“Gli anni Sessanta iniziarono nell'estate del 1956, finirono nell'ottobre del 1973 e culminarono poco prima dell'alba, il 1 luglio 1967, durante un'esibizione dei Tomorrow all'UFO Club a Londra”.
Così il produttore statunitense Joe Boyd, nel suo “White Bicycles. Making music in the 1960s”, descrive quell'incredibile lungo decennio. Un periodo di straordinaria vitalità artistica, culturale e politica, dove sembrava esistere una consapevole commistione tra le tante ramificazioni di un pensiero progressista generalizzato ed egemone. Un progetto complessivo di rinnovamento sociale e culturale che poteva contare su di un sentire diffuso, serpeggiante: un sentire che si sviluppava a partire da trasformazioni e rivendicazioni comuni, dai fermenti anti-imperialistici (particolarmente cari agli studenti americani chiamati alla leva), dalle nuove esigenze di welfare, consumo e democrazia, tra reciproche “invasioni” musicali da ambo i lati dell'oceano (quella british negli Usa e, contemporaneamente, quella rythm and blues in Uk).
Esistevano, però, anche delle differenze. Ed è sempre Joe Boyd, statunitense innamorato pazzo della swinging London, a rimarcarle bene: “c'era una rinfrescante eterodossia riguardo alle categorie e la scena pop sembrava aperta ad ogni genere di musica”, scrive parlando del suo arrivo a Londra nel 1964. Un preludio promettente, se consideriamo i nomi che si apprestavano a popolare quel macrocosmo artistico. Non è tutto: “(In America) i genitori i cui ragazzi ritornavano da scuola o dal college con i capelli lunghi e un'attitudine ribelle spesso rimanevano scioccati”, mentre “in Inghilterra ho visitato pub dove ragazzi con l'orecchino e con i capelli lunghi stavano a bere la loro pinta del sabato accanto ai loro padri con la coppola”. Un confitto generazionale ben più attutito, dunque, e una realtà più tollerante, dove si tendeva a relegare le stranezze giovanili a fenomeni di mero costume. Sarebbe stato il punk a far deflagrare, dieci anni più tardi, un conflitto insanabile.
I giovani inglesi, però, erano in subbuglio, anche se spesso poco più che “simbolico”. Gli Who, nel 1965, cantavano “I hope I die before I get old”, i Rolling Stones esponevano una trasgressione al contempo sessuale e orgogliosamente working class, la velocità Mod impazzava facendosi sempre più roboante, le sofisticherie degli studenti d'arte si tramutavano in filastrocche drogate e in complesse suite sgangherate, assorbite a meraviglia dai Beatles che, già nel 1965, davano un suono alla fascinazione orientale con la loro Norwegian Wood (per sfociare nel supremo Revolver del 1966). E da lì alla definitiva consacrazione delle nuove tendenze (leggasi Pink Floyd), il passo fu breve. Nel mezzo diversi nomi: Pretty Things, Donovan, Wilde Flowers, Kinks, Small Faces, The Move e chi più ne ha più ne metta. Nel 1967, infine, la deflagrazione definitiva.
II. Tomorrow? Never Knows.
I Tomorrow finirono col diventare degli “aficionados” dell'UFO Club, fondato a fine '66 al Blarney Club in Tottenham Court Road, un dancehall irlandese adocchiato da John Hopkins e Joe Boyd. I Tomorrow diventarono, grazie a singoli strepitosi e session leggendarie, tra i grandi nomi della Londra psichedelica dei tardi anni Sessanta. Un'influenza che, a discapito della breve vita dell'ensemble, generò figli illustri: il batterista John Alder (in arte Twink), entrò nell'organico dei Pretty Things per il loro S.F. Sorrow e più tardi, nel 1970, sfornò il capolavoro Think Pink, mentre il chitarrista Steve Howe, inutile dirlo, fu indissolubilmente legato agli Yes. Meno rilievo ebbero le carriere del vocalist Keith West e del bassista John "Junior" Wood.
Attivi prima come Four Plus One e poi come The In Crowd, nel 1967 i Tomorrow erano pronti per entrare a testa alta nel vivace mondo londinese: nel maggio di quell'anno arrivava il primo singolo My White Bicycle, affiancato dal pezzo Claramount Lake. A settembre, invece, usciva Revolution, cui veniva associato il brano Three Jolly Little Dwarfs. Sarebbe stato però il 1968 a dare la luce all'album omonimo, pubblicato a febbraio dalla Parlophone.
Non fu solo l'attività live ad impegnare i quattro musicisti nel frattempo: in attesa che la Emi si decidesse a pubblicare l'album (le cui registrazioni iniziarono nella primavera del '67), Howe e West seguirono il produttore Mark Wirtz nel suo ambizioso progetto “A Teenage Opera” (1968). Nonostante il ritardo, e nonostante tra il 1967 e il 1968 il rock psichedelico avesse fatto passi da gigante, Tomorrow appare -ascoltandolo oggi- tutt'altro che superato. Il disco è una sgargiante raccolta di brani caleidoscopici, capaci di mescolare prorompenza garage, soluzioni sonore avanguardistiche e una deliziosa freschezza melodica di stampo baroque-pop.
La White Bicycle del pezzo introduttivo, innanzitutto: un chiaro riferimento ai Provos olandesi, il cui simbolo era appunto la bicicletta dipinta di bianco, simbolo di un progetto -anzi di un Piano- di socializzazione dei mezzi di trasporto (praticamente gli inventori del bike sharing). Un manifesto d'intenti che si dispiega in un contesto sonico mutante e stordente, fatto di una meccanica ritmica incessante, di strati di chitarre in tape reverse, solo orientaleggianti, basso pulsante: il tutto per un soundscape saturo e denso, sorta di versione anarcoide dei primi Pink Floyd.
Si procede con la deliziosa marcetta di Colonel Brown, con quel suo basso plastico e la chitarra sempre in prima linea nel seguire -ricamando o graffiando- lo sviluppo melodico, per continuare con il primo vero capolavoro dell'album: Real Life Permanent Dream. Si tratta di un viaggio intenso e coloratissimo, un infittirsi armonico a base di sitar ed accelerazioni repentine, arrestate solo da un ritornello sospeso ed etereo. Un pezzo modernissimo, le cui pulsazioni e il cui senso del ritmo sono già in modalità rave. E se un brano come Shy Boy costituisce un perfetto acquerello brit alla Kinks (quella linea d'organetto...), Revolution torna a martellare dando vita ad un inno anarchico radicale tanto nella forma che nella sostanza: una stilettata corrosiva strutturata in forma collagistica, che si concede solo un istante al motivo melodico del refrain, ritornando poi in un gorgo acido che si trasforma in bozzetto barocco, e infine nel caustico e rumoroso inneggiare “Revolution! Now!”, immerso nei riff abrasivi della chitarra di Howe.
I brani seguenti sono altrettanto coinvolgenti: dalla pinkfloydiana -ma personalissima- The Incredible Journey of Timothy Chase, al baldanzoso pop psichedelico di Three Jolly Little Dwarfs, dominato dal fenomenale chitarrismo di Howe, continuando con l'anfetaminica e mod Now Your Time Has Come, fino alla conclusiva Hallucinations, a base di acustica contrappuntata dai ricami di chitarra elettrica e dall'enfasi del refrain. Un lavoro curatissimo, iper-stratificato, reso unico grazie ad una cura sopraffina in fase di produzione. I pezzi sono espansi, gonfi, il suono è saturo, con un basso che riempie le textures e una chitarra dalla consistenza acida e graffiante. Di grande impatto anche i vocals di Keith West, corposi e prestanti, mai messi in secondo piano dal fragore strumentale.
III. Una serata indimenticabile
Ora immaginatevi di sentire Revolution verso le quattro del mattino, a tutto volume, dopo essere ritornati da un corteo improvvisato per Piccadilly Street, diretto davanti alla sede del giornale “News of the World”, reo di buttare benzina sul fuoco lanciando strali contro la droga, gli hippies e il malcostume giovanile. Hopkins, uno dei due fondatori dell'UFO, è in gabbia per possesso di droga, e tutti sono incazzati e nello stesso tempo euforici. La coesione tra band e pubblico è totale. È il 1967 e le cose sono in fermento. La serata è indimenticabile. I Tomorrow, di quel tempo, ne hanno letto e interpretato -e vissuto- un bel pezzetto. Vale la pena omaggiarli e ricordarli. Sciolti nell'aprile del 1968, il loro unico album è più che musica. È storia.
Recensione tratta da: http://www.storiadellamusica.it/classic_rock-psichedelia-wave/psychedelic_rock/tomorrow-tomorrow%28parlophone-1968%29.html
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