Avrebbero potuto chiamarsi “The Decemberists & Olivia Chaney”, in fondo. E invece no. La scelta del nuovo nome non solo suggella la differenza qualitativa del progetto, ispirato al british folk-rock di Fairport Convention e Steeleye Span, ma rimarca anche i pesi relativi delle varie componenti: non Olivia Chaney come semplice vocalist, ma un vero e proprio scambio di ruoli tra lei e i Decemberists, prestati a band di supporto. È la Chaney che conduce, la sua voce che viene lasciata sola in più di una occasione, lei che conferisce ai brani la credibilità in grado di rendere l’album tanto riuscito. Eppure lo spirito collaborativo è altrettanto forte, e lo è fin dall’inizio della storia, cominciata con un tweet di Colin Meloy -capace di innescare la scintilla che avrebbe portato ad un tour comune- e giunta a questo “The Queen of Hearts”, omaggio appassionato alla tradizione folk britannica, qui riscritta, reinterpretata, rivitalizzata secondo il gusto del revival anni Sessanta-Settanta.
Che la cosa funzioni perfettamente lo si capisce fin dalla prima traccia omonima, dove si fondono un harpsicord dolente e una chitarra liquida, mentre la voce lirica e vibrante della Chaney solca un’atmosfera classica, densa, psichedelica. È però la splendida “Blackleg Miner” (piuttosto fedele, anche se rinvigorita e arricchita, alla versione degli Steeleye Span), a farci entrare pienamente nel mood dell’album, per una cavalcata dove fraseggiano, in un incedere elettrico e fiero, gli arabeschi di una chitarra acida, il borbottio dell’harmonium, lo strimpellio di un mandolino, il tutto saldato dal duetto tra Meloy e Chaney, coppia affiatata e piacevolmente complementare.
Alchimie elettriche, jigs irlandesi, folk-rock settantiani, sospensioni psych, sonorità cajun: tutto questo in brani come la strumentale “Constant Billy (Oddington)/I'll Go Enlist (Sherborne)”, l’eterea “To Make You Stay”, la bellissima “Bonny May”, dove le chitarre incalzano e montano a ondate di crescente fragranza (come non riconoscere, qui, il tocco caratteristico dei Decemberists?), aggiungendo pathos all’eccezionale performance della Chaney, cristallina e potente, degna di una Sandy Denny o di una Maddy Prior.
Sono le ballate, però, ad offrire il meglio dell’opera: “The Gardener”, tra il tremolare dell’arpeggio elettrico e il lamento della viola, rivela una plasticità e intensità da capogiro, mentre l’interpretazione di “The First Time Ever I Saw Your Face”, in quella sospensione ariosa creata dal drone d’harmonium, non può che lasciare a bocca aperta, convincendo anche i più scettici della validità (e onestà) della proposta, arrivando infine al capolavoro dell’album, l’ottima “Flash Company” (da ascoltare anche la versione di June Tabor), che tra armonie elegantissime, squisiti equilibri in sede di arrangiamento, sentito lirismo, rappresenta semplicemente uno dei più bei brani folk degli ultimi anni.
Tra ulteriori delizie (“The Old Churchyard”) e interessanti sorprese (la versione heavy di “Sheepcroock and Black Dog”), “The Queen of Hearts” giunge alla fine regalandoci la piacevole (e durevole) sensazione di un omaggio condotto con ottimo gusto, oltre alla freschezza di un linguaggio in grado di stare al passo coi tempi (dall’interpretazione energica alla produzione avvolgente). Incarnazione premiata: un lavoro riuscitissimo.
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