Cerca nel blog

Saint-Brieuc

Il vecchio noce spacca in due lo stradone di ciottoli grossolani che, di fronte a quell'ostacolo, si sdoppia in diramazioni opposte, ognuna costretta a digradare per conto suo verso la cattedrale, tra antiche casette a graticcio dai colori tenui in elegante contrasto con la pietra scura che altrimenti si imporrebbe nello scenario medievale del borgo. Il noce è lì da chissà quanto, e ora una piazzetta lo circonda come a volerlo preservare. Pare che tutta la città si sia sviluppata partendo dal vecchio noce. Prima la strada deviata da quel tronco secolare, poi la piazzetta a cuneo, con i muriccioli su cui da secoli si adagiano gli avventori dei caffè intorno, e così tutta la morfologia della città sembra essersi organizzata per assecondare le forme a mano a mano imposte da quell'unico elemento immoto, fisso, eterno. Proprio come le onde che si formano attorno al tonfo di un sasso lanciato nell'acqua, così la città si propaga a cerchi concentrici, via via più frastagliati e immemori della loro necessaria origine. 

Io sono sotto al noce, la seconda birra fresca sul mio tavolino in ferro smaltato, seduto sul muretto che delimita il perimetro della piazzetta. Attorno a me poche persone, forse perché è ancora presto e gli abitanti di questa città devono ancora uscire da lavoro. Sono qui perché volevo viaggiare da solo, e invece non faccio che cercare lo sguardo degli altri. Potrei dire di essere proprio come gli strati più esterni di questa città nata dal lancio di un sasso: man mano che proseguo nel viaggio mi deformo e non combacio più con le intenzioni della partenza. 

Sono ormai un paio d’ore che sto seduto a questo tavolino. I bicchieri di birra si accumulano, lenti, per venire portati via da una cameriera simpatica, che ora mi sorride. Deve aver capito che, nonostante il tasso alcolico, non rappresenterò un problema. Con il passare del tempo è come se la città mi abbracciasse, dandomi l’illusione di una familiarità del tutto frutto del torpore dell’alcool. L’aria profuma, è sera. Una coppia vicino a me è impegnata in una di quelle chiacchierate abbandonate e intime, allacciata da una sinuosa prosodia straniera di cui colgo appena qualche frase. Vorrei allacciarmi a quel ritmo, prendere l’onda e unirmi alla discussione. Lui ad un certo punto ha un moto, un impeto delicato, gira il tavolino rettangolare di novanta gradi, in modo da accorciare le distanze. Un bel gesto. Lei apprezza, perché approfittando della nuova vicinanza, gli stringe un braccio. Si guardano. Distolgo l’attenzione, questa non sembra una scena destinata ad essere consumata da qualche estraneo a caso. 

Prendo il taccuino lasciato aperto sul tavolo e segno tre strofe tremolanti: 

“Non è che una speranza vana nel tempo 
Lo sguardo che rivolgo al vuoto astratto 
Che si sdoppia di continuo tra te e me” 

Tutto in questo viaggio è doppio. Il rifrangersi del cielo sui vasti bagnasciuga inumiditi dalle maree, il confronto continuo tra terra e oceano, la quiete dei borghi e la furia agitosa del vento che spinge le onde contro le scogliere a precipizio, le intenzioni che mi spingono e mi frenano. Ora, però, è tempo di alzarsi. Mi guardo ancora attorno ma non trovo nessun appiglio al quale aggrapparmi. Devo continuare a spingermi oltre, proseguendo verso ovest. Non è per niente scontato abbandonare di continuo ciò che ci fa star bene. L’istinto mi suggerirebbe di fermarmi, di allungare il soggiorno in questa città che mi pare tanto accogliente, tanto mia. Star fermi è la forza seducente più insidiosa da contrastare durante un viaggio. Mi alzo a fatica, le gambe indurite dalla seduta prolungata e dalle tante birre. Lancio, con la coda dell’occhio, una sbirciata alla coppia vicino. Non si stringono più, nemmeno si parlano. Lei mi rivolge un’occhiata svogliata, mentre io raccolgo lo zaino e cerco di tenermi saldo, consapevole di apparire per quello che sono: uno straniero solitario e ubriaco che sta lasciando per sempre questo posto, senza lasciare niente di sé. 

Dal canto mio, invece, c'è molto in gioco. Rescindo un legame effimero, ma pur sempre un legame. Mi decido, saluto i due, schiarendomi la voce e incespicando in un “au revoir” che suona vano. Loro, però ricambiano entusiasti e mi sorridono. Hanno pochissimo da perdere. Mi basta così poco per ritrovare il coraggio. Mi allontano senza voltarmi, pago e saluto ancora la cameriera, la mente già oltre, già a domani. La strada che ho fatto prima la ripercorro all'incontrario, per l’ultima volta. So dove andare. Accetto tutto. Solo il noce, come sempre, resta fermo, immobile.
Share:

Recensione ► The Millennium - Begin (Columbia, 1968)

La storia del pop è da sempre una storia di produttori geniali: Phil Spector e Joe Meek, con il loro approccio futurista e innovativo, Sam Phillips e il rock'n'roll, Don Kirshner e la sua scuderia Brill Building, Berry Gordy e la Motown, per non parlare del George Martin "quinto membro" dei Beatles. Il produttore definisce la visione, guida l'artista (in maniera più o meno dittatoriale, oppure assecondandone maieuticamente la personalità), struttura il soundscape, mette a fuoco un timbro, un marchio di fabbrica (si pensi a Steve Albini). Curt Boettcher, nome obbligatorio in una qualsiasi classifica dei migliori produttori di sempre, era capace - come molti altri del suo mestiere - di dominare tutto il processo creativo, dalla produzione al songwriting, dall’arrangiamento all’ideazione di stravaganti tecniche sperimentali, rappresentando una delle più importanti figure del suo tempo: tra i padri putativi del sunshine pop, Boettcher mise la sua peculiare visione al servizio di band di culto come The Association e Eternity's Children, partecipando come musicista e autore, assieme al produttore dei Byrds Gary Usher, alle esperienze estemporanee ma fondamentali di Sagittarius e Millennium, due band cruciali per la definizione dell’estetica sunshine e baroque pop californiana di fine anni Sessanta. 

Il progetto Millennium prende forma dai Ballroom, band in cui militavano Boettcher e Sandy Salisbury, e si completa grazie all’ingaggio dei chitarristi Michael Fennelly, Lee Mallory e Joey Stec (cinque chitarristi, se contiamo anche Curt e Sandy), del batterista Ron Edgar e del bassista/tastierista Doug Rhodes, entrambi provenienti dall’esperienza Music Machine, assieme al co-produttore Keith Olsen. Pubblicato nel luglio del 1968, Begin, primo e unico lavoro dei Millennium, è un incredibile capolavoro, perfetto sotto ogni aspetto, punto di arrivo e di partenza per la psichedelia, il pop barocco, il rock progressivo, correnti plurime cristallizzate in una manifestazione artistica senza tempo. Non solo: in Begin, come racconta David Howard in Sonic Alchemy: Visionary Music Producers and Their Maverick Recordings, si sperimenta alla grande, utilizzando per la prima volta un registratore a sedici tracce, manipolando i nastri, giocando con l'effetto reverse sugli eco, mescolando musica elettrica e strumenti tradizionali, sontuosi arrangiamenti orchestrali e complessi overdubbing di armonie vocali, risonanze e timbri inusuali, per un vero e proprio wall of sound di effettistica all’avanguardia. Da notare, inoltre, l’approccio totalizzante - una forma di DIY in anticipo sui tempi - con il quale il produttore-musicista si impossessa della lavorazione dell’album, sottraendolo al controllo della Columbia: “we produces ourselves […], half of the Millennium’s production staff is in the group and actually play. In effect, all of us are producers”, dichiarava un Boettcher eccessivamente democratico (basti leggere questa intervista di Michael Fennelly per capire cosa intendo) alla rivista losangelina Open City. 

Si parte con "Prelude", sorta di trip hop ante tempore (con tanto di loop di batteria) in salsa fieristica, tra arrangiamenti di clavicembalo e ottoni che imbastiscono il tema della successiva "To Claudia On Thursday", delicatissima e sognante, scritta da Michael Fennelly e Joey Stec, perfetto connubio corale di sunshine pop e bossa-nova, impreziosito da un basso tondo e plastico e dall'intervento esotico della cuíca brasiliana. La scaletta non smette mai di stupire: una dopo l’altra si avvicendano perle come "I Just Want to Be Your Friend" e "I'm With You", colme di preziosismi in sede di arrangiamento, tra tenue psichedelia, acid rock e elementi da camera, senza contare il caldo blue-eyed soul di "Sing to Me", la sperimentazione timbrica della guitar pop di “It’s You”, con ogni elemento espanso in un coacervo di loop vocali e pennate sorde di chitarra, il country rock alla Byrds (con citazione di “My Girl” dei Temptations tra le righe) di "Some Sunny Day", l'hard rock gonfio e spazioso di "The Kow It All", o la psichedelia barocca e visionaria di "Karmic Dream Sequence #1", profondo lavoro su nastri e suoni astratti (la coda è davvero qualcosa di mai sentito). Gemme tra le gemme la splendida "5 A.M.", scritta da Sandy Salisbury, variopinto bozzetto sunshine condotto da un basso giocoso su una ritmica a base di bongos e su vaporose correnti di armonie vocali; "The Island", scritta da Curt Boettcher, sonnacchioso folk-pop di sonorità molli e narcotizzanti e corredo di effetti tropicali; "There Is Nothing More to Say", firmato dalla coppia Boettcher/Mallory, favoloso ed enfatico inno psych-pop striato dalle chitarre in tape reverse e dalle magniloquenti sovra-incisioni di armonie corali che seguono il continuo e drammatico crescendo del brano. 

Costato un'immensità (100mila dollari) e non seguito dal dovuto riscontro commerciale, Begin è reso ancora più affascinante dal suo essere un prodotto "fallimentare". Troppo avanti allora, oggi è invece uno scrigno delle meraviglie capace di dispensare tutto il suo potere creativo. “We’re not tryign to appeal to the Underground market, because it really doesn’t exist. We’re over ground”. Di cinquantenni così, in giro, se ne vedono (sentono) pochi. 

*Buona parte delle informazioni per questa recensione sono state reperite QUI.
Share:

I fiori non ti fanno del male

I petali si arricciano al contatto con la pelle deformando la loro consistenza di velluto. Un fatto non percepibile ad occhio nudo, ma io lo sento. Sento che fremono di piacere assieme a lei. Sento anche che tutto questo sta diventando sempre più pericoloso. Mentre mi infilavo nel viottolo che scende verso il suo appartamento avrei giurato di avere mille occhi addosso. Dev’essere solo paranoia, qui è facile sentirsi osservati: i nativi più estremisti non sono per niente clementi con gli alieni trovati a insidiare una di loro. Lo considerano ancora peggio delle concessioni farlocche che gli strappiamo per la nostra fame di acqua salata. Giusto qualche mese fa uno dei nostri è stato rimandato alla base con le mani legate penzoloni attorno al collo. Mentre mi perdo nelle mie congetture un sussulto le spezza la voce, geme. Una leggera scarica si diffonde dallo stelo ai miei polpastrelli. Al contatto con i petali i microscopici bulbi piliferi si irretiscono e tirano, tendendo l’epidermide. È tutto connesso, dall’uno all’altro capezzolo, un intreccio invisibile di fibre eccitate che si saldano dietro la nuca e si allacciano poi in misteriosi punti nevralgici lungo la schiena, attraverso il costato, sotto le ascelle. 

- Questa cosa sta diventando troppo intima. Lo dice mentre una rugiada sottile inghiotte le corolle sgualcite. 
- In che senso? Noi? 
- No, non noi. I fiori. Sono di troppo. E a volte mi sembra che tu sia più interessato a loro che a me

Come darle torto. Loro, i fiori, sono un tripudio di connessioni nuove. L’interazione che si crea con il mondo vegetale di questo posto mi ha affascinato fin da subito. Non si può parlare di creature senzienti, non sarebbe del tutto esatto. Qui i fiori, le piante, trasmettono flussi di energia. Assorbono e amplificano le sensazioni. Che da questo scambio ne ricavino qualcosa anche loro è dubbio. Io però ne sono sempre più persuaso. E questa sua gelosia improvvisa non fa che confermare la mia convinzione. La vegetazione del luogo da cui arrivo non è minimamente paragonabile: fusti coriacei, sgorbi di intrichi contorti, escrescenze sgraziate, trionfo della funzionalità. Roba che stocca carbonio e rilascia ossigeno in gran quantità. E basta. 

- Ma davvero tu non senti niente? Non è la prima volta che cerco di sondare le sue sensazioni a riguardo. 
- Io sento solo te. E mi basta. Voi alieni avete un’elettricità che mi lascia ogni volta senza fiato. Quindi se vuoi continuare a giocare con i fiori va bene, ma pensa anche un po’ a me
Mentre esprime questo desiderio mi stringe le dita attorno. Decido che i petali possono aspettare e decido anche di sorvolare su quel “voi”. 

Amo vederla splendere nella luce magnetica della sera quando si tira su per mettersi a sedere e la schiena inarcata, irrorata di goccioline di sudore, rifrange in un caleidoscopio i riflessi dei raggi lunari che filtrano da fuori. Siamo uguali, noi e loro. Solo che noi siamo arrivati dopo. Nessuno sa come sia possibile che apparteniamo alla stessa razza. Ogni differenza tra le nostre due specie sembra, o così ho avuto modo di constatare, legata puramente a fattori ecologici. Poco da fare, dalle nostre parti c’è meno bellezza. E quindi ci siamo sviluppati senza la stessa frastagliata gamma comportamentale che qui tutti hanno, tanto nel sesso quanto nella violenza, fin nelle più innocue attività quotidiane. Lei in particolar modo. Il tempo però ha indurito questa gente, perché nessuno sembra disposto a riconoscersi in un simile potenziale, mostrando invece un cinismo affettato, una spudoratezza forzata. Sono sicuro, però, che anche lei sente i fiori. 

Quando esco dall'appartamento, dopo averle dato un ultimo bacio, stacco una delle tante primule colorate dal suo stelo e me la appunto alla giacca termoregolante. I due materiali a contatto stridono, ma non importa. Ogni volta non riesco a resistere alla tentazione di portarmi appresso un po’ del suo mondo, per quanto ciò significhi condannarlo a sciuparsi e morire. 

Oltre questo gruppuscolo di case dove sembra non abitare nessuno regna la desolazione più totale. Gli arbusti e le sterpaglie si ammucchiano qua e là, secondo geometrie casuali, lasciando che la propulsione del mio levitatore a trasmissione magnetica compatti sul suolo un solco nudo e brullo, che visto dall’alto sembra un confine naturale, magari uno di quei sentieri un tempo battuti dagli zoccoli coriacei di qualche bestia della steppa montana. Il mio mezzo scorre rapido fendendo con un sibilo l’aria gelida di queste latitudini boreali: sono così abituato a percorrere la mia solita porzione di spazio, talmente monotona da far venire la nausea, che mi accorgo troppo tardi di una scatoletta metallica circolare posizionata proprio nel bel mezzo della traccia. Me ne accorgo solo dopo esserci finito sopra. 

Merda!”. Lo penso mentre lo stomaco mi finisce in gola, sbalzato nel vuoto improvviso dei campi magnetici inversi generati dalla trappola. Riesco a imprimere una sterzata a pochi centimetri da terra, recupero potenza e levito debolmente verso l’alto, ma è troppo tardi, perché un’altra forza mi trattiene spingendomi all’indietro. Sono impigliato in qualcosa, filamenti sintetizzati dalla tela di certi ragnetti di queste parti. Scelgo di disarcionarmi e attivare le cellette laser della mia tuta. Il mezzo si schianta a pochi metri sollevando un polverone. Io sono di nuovo libero ma il tonfo al suolo è così forte che perdo il fiato. So già che, nonostante la mancanza di respiro e lo stordimento, devo fare una sola cosa: allontanarmi subito, in fretta. In lontananza, alle mie spalle, dei lumicini pulsano nel buio. Un brusio elettrico di eccitazione e voci si diffonde attraverso l’aria percorsa da intense folate di vento. Arrancando mi inoltro verso est, dove i cespugli si fanno più fitti per addensarsi in una macchia insolitamente rigogliosa. Cerco istintivamente la primula che avevo ancorato al bavero: ovvio, non c’è più. Tenendomi basso supero la prima fascia di vegetazione, lasciando tracce di brandelli di tessuto raccolti da spine e rami irti. Non ho nessuna speranza, se non quella offertami dal buio, dalla fortuna e dal paio di deflagratori a microfissione che tengo alla cinta. Approfittando del fronte rigonfio di cespugli di ginepro che, come una barriera, spezzano la steppa circostante, mi acquatto e mi appiattisco a terra. Il silenzio è rotto solo dal tonfo sordo del cuore e dal frusciare del vento sulle superfici. Non sento più le presenze di prima, devono essere all’erta pure loro. Sanno che nessuno di noi gira disarmato. 

Non devo essermi reso conto della foga con cui ho attraversato i cespugli, ma ora sento le lacerazioni sulla pelle. Niente di così grave. La caduta di poco prima invece continua a spezzarmi il fiato. Mi trascino ancora per qualche metro, fino a trovare un avvallamento del terreno nel quale accovacciarmi. Mi accorgo, una volta posizionato in modo da risultare il meno visibile possibile, di essermi addentrato in una piccola ed inattesa oasi, probabilmente sorta grazie al riparo offerto dai muri di ginepro. Sparsi a casaccio su tutta la superficie una serie di tronchi si contorcono tenendosi bassi, attorcigliati come a voler aumentare la presa sulla scorza di terra dura e accigliata. Le fronde, rade ma spesse, devono offrire piacevoli trame d’ombra nelle giornate assolate e aride. Il satellite bianco di questo pianeta proietta la sue luce riflessa dando vita ad ombre delicate, permettendomi di distinguere i contorni traslucidi delle cose notturne. Poco lontani da me vi sono alcuni cespugli di rosa canina, e la tonalità accesa delle loro bacche rosse si sposa alle colorazioni bluastre del ginepro, al color sabbia dei rami, alle foglie scure. 

Improvvisamente percepisco una presenza che mi scava sotto pelle, facendomi vibrare i muscoli esausti. A pochi passi dal mio riparo, incastrata nella spaccatura di un masso erratico avviluppato negli arbusti rinsecchiti, spunta come una fiammella viva un mucchietto di petali rosa scuro, sorretti da larghe e spesse foglie dentellate. Un pugno di primule accende quell’anfratto crepitando nell’oscurità. Carponi raggiungo il mucchietto e allungo una mano. Non appena il polpastrello entra a contatto con la materia soffice dei fiori una scarica mi percorre la spina dorsale: sento ogni fibra del mio corpo assorbire quella che è a tutti gli effetti una melodia, o una lingua calda passata sulla pelle tra sequenze di morsi teneri. E poi, a ritroso, senza volerlo davvero, restituisco la stessa sensazione alle corolle, e mi pare di vederle flettersi e respirare, dilatandosi in un moto di gratitudine. Non capisco come ma c’è stata una comunicazione, un amplesso. Mi sento appagato, estatico, tanto da non curarmi del motivo per cui mi trovo rannicchiato nella steppa. Fisso lo scapo ricco, mi concentro sulle fluttuazioni che i gambi restituiscono ad ogni alito di vento, il quale arriva carico degli scambi odorosi con le foglie spinose dei ginepri. Mi accorgo d’un colpo di avere una mano pronta a far scattare la sicura del primo deflagratore. Mi stupisco di me stesso: come potrei mai incenerire tutto questo? Questi fiori non mi hanno fatto niente di male. Rimetto in sicurezza l’ordigno e lo ricaccio nel cinturone, e sento che anche il ramo contorto, a pochi metri dal mio fianco destro, lancia segnali di riconoscenza attraverso gli scricchiolii secchi prodotti dalla sua danza sinuosa. Il vento ora si fa più forte e tutto attorno a me si scuote, danzando e sorridendo. Mi immergo nella sinfonia prodotta dal vento che suona ogni elemento rispettando la sua consistenza. È tutto così madido di reciprocità, qui. Mi rannicchio e come per magia le piante intorno si fanno più vicine, come a volermi avvolgere. Il brusio di prima riprende, vicino, assieme ai tonfi sordi di passi avventati. 

Non me ne curo. Chiudi gli occhi e accarezzo i petali, pieno della sensazione di un dialogo amoroso che, in fondo, unisce quello interrotto con la mia terrestre, poche ore fa, e riassume il ricordo dell’amore di domani, di dopodomani. I fiori sanno fare questo. Come sto bene qui. Niente a che vedere con la vegetazione delle mie parti. Troppo funzionale, solo ammassi di carbonio e rigurgiti di ossigeno.
Share:

Recensione ► Elliott Smith - Roman Candle (Cavity Search, 1994)

elliott smith roman candle

Roman Candle è tutto quello che viene prima: prima della notorietà, del successo, dei tour mondiali, delle interviste e delle prime di copertina sulle riviste musicali. Roman Candle è un lavoro intimo, la testimonianza di una sensibilità che con gli Heatmiser non riusciva proprio a venir fuori, sovrastata da una corazza indie rock che non faceva per Smith, forse consapevole che tanto valeva lasciare il genere a giganti come Fugazi, Nirvana e Dinosaur Jr. 

E no, Smith non era un gigante, al contrario: timido, riservato, semplice, catapultato alla notorietà allo stesso modo con cui Gus Van Sant era passato dai suoi ritratti americani alternativi al mainstream di Will Hunting, in maniera improvvisa, fugace (per registrare il brano candidato all’oscar “Miss Misery” Elliott fu chiamato da Van Sant, a sua volta scelto da Ben Affleck e Matt Damon per la regia della loro sceneggiatura). 

Odiavo la mia band”, dichiarava Smith a Rumore, nell’aprile del 2000, raccontando la carriera parallela del biennio 1994-1995, quando, contemporaneamente alle sessioni con gli Heatmiser, registrava le sue canzoni a base di chitarra e voce, finite poi sugli album Roman Candle (Cavity Search, 1994) e Elliott Smith (Kill Rock Star, 1995), entrambi pubblicati da piccole etichette indipendenti prima di finire stabilmente nel roster della Domino e, infine, approdare alla Dreamworks

Roman Candle è tutto quello che viene prima, si diceva, anche prima della consapevolezza di essere “quel tipo di musicista”, di essersi reso conto che sarebbe stata proprio quella la strada da percorrere. Spedito alla Cavity Search di Portland dalla sua ragazza (e manager degli Heatmiser) J.J. Gonson, l’esordio di Elliott Smith è un lavoro dotato di una purezza incontaminata e di un’ingenua immediatezza, sospeso in un mondo separato, appartato. Ecco, proprio il suo essere una creazione contingente (se non accidentale) rende questo album tanto affascinante, tanto speciale. Non è un caso che si sia tirato in ballo Nick Drake per un paragone tra il suo Pink Moon e questo Roman Candle: entrambi gli album sono confessioni private svelate al pubblico, permeati fino al midollo di urgenza espressiva, per quanto il lavoro di Drake segni la fine di una carriera e quello di Smith ne annunci l’inizio. 

Nonostante la bassa qualità della registrazione, è proprio il sound domestico dell'album il trucco per dare alle nove canzoni in scaletta la giusta intensità. La chitarra suona diretta, senza filtri, lasciando spazio all'imperfezione, alle strisciate delle dita sulle corde, eppure lo stile è perfetto: una tecnica di derivazione folk, con il pollice che fa da accompagnamento sulle corde basse e le dita che ricamano con eleganza modulando gli accordi spesso in arpeggio. L’arrangiamento di “Condor Ave.” (originariamente scritta da Garrick Duckler, che negli anni ‘80 suonava con Smith negli Stranger Than Fiction e nei Murder of Crows) ha dell’incredibile, con quelle continue variazioni ritmiche sulle corde ed un riuscitissimo afflato melodico, mentre la storia dipinge un’intensa e contorta scena di abbandono. 

Così le tracce successive (le tre “No Name”), approfondiscono tanto la vena autoriale di Smith (estremamente malinconico e fatalista: “killing time won’t stop this crying”, scrive in “No Name #2”), quanto la sua raffinata dote compositiva (le chitarre di “No Name #1”, composta dalla Gonson, ricordano Simon & Garfunkel, quelle di “No Name #3” potrebbero anche fare a meno della voce tanta è la loro espressività). Lo spirito delle canzoni dell’album è sospeso tra un disincanto allucinato (l’ostinato tremolio delle corde in “Roman Candle”: “I’m a roman candle, my head is full of flames”) ed un cupo senso di malessere (“Last Call”, che torna a prediligere un’elettricità densa e nera come la pece). 

Dopo Roman Candle (e la sua versione a più alta definizione dell’anno successivo) verrà altro: dischi registrati meglio, più compiuti e “ascoltabili”, forse migliori. Eppure in un ideale best of dell’artista di Portland si potrebbero trascurare giusto due o tre brani dell’esordio, che fisserà le coordinate emotive e stilistiche per gli episodi successivi. Una prima prova, questa, che ci regala un ritratto non mediato da giudizi postumi (chi avrebbe immaginato che sarebbe andata a finire così?), rendendoci un Elliott immerso nella sua atmosfera quieta, quotidiana, ancora non proiettata lungo un percorso così ineluttabile. Roman Candle è espressività pura, cristallizzata. Una delle migliori testimonianze di quello che Smith sapeva fare meglio: scrivere e suonare canzoni. Senza il brusio di quello che stava fuori, senza il tormento di quello che cresceva dentro.



Share:

Lo scaccia fantasmi

  
racconto matteo castello fantasmi case
 I nomi degli africani sono il vero problema. In fondo per gli altri siamo prima di tutto una faccia e un nome. E questi come arrivano? Arrivano con la faccia nera e dei nomi impronunciabili. Pregiudizi, barriere culturali, ostacoli ideologici, linguistici, per non parlare della pulsione xenofoba che alberga nemmeno troppo sopita in ognuno di noi: tutto questo è molto meno rilevante di quanto si pensi. Prima di ogni altra cosa c’è una faccia nera e un nome strano. Ad esempio Sissouko. Oppure Djallo, o Oghenero, Babukar, Danjuma, Ghiamfy. Niente di insormontabile, dirà qualcuno. Quel qualcuno forse non si è mai chiesto perché, nonostante sembri tutto così facile, si continui a sbattere la faccia contro i soliti ostacoli. Sicché la pretesa di poter arrivare a gestire con naturalezza quell’insieme esotico di vocali e consonanti suona come una sfida al buonsenso. 

 Diamo un nome alle cose per renderle familiari. Il nominativo è la vera chiave per entrare in quella rete consorziale che ci garantisce un volto, un ruolo. E non è carino vedere ingarbugliata la nostra mappa di riferimenti con suoni che vi si impigliano dentro, evocando qualcos’altro, costringendo la mente e la lingua ad allacciare nuove sospette articolazioni. Davvero pensiamo che potrà essere mai considerato un fatto normale chiamarsi Hauhouot ? La gente non tollera le novità, e così nel migliore dei casi affibbia soprannomi semplificati per restituire una sembianza di riconoscibilità a universi alieni. Per riconquistare il controllo dell’ignoto. Abu, Ibra, Ime, Oghe, Lami, Ghia. Sigle, dittonghi, brandelli ciancicati capaci di restare in testa come rassicuranti e innocue onomatopee. La persona portatrice del nome così storpiato, dal canto suo, paga più che volentieri lo scotto, nella speranza di eliminare le distanze che lo separano dal tanto agognato universo di riferimenti altrui, illudendosi di essere così incluso magicamente in una comunità che, però, gli rimane ostile. Perché in verità un nome è un nome: un groviglio di parole. O forse no? Sbagliano tutti: chi si illude che un nome faccia tanta differenza e chi è convinto del suo non essere altro che un inutile ammasso di suoni. In entrambi i casi è il feticcio ad essere preso in considerazione, mai tutto il mondo retrostante. 

 Questo rimestarsi di pensieri accade ora mentre imbocco la stradina che sale verso casa. “Tu sei troppo serio, rimugini troppo sulle cose e finisce che te le perdi proprio mentre succedono davanti a te”, dice la vocina del mio fantasma. Come darle torto? Eppure in testa tutto funziona come dovrebbe, molto meglio che nella realtà, e lo svolgimento dei vari passaggi sembra srotolarsi come in una messa in scena: limpido, compiuto, stilizzato a dovere. Con un inizio e una fine. Niente rimane in sospeso, magari incastrato da qualche parte e lasciato lì a marcire e a infestare tutto il resto. Ogni volta che mi perdo nelle mie elucubrazioni mi stupisco di quanto io sia capace di illudermi, ogni volta, della loro ingannevole solidità: si snodano agili e articolate, per poi perdere consistenza al primo tentativo di esprimerle a parole. Cosa accade di tanto disastroso e disfunzionale durante i processi di traduzione pensiero --> voce? Non me lo so spiegare. Molti della mia età, quando si accorgono di non essere capaci di spiegarsi qualcosa, smettono semplicemente di farsi domande. 

 Le case intanto si allineano l’una dopo l’altra frastagliando i contorni della linea retta che mi porta in alto, alternando profili di facciate cangianti, in una piacevole sequenza ritmica di mura sfondate dal tempo e altre intonse nella loro ruvidità contadina, mentre altre ancora sembrano essere state calate dall’alto tutte intere, dalla mattina alla sera, frutto di qualche visione al passo con le mode del momento eppure così fuori luogo. Le case brutte - ne rimangono alcune preservate dalle visioni degli architetti - reclamano comunque il loro diritto a poggiare le fondamenta in questa stratificata collina borghese. Ce n’è una in particolare che ho sempre trovato bellissima e inquietante. Sembra un castello, con i diversi piani affastellati l’uno sull’altro fino ad arrivare alla torre a pianta quadrata che, eretta e fiera, domina la città. Il muro è tinto di un rosso granata, lo è sempre stato dacché mi ricordi. Le finestre sono impenetrabili e lasciano soltanto immaginare la vastità degli spazi interni. Li immagino labirintici e polverosi, nonostante la struttura sia stata ristrutturata di recente. Il castello si erge altezzoso tra i villini-parvenus di ultima generazione di quest’ultima parte di collina: strutture funzionali e squadrate dove domina il vetro e il metallo. 

 Le case ci assomigliano? Gli abitanti del castello non si abbandonano forse alla noia serale davanti alla televisione? Non riscaldano cibi artificiali al microonde dopo essersi abbandonati a un rapporto orale svelto, oppure a una sega di fronte allo schermo di uno smartphone? O forse no? Le case non ci assomigliano, le case sono la proiezione esterna di come vorremmo essere. Eppure là dentro tutti sono uguali, fanno le stesse cose, rimestano nello stesso fango esistenziale. 

 Mi passa accanto un cane piccolo, bianco, portato al laccio da un padrone sulla settantina, dal passo più lento di quanto non vorrebbe il quadrupede sovreccitato che tira e ansima. Che paura mi fanno gli anziani. 

 D’improvviso, scacciando in un colpo solo i densi pensieri in cui ero invischiato, irrompe un sogno fatto l’altra sera, non so perché. Uscivo da un’abitazione, probabilmente dopo una serata passata tra amici. Le finestre spargevano i loro fiochi bagliori iridescenti verso l’esterno. Fuori era buio pesto. Mi avviavo verso la macchina parcheggiata al lato della stradina a pochi passi dal selciato che contornava la casa, incastonata in una notte sorda e sconfinata. Una casa contadina simile ad alcune di quelle che mi sto lasciando alle spalle proprio ora, mentre procedo in salita immerso nel mio nuovo pensiero. Sono dentro il sogno e lo rivivo, non faccio caso a una macchina che mi sorpassa gorgogliando, sfiorandomi. L’erba ai lati della stradina è alta e si piega piano al soffio della brezza notturna. Sono calmo ma presto mi accorgo di qualcosa. Una presenza mi osserva. Da dove? Non lo so, ma percepisco distintamente di essere sotto tiro. Finché non le vedo. Ci sono delle code che si confondono tra gli steli d’erba, manifestando però la loro coriacea consistenza carnosa, risolta in un ciuffo terminale che oscilla lento nell’oscurità. Non vedo i leoni ma ora so che sono lì, quatti quatti tra la vegetazione, sento i loro sguardi concentrati e so che sono pronti a scattare. Sono braccato ed ecco sopraggiungere un’ansia primordiale, la stessa che abbiamo covato nei millenni e che ci tormenta ancora. L’uomo predatore si porta ancora appresso il terrore primigenio della preda. Mi affretto verso la macchina ed è come se percepissi il fiato dei felini sul collo. La chiave, la maledetta chiave non si trova. Rimesto nelle tasche ma non c’è niente da fare, e più passano i secondi più ho l’assoluta certezza che le bestie mi prenderanno. È solo questione di secondi, poi sarà solo carne lacera e dolore. Le chiavi saltano fuori ma è troppo tardi, ne sono consapevole. Il sogno finisce e mi sveglio sudato. Quella sensazione di allerta mi sommerge ancora. 

 Siamo i riflessi dei nostri sogni. Non c’è niente da interpretare, bisogna solo sentire, senza mediazioni e razionalizzazioni. O forse no? 

 - Sei troppo cerebrale, lo sei sempre stato, rilassati. È solo un sogno. 
- E tu sei sempre stata troppo diretta. Però è per questo che mi piaci, perché noi due ci compensiamo. 
- Quindi non ti piaccio per quello che sono, ma per l’effetto che ho su di te? 
- Ecco, qui sei tu quella cerebrale, non ti pare? 
- Sei il mio cervellino preferito. 

 Le voci si perdono nel sibilare del traffico sulla statale che taglia in due la collina, rompendo l’equilibrio verticale della salita e dissipando anche le ultime tracce del fantasma appena rievocato. Buffo come la sostanza di quello che ci tiene in vita durante il sonno sia talmente effimera da disperdersi come fumo. Siamo così poco? Le chiavi di casa si infilano nella toppa mentre rivoli di sudore colano lungo la schiena. Vorrei entrare e ricevere un saluto. 

 - Ciao, bentornato! Vieni qui, dammi un bacio. 

 Dentro è fresco e buio. Mi chiudo la porta alle spalle e rimango nell’ombra, respirando piano e sentendo un fremito che mi percorre come se uno spettro stesse giocando con le mie fibre. La giornata è finita, lascio le scarpe sulle scale dell’ingresso e mi trascino verso il divano. È come se la respirasse ancora, questa casa. 

 - Sono tornato, dico sussurrando, vittima del mio stesso inganno. 

 Mi irrigidisco. Anche oggi farò quello che mi capita di fare da troppo tempo, ogni volta che varco quest’uscio. Manderò via il suo spettro, come uno scaccia fantasmi, impedendomi di pronunciare ad alta voce le frasi che vorrei dire, che vorrei dirle. È così difficile ondeggiare tra realtà e fantasia, tra vividi desideri e dure prese di coscienza. È solo un nome, mi dico. Eppure non riesco a farlo uscire dalla testa. Magari fosse uno di quegli strani fonemi stranieri, forse sarebbe tutto più facile, saprei mettere dei confini netti tra me e ... Eppure no, quella che ho di fronte, seppure nella sua consistenza incorporea, è il mio mondo, il mio universo di riferimenti, la mia mappa concettuale. E mi bracca, mi sta col fiato sul collo facendomi sentire la preda dei suoi capricci, la vittima dei suoi agguati improvvisi. Tiro un profondo respiro. 

 - Anche oggi ti devo mandare via, cara. 

 Accendo le luci. La casa appare, lei scompare. Ci sono solo io, un interno ammobiliato e tutto il resto fuori. Chissà se la mia casa mi assomiglia, vista da un osservatore esterno. Ma va, anche lei, come le case di prima, non è che un involucro vuoto, impersonale, a disposizione della fantasia indisciplinata dei passanti. 
O forse no?
Share:

Ora potrei

Fuori sembra che il sole si stia mangiando tutto. 
“Non mi era mai capitato.” 
“Cosa non ti era mai capitato?” 
“Di non riuscire a farti… Di non essere capace di. Insomma, hai capito.” 
La luce che divora la stanza è appena smorzata dalle tende leggere, immobili nell'aria pesante. Non c’è un filo di vento, eppure un brivido mi percorre il corpo, scorrendo dalle unghie dei piedi al cuoio capelluto. 
“Non sei tu, sono io che sono stanco. E ho altro per la testa” dico bofonchiando, consapevole che certe situazioni richiederebbero un rigido protocollo, non questa stentata improvvisazione. 
“E a cosa pensi?” 
Magari fosse così facile. Ho la sensazione di non avere niente in testa. Mi accendo una sigaretta nella speranza che l’attesa e il fumo smorzino l’imbarazzo che impregna l’aria del salotto. 
“A volte non è facile sapere a cosa si sta pensando. Ho la testa sia piena che vuota. Come se i pensieri, sai, come se tutto quello che penso faccia da tappo”. Dico proprio così, suona piuttosto bene. 
“Ho sbagliato qualcosa?” 
Non ha attecchito. 
“Ma no, che dici?” 
“Non ti piaccio più?” 
È convinta che sia colpa sua. 
“Sei bellissima, lo sai”. 
Non se la beve. Vorrei stare zitto ma tutti questi vuoti sono insopportabili. 
“Guarda che non è colpa tua. Succede. Capita”. 
“E quand'è che capita?!” 
Butta fuori la voce scossa da un improvviso fremito, di botto, come se si fosse rotto l’incantesimo che la teneva invischiata nel torpore di poco prima. Non mi aspettavo tutta questa insistenza. 
“Te l’ho detto, capita quando si ha la testa piena”. 
“Ma cos'hai nella testa?”. Ora è arrabbiata. “Guarda che non sono mica stupida, non dirmi che non ti è venuto duro per caso. Sei un cazzo di fantasma, è chiaro che... che non mi ami più”. 
Eccolo il famigerato punto della questione. 
‘La verità è che non mi piaceva il tuo odore’. Vorrei dirglielo ma sarebbe brutale, oltre che ingiusto: anche io non sono un fiorellino dopo questa giornata lunga e caldissima. Come le è venuto in mente di farlo così all'improvviso, con tutta questa fretta? E poi perché proprio su questo divano che non mi appartiene? 
La guardo: ha messo su il broncio da bambina che compare sempre quando litighiamo. D’un tratto la sua nudità mi appare come una minaccia, come una corazza frapposta tra le nostre intimità separate. Eppure è lei a sentirsi esposta, e infatti si rimette la maglietta senza badare a quale sia il verso giusto. Si rimette solo quella. Mi copro anche io, rialzando i pantaloni rimasti attorcigliati alle caviglie, e tutto pare così tragico e ridicolo che vorrei fare qualcosa - qualsiasi cosa - per smorzare la tensione. 
Invece mi limito a guardare intorno con occhi stanchi mentre lei annaspa di fronte a me, lo sguardo fisso su un punto vuoto oltre il vaso di fiori sul tavolo del soggiorno. Le gambe incrociate lasciano trasparire un ciuffo scuro. Mi scappa un sorrisetto nervoso. 
“Non c’è niente da ridere, sei proprio... cattivo”. 
D’improvviso sento che ora potrei, ma è tardi. Dobbiamo uscire. 

Il lampione davanti a casa proietta riflessi fosforescenti sulle cromature dell’auto. Non ci parliamo. Le faccio segno, sfiorandola, di aspettare che passi una macchina prima di attraversare. Fa uno sbuffo, si sporge oltre il marciapiede e l'automobilista rallenta appena, proseguendo la sua corsa. Lei tira dritto come niente fosse verso il posto del passeggero. È avvolta in un lungo vestito a fiori che lascia la pelle della schiena scoperta, aggrappandosi ai fianchi per poi scendere in caduta libera fino a un paio di sandali color sabbia. I capelli vaporosi ondeggiano sulle spalle, ingoiando la luce nel loro nero profondo. È bella, elegante, sensuale (mentre lo penso deglutisco: ora potrei). L’eleganza non è mai sembrata richiederle troppi sforzi, le viene naturale. Io invece sono un disastro. Mi sbottono il collo della camicia, fa ancora troppo caldo. 

La macchina scorre nel traffico rado della sera. L’ambiente ovattato che si crea all'interno dell’abitacolo mi rilassa, l’aria condizionata diffonde un sentore di plastica nuova e pino silvestre. Lei è muta, il viso nascosto dai capelli, lo sguardo rivolto fuori dal finestrino in ostentata immobilità. 
Un gatto attraversa la carreggiata all'improvviso, inchiodo e sbando, mentre la macchina dietro scarta sulla sinistra superandomi per non centrarmi in pieno, il tutto in un tripudio di clacson. 
“Cazzo!” 
Per un attimo è solo silenzio. 
“È sempre così, sbucano fuori all'improvviso e non ci puoi fare niente”. 
Mi stupisce riascoltare la sua voce. 
“Almeno non l’ho messo sotto”. 
“Sì, ma vediamo di arrivarci interi al Bristol”. 
“Sai che voglia…”. 
“Oggi con le voglie non ci vai forte”. 
Mi pare l’abbia detto con un accenno di sarcasmo. Mi abbandono anche io ad uno sbuffo. “Colpito e affondato”. Le accarezzo la mano, me lo lascia fare. 

Il Bristol è come al solito colmo. I camerieri fluttuano come ectoplasmi tra le luci soffuse, aggirandosi per i tavoli e lanciando cenni di intesa in risposta ad ogni sguardo bisognoso. Qualche strillo eccitato si solleva dalle portate e dalle bevande colorate, contrappuntando il vociare indistinto che ristagna nello spazio e il levare meccanico di un sottofondo musicale lounge. In posti come questo la socialità si concentra e articola intorno alle scelte del drink, alle tonalità dei colori portate alle labbra. Laura e Marco sono già lì, l’uno di fronte all'altra, cellulari alla mano. Soli. Sembrano ondeggiare come canne in una palude, irrorati dai toni bluastri e liquidi degli schermi accesi. È Laura a vederci per prima. Alza un braccio sfoggiando un sorrisetto di sincero sconcerto, come se non si aspettasse di trovarci insieme. “Eccovi finalmente, pensavamo foste scappati via!”. 

Appena prendo posto Laura mi bacia con una certa ostentazione sulla bocca. Nello scostare le labbra dalle mie la sento indugiare, come se stesse cercando di trattenere qualcosa dai miei umori, dei miei segreti. Il suo profumo dolciastro si mescola all'alcool. Ha già bevuto. 
“Grazie di essere andato a prenderla tu”, mi dice Marco. Poi si rivolge a lei, ancora imbronciata ma per motivi nuovi. “Scusa ancora se non sono passato io, ma non saremmo arrivati più questa sera, il traffico è una pazzia”. Tutto è superfluo ma serve per rimettere le cose al loro posto. Non è certo la prima volta che capita. 
“Non ti preoccupare, meglio così, casa nostra è sulla strada”. Mi guarda. “Però il tuo amico stava per investire un gatto”, aggiunge mentre cerca una posizione comoda nella poltroncina di fronte. Marco le stringe un avambraccio per riaffermare un possesso sospeso. “L’importante è che non l’abbiate schiacciato”, fa lui già rivolto verso gli altri tavoli, distratto. 
“Sì, ho detto la stessa cosa...”, risponde lei continuando a fissarmi. 
Passiamo i seguenti minuti a ristabilire le reciproche appartenenze, io col braccio adagiato sullo schienale di Laura, Marco con le dita che accarezzano il polso di lei. Lei, che però si ritrae con una scusa, per capire cosa ordinare. La guardo, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. “Tu cosa bevi?”, mi chiede Laura, e in quella domanda ce ne sono altre mille. Scopi con la nostra amica comune? Te lo ha succhiato bene prima di venire qui? Che senso ha stare insieme dopo tanti anni se non ti interessa che io sia qui con Marco ad aspettarti, mentre tutti pensano che siamo un gruppo di scambisti? C’è nell'aria una tensione collettiva che sembra fare il verso alle tante frustrazioni private. Il tutto si infiltra come una perdita dietro un muro, sgocciolando tra i respiri e i silenzi e il casino gonfio tutt'intorno. Si respira un’elettricità strana quando la rabbia repressa, indicibile, si manifesta in questi piccoli sfiati di nervosismo. 

La tensione e il fastidio di Laura non mi turbano più da anni. Ora penso con un certo grado di convinzione che potrei far saltare tutto, magari allungando esplicitamente un piede verso la caviglia scoperta di lei che sporge dal lato del tavolino e godermi gli effetti imprevisti di quel gesto. Sarebbe sicuramente un buon diversivo. “Per me è uguale”, rispondo, “tu bevi ancora qualcosa?”. Laura si irrigidisce. “Be’, sai, è da quaranta minuti che vi aspettiamo”. Devo essere suonato provocatorio. “Non essere permalosa, era solo una domanda. Magari mi sai consigliare qualcosa, avendo già fatto esperienza”. 
Lei mi guarda, sa di essere al centro del nostro screzio. Ricambio lo sguardo e sorrido. Laura percepisce tutto, mentre Marco si ostina a non prendere parte alla situazione, continuando ad estraniarsi tra i tavoli, le luci, il movimento diffuso del locale, le cameriere solerti e imbronciate. “Tu almeno hai le idee chiare?”, chiedo a Marco. 
Lui si gira ed è come se d’un tratto riacquistasse la sua corporeità, incarnandosi su quella poltroncina scomoda e rispondendomi secco “prendo quello che prende Marta”. 
Lei, Marta, ora è definitivamente al centro dell’attenzione. Laura la accusa di essersi scopata suo marito, Marco le riversa addosso la responsabilità di dover far funzionare una serata inutile tra le tante, io la guardo sorridendo, tenendole gli occhi incollati addosso in cerca di una risposta, di un oracolo. Lei invece abbassa i suoi, che luccicano acquosi nella penombra stagnante del locale. Non ne può più. Anche io ne ho abbastanza. 

Mi alzo. Mi guardano. Prendo la mano di Marta: “mi concedi un ballo?”. Laura diventa viola, Marco mi guarda incredulo, pare divertito ma percepisco un primo fremito di avversione. “Ma che dici? Non sai ballare, tu”. Faccio forza e lei si lascia sollevare, guardando i due al tavolo come per trovare in loro una giustificazione, una possibile strada da percorrere con il loro muto consenso. La trascino via e la porto in fondo al locale, dove poche coppie - gente più matura di noi - stanno muovendosi al ritmo di musica. La stringo cingendole i fianchi. Voglio farle sentire il mio umore. “Ora potrei”, le sussurro all'orecchio. “Ma che dici?”, fa lei guardando verso il nostro tavolino dissimulando tutto il suo imbarazzo. Glielo sento scorrere sotto pelle, l’imbarazzo. “Dico che ora ti prenderei qui, davanti a tutti”. Lo farei davvero se solo me lo chiedesse. Basterebbe anche un leggero aumento della pressione con cui si appoggia incerta alle mie spalle. “Stai facendo il coglione, finiscila. Mi metti in imbarazzo così”. Continua a guardare al tavolo sorridendo, come se stessimo scherzando di qualche battuta come due vecchi amici. La stringo più forte e le sussurro ancora all'orecchio: “andiamo da qualche parte, voglio te soltanto”. Lei si scosta di scatto, lasciandomi solo, eccitato e impotente, tra le altre coppie in movimento. Marta è ferma, immobile, mi guarda. Esprime così tante cose assieme che pare congelata, sembra una statua di sale. Con la coda dell’occhio scorgo Laura mentre si alza ed esce. Marco si decide a smuovere quella sua posa pigra ed ecco che inizia a venirci lentamente incontro, senza però dar l’impressione di avere un vero motivo per portare un passo davanti all'altro. Marta mi guarda ancora, ma ora lo fa con intensità. Quell'intensità mi gela il sangue nelle vene. Rimango sbigottito di fronte al suo muto giudizio, al suo disprezzo, alla sua condanna senza appello, alla sua decisione che non necessita di parole. Ho solo un unico pensiero sconnesso e ossessivo in testa, anche lui raggelato, incastrato come un loop su un nastro magnetico danneggiato. Più gira nella testa più si fa labile e impreciso. “Ora potrei... Ora potr i... Or p tr i... Or p t i”. 
Poi perdo anche quell'ultimo rimasuglio e lei non mi guarda più. 

“È tardi, ora. Troppo tardi. Lo è sempre stato in fondo”, dice. E fa quello che avrei dovuto fare io molto prima. Marta esce dal Bristol scartando suo marito che, sorpreso a metà strada, si irrigidisce senza più sapere come dare un seguito alla sua ormai inutile avanzata. Non sapendo se continuare o arretrare si blocca tra i tavolini. Anche io sono fermo. Lo guardo. Nei suoi occhi galleggianti leggo il riflesso speculare di una consapevolezza che inizia a farsi strada, materializzandosi nei miasmi dei commenti e dei risolini tutto intorno: da qui non si torna più indietro. Nella manciata di secondi in cui tutto questo accade penso che a volte la cosa migliore è prendersi del tempo. Mi lascio cadere su uno sgabello a poca distanza dal bancone del bar. Chiedo finalmente un drink, uno qualsiasi. Poi lo guardo ancora, Marco. Mi sembra che stia dissolvendosi, sfumando come uno spettro. 
Sorrido. Ora sì, ora potrei.
Share: