire dalla prima "Soft as Snow (But Warm Inside)", sorta di impasto colloso e sghembo, nel quale sfondo e primo piano vanno ad amalgamarsi, dove la distinzione tra le parti si riduce a una pozza di mutazioni cangianti e imprevedibili.

Alternando sospensioni dreamy ("Lose My Breath", "No More Sorry", "I Can See It (But I Can't Feel It)"), fulminanti esperimenti noise pop ("Cupid Come", "(When You Wake) You're Still in a Dream", "Sueisfine) e indefinibili astrattismi ("All I Need"), "Isn't Anything" ha fatto scuola, aprendo ufficialmente la stagione shoegaze e continuando, da allora, a ispirare generazioni di musicisti. Un lascito, fortunatamente, ancora ben lungi dall'estinzione.

► 1998

ed rush wormhole 1998 review
Ed Rush & Optical - Wormhole (Virus)

Gli anni Novanta inglesi sono stati un fiorire di sottoculture elettroniche capaci di rivitalizzare l'underground, a partire dalla cultura rave e dalla jungle, di cui la Drum and Bass e la Techstep rappresentano le costole "intellettuali". "Wormhole", in questo senso, rappresenta un gioiellino (e un vero e proprio tour de force) capace di settare le coordinate per le prossime evoluzioni del genere e la futura scena dubstep. Contemporaneo oggi, doveva sembrare qualcosa di straordinariamente futuristico nel 1998.

"Wormhole" è un lungo ed estenuante incalzare di breakbeats, di bassi gutturali, di sintetizzatori ruvidi e aggressivi. Tuttavia il contrasto dei fondali sonori conferisce al lavoro una doppia natura onirica, avvolgente, riflessiva. Si pensi alle nebbie evanescenti dietro l'intrico ritmico di "Split Thru", alle diffusioni sintetiche di "Millennium", al suono secco, quadrato e krauto di "Compound", ai bassi sconquassanti di "Fixation". In generale ogni traccia coltiva la sua personale estetica del riverbero, del lavorio certosino sulle diverse grane sonore, manipolate entro una tavolozza di colori ampia, cangiante, seppur settata su un generale impianto dark.

Un lavoro coerentissimo, espressivamente compatto. Notevole.


► 2008

kanye west 808s heartbreak 2008 review
Kanye West - 808s & Heartbreak (Roc-A-Fella)

Da qui in poi la frattura tra il "vecchio" Kanye West e il nuovo è netta, nettissima.  Come è netta, seppure il processo vada inteso in senso più graduale, la frattura tra un modo di intendere la black music e un altro. Nel corso degli anni zero, infatti, la musica nera inizia un processo che la porterà a conquistare un nuovo primato, fuggendo dai canoni nu-soul e new jack swing (già minati da personalità celebri come Aaliyah e D'Angelo all'inizio dei 2000) per mutare in senso modernista, onnicomprensivo, elettronico, capace di annullare progressivamente, per l'ennesima volta, le distanze con la musica bianca. E allora Kanye West, la Erykah Badu dei due "New Amerykah" e Janelle Monae possono essere annoverati come i protagonisti della rinascita R&B di inizio anni '10 (oggi ingrediente base tanto del mainstream quanto delle scene alternative).

Con "808s & Heartbreak", quindi, West smette di essere solo un rapper, abbracciando una variegata formula electropop caratterizzata per un'inusuale fragilità, guidata da un continuo effetto autotune che ingentilisce e indebolisce il timbro vocale di West, invece di limitarsi a "correggerlo", conferendo al tutto movenze robotiche e precarie. Il minimalismo di "Say You Will", semplicissima eppure così melodicamente piena, l'ibrido hip-Pop di "Heartless", il gospel robotico di "Amazing", le cromature sintetiche di "Paranoid" , le campionature futuristico-barocche di "RoboCop", le velature ambientali di "Street Lights", le citazioni synthpop di "Coldest Winter": il lavoro fatto da Kanye West va oltre ogni aspettativa, rivoltando come un calzino un genere e aprendo la strada a un rinnovamento epocale.
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