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Disordine

Che almeno sia tutto in ordine.

La stanza non era più caotica del solito, ma valeva comunque la pena che questa volta fosse tutto perfetto. Il sole filtrava obliquamente dalla finestra posizionata a sud-ovest, rivelando i colori rossastri di un cielo che reagiva scompostamente al tramonto. Le giornate si allungavano sempre di più, e si sarebbero estese ancora, nonostante tutto. Tra un paio di mesi le ombre in casa sarebbero state dritte e nette, non sbilenche e tremole come ora. Il momento di una doccia arrivava sempre al vespro, come una preghiera per il corpo stanco, piegato e indolenzito dal lavoro assolutamente non logorante della revisione di pagine elettroniche di fronte a un pc. Una salmodia di abbondante bagnoschiuma. Nemmeno ora voleva negarsi quella dedica a se stesso, quella rigenerazione che, adesso, sembrava una purificazione dal sapore mistico, rituale.

L’acqua scorreva sfrigolando sulla pelle, fumigante nell’atmosfera fresca della sala da bagno, esposta a nord e purtroppo incline allo sviluppo di sgradevoli strati di muffa che si accumulavano sotto gli stipiti e nei recessi tra le mensole infradiciate dai vetri appannati e dai vapori delle docce caldissime, lunghe e lente. L’acqua scorreva e fuggiva giù per lo scarico, portandosi appresso una tensione che si era scavata strade lungo le membra e i muscoli, e che finalmente era esplosa in una curiosa quiete, una docile catarsi innescata da quell’ospite inatteso. La sua era una presenza che richiedeva gesti consapevoli e attenti. Non bisognava farsi prendere dal panico, né dalla fretta.
L’accappatoio era a portata di mano, pronto a fornire calore al corpo fradicio. Bisognava soltanto aprire la finestra per far uscire il vapore.
-Cosa fai?
-Niente, faccio uscire il vapore, altrimenti ci ritroviamo la muffa nel giro di un paio di giorni.
L’effluvio veniva risucchiato dall’apertura vasistas, sospinto da una corrente lenta e inesorabile. Occorreva dare una passata allo specchio perché non rimanessero aloni. Alla prima lucidata ecco spuntare uno sguardo sorpreso di trovarsi faccia a faccia con se stesso in quella situazione, come colto da un improvviso imbarazzo, presto però riappannato dall’aria umida che ancora colmava la stanza. Una seconda passata, ed ecco tutto il volto, le spalle, il petto, uno squarcio di carne tra il tessuto gonfio dell’accappatoio. Le rughe ai lati degli occhi sembravano essersi approfondite, mentre la barba di due giorni induriva i lineamenti di un volto altrimenti morbido, pacifico, nonostante la grinza crucciata tra le sopracciglia. I capelli bianchi, ormai, erano una realtà evidente che faceva capolino attorno alle tempie, screziando il ciuffo che copriva per metà l’ampia fronte, per non parlare del tenue diradamento dei capelli sul vertice del cranio. Lo sguardo ora aveva un che di malinconico, con la linea degli occhi che tendeva all’ingiù, incontrando zigomi prominenti e virili. Era ancora un bell’uomo, se ne rendeva conto con un certo sgomento.
-Vuoi fare notte? Sei ancora lì?
-No, tranquillo, eccomi.

Il bagno era a posto, lo avrebbe lasciato in condizioni di relativo decoro. I piatti da lavare, però, erano d’obbligo. A pranzo aveva mangiato da solo, si era cucinato un primo veloce, approssimativo ma saporito. Tutto era rimasto nel lavandino, una padella incrostata e un piatto lucidato da una scarpetta approfondita. Ci sarebbe voluto poco.
-Lavo i piatti, ci metto un attimo.
Mentre la spugna intrisa di detersivo ostentava la sua azione abrasiva sul bordo del bicchiere e l’acqua scorreva tiepida in totale noncuranza del cambiamento climatico, lui era in pace. Aveva sempre amato l’ordine, il suo ordine: una forma personale di controllo sul mondo. Mentre tutto era caotico e scomposto, lui imponeva alle porzioni di spazio di cui era responsabile precise direttive disciplinanti. Era possibile, per quanto occorresse un certo rigore, impedire alla matassa delle cose di intricarsi e decadere, era possibile porre un freno all’entropia. Servivano limiti, pazienza, coazione a ripetere, da un lato, e dall’altro una sorta di ostinata forma di resistenza, di lotta. Senza essere maniacale (anzi spesso si sentiva dare del disordinato da altri che avevano divergenti concezioni di ordine), riusciva comunque a imporre una forma regolare al suo mondo.

L’acqua scorreva e il bicchiere ormai era più che lucido. Con il piatto ci sarebbe voluto meno zelo, mentre la padella andava scrostata per bene. Lasciata in ammollo, la crosta veniva via piuttosto agevolmente. Gli risultava impossibile, ora che i pezzetti neri venivano eliminati un a uno, finendo dritti giù per lo scarico, non pensare che nonostante tutta l’attenzione prestata fosse stato così facile uscire dal tracciato. In fondo lui si trovava in quella situazione perché non era stato capace, o forse non aveva voluto, imporre un fermo controllo in quella strana mania del gioco. La situazione gli era sfuggita di mano senza che nemmeno se ne rendesse conto: fino a un attimo prima tutto sembrava, come dire, scrostabile. Bastava avere pazienza, tutto sarebbe rientrato nel giusto ordine. E invece no, si era trovato sommerso dai debiti, debiti contratti con le persone sbagliate, gente di cui non sospettava neanche l’esistenza. In poche parole, da quello che aveva capito, si era indebitato con un tizio a sua volta nei guai, il quale aveva fatto scarica barile sull’ultimo anello della catena.
Quello che lo differenziava da altri finiti nella stessa situazione, pensava, era stato l’essersi immediatamente reso conto di come non esistessero reali vie di fuga: avrebbe dovuto immergersi in una spirale senza fine, ne era consapevole, e non aveva nessuna intenzione di cacciarsi in un vortice di cui non avrebbe controllato le dinamiche. Non voleva aumentare il caos. Non aveva soldi sufficienti per coprire quel debito, su questo era stato chiaro. Avrebbe accettato le conseguenze, lo aveva ribadito più volte. Avrebbe accettato di far parte del senso dell’ordine di qualcun altro.

Spense l’acqua, si asciugò le mani, ripose il panno ben piegato accanto al lavandino e uscì dalla cucina. Si accorse con sorpresa che il suo ospite dormiva, un braccio penzoloni lungo la poltrona, la bocca lievemente aperta, un’aria innocua. Percepì appena un guizzo, un baluginare di possibilità. No, non ne valeva la pena. Avrebbe aspettato: in fondo poteva ancora sistemare un paio di cose, qua e là. Prese l’asse da stiro, silenziosamente, e attaccò il ferro. Scelse con cura cosa stirare: optò per un paio di camicie, una maglietta e tre paia di pantaloni. Il ferro era caldo e sbuffava vapore lungo le pieghe dei capi colorati, solcando i tessuti dalle diverse tessiture. Stirare le camicie richiedeva una particolare dedizione. Si ritrovò immerso nell’operazione, ogni pensiero cancellato dai gesti precisi orientati a lisciare le superfici, a riporre per bene i capi stirati, a regolare il getto di vapore a seconda della natura del materiale.

Improvvisamente fece capolino l’uomo. La sua faccia era una cera squagliata: la sorpresa di trovarlo ancora lì e la vergogna di essersi addormentato in un momento tanto critico erano come forze opposte che lottavano per conquistare il loro primato sui lineamenti del viso, contratto da scosse deformanti.
-Tu sei pazzo...
-Ho quasi finito, arrivo.

Spense il ferro, ripose l’asse, diede una rapida occhiata in giro: tutto a posto. Era ora.
Si mise in mezzo alla stanza del soggiorno, di fronte all’uomo che, ancora imbambolato, si stava preparando. Clic, il cane.
-Sei pronto?
-...No, aspetta, lasciami prendere una cosa.
Scomparve nel corridoietto che dava verso lo studio, aprì un armadio a muro e tornò con una grossa cerata da campeggio, che stese con cura sopra il tappeto che copriva il pavimento in parquet del salotto.
-Ora sono pronto.
-Tu sei matto. Vuoi anche dirmi quando posso fare?
-Perché no?
Si guardò intorno ancora una volta, scrutando i contorni delle superfici del mobilio ormai in piena controluce, immersi in un’armonia complessiva che lo fece sentire placidamente soddisfatto.

-Tre, due, uno.
SPARA.
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