Non intendo pretendere che voi mi
capiate, o che mi compatiate. Mi giudicherete, questo è certo. Ma
non pensate che visto l'ineluttabile chiacchiericcio che si verrà a
riversare sul mio conto io voglia prender parte al tribunale postumo
tentando di dirottare i vostri pareri a mio favore. “Era un uomo
buono, un uomo tranquillo”, diranno. “Raptus di follia”, questo
di certo, e sarà la stronzata più clamorosa. Ora sono solo
sconvolto, certe cose non si fanno con leggerezza, sapete.
Ognuno di noi si trova prima o poi a dover fare i conti con la propria vita, a fare un bilancio. Tutti noi abbiamo bisogno di legare le nostre scelte con un filo rosso che imprima senso distruggendo l'idea di un caso che esautora il ruolo salvifico della nostra volontà. Tutti noi vogliamo fare della nostra biografia un racconto organico, un percorso dove l'Io è protagonista consapevole, con i suoi errori e le sue fortune. Non accetteremmo mai, né le persone con le quali abbiamo a che fare, di considerarci vergini ad ogni risveglio. Così io non sono stato un altro nel compiere quei gesti che mi portano ora a dover interrompere un'esistenza divenuta intollerabilmente crudele, che non pensavo di meritare. Sono sempre stato un uomo tutto d'un pezzo. Ho solamente, Dio mi perdoni se uso questa parola di fronte all'abisso che ho aperto, reagito ad un crollo inesorabile che mi ha costretto ad arrivare fin qui. Contro la mia volontà sono state solamente le premesse, non certo le conseguenze, le quali portano tristemente ma indelebilmente la mia firma.
Il fatto è che quando uno crede di
aver trovato la felicità, vedersi fottere tutto quanto diventa
l'inferno, arrovella le viscere e fa esplodere il cuore. Niente di
umanamente sopportabile: o si impazzisce o ci si carica sulla schiena
tutte le conseguenze di una lucidità annichilente.
Io avevo in pugno la mia vita da
diversi anni, finalmente. Non ho mai sgarrato fino ai gesti insani
che mi appresto a confessare. Sono sempre stato un bravo ragazzo,
chiedetelo a chiunque. Niente nemici, niente condanne per ubriachezza
molesta, niente atti osceni in luogo pubblico, niente furti o denunce
per risse. O per aggressione a pubblico ufficiale. O per occupazione
abusiva. Niente di niente, pulito. Ho sofferto ma mai fino a credermi
spacciato. Ora è come se il mio nucleo vitale fosse finito dentro il
cesso e qualcuno avesse tirato lo sciacquone per sempre. Una metafora
che rispecchia bene il mio dramma, se non fosse che adesso sono anche
io costretto a farmi risucchiare nel gorgo putrido che metterà fine
a questa tortura che mi torce l'anima e mi rivolta lo stomaco.
Lisa era il perno attorno al quale
giravo, il mio centro di gravità, la mia anima gemella, il mio
senso. Mi faccio schifo a scrivere certe banalità da romanzo rosa.
Da bambino non cagavo di striscio il senso di tragedia delle storie
di perdita, gli struggimenti degli amanti separati, le lacrime
sdolcinate dei cuori feriti. Cazzate belle e buone. Però poi si
capisce, tutti capiscono, e si scopre che la verità sta proprio
nella limpidezza dei luoghi comuni. Io mi sono innamorato di diverse
donne nella mia vita, ma mai di nessuna come di Lisa: ogni mia
prospettiva di vita era automaticamente incorporata in una dimensione
della quale lei era parte integrante, qualificante, migliorativa. Non
esisteva più il tempo, o almeno non quello scandito dai ritmi
ripetitivi della quotidianità. C'era solo un grande campo di
desiderio dove si collocavano a piacimento attimi più o meno lunghi
di condivisione. Lei era il mio rifugio ma anche la creatura che
dovevo proteggere, la mia fonte di ispirazione e nello stesso tempo
la foce di ogni mio gesto o pensiero. Non pensate però che fosse un
rapporto morboso, no. Non siamo mai stati una di quelle coppiette
vomitevoli che si vedono nei locali pubblici, quelle tutte effusioni
e smancerie. Il nostro era un rapporto adulto, di un'intensità fatta
di complicità troppo intime per risolversi in gesti superficiali.
Non che questi non ci fossero. La nostra casa era un oceano dove
affondare, un prato dove stenderci, dove fare l'amore come conigli
per notti intere, o anche solo per pochi minuti, ma con una voracità
da mozzare il fiato. La morte non esisteva più, i giorni erano fusi
in un solo nocciolo di fiato accaldato e umori dolci. O, quando
buttava male, di placido e sereno scorrere. Pochi litigi, pochi
scazzi. Fino a che qualcosa è cambiato.
C'erano già stati momenti di crisi, se
possiamo chiamarli così, ma si erano sempre riassorbiti
naturalmente. Tutti hanno dei momenti no, giusto? Questa volta però
stava durando troppo. E io iniziavo ad essere in astinenza di quella
complicità che mi elevava al di sopra di tutto quanto. Lisa era
schiva, i suoi riguardi nei miei confronti sembravano essere solo di
circostanza, oppure erano distratti o peggio svogliati. Parlava poco,
sembrava immersa nei suoi pensieri e in una maledetta fretta che la
faceva rimbalzare di qua e di là senza pace. Anche a letto, mentre
facevamo -sempre meno di frequente- l'amore. Il lavoro era la scusa
principale, spesso tornava tardi la sera, si limitava a fare la
doccia e mettersi a letto con un'aria sfatta. Ditemi voi se non vi
avrebbe fatto sentire di merda una situazione così. A me si, questo
è certo. Mi sentivo solo come non mai, dopo tanto tempo ero stato
rigettato in una schifosa quotidianità qualunque. Una routine
ammuffita che si è ripetuta a lungo, giorno dopo giorno, senza quel
balsamo che sapeva farmi perdere la testa estraniandomi da tutto.
Dopo due mesi di questo schifo ero in uno stato di paranoia e
desolazione che veniva accolto da Lisa con un senso di colpa che mi
mandava su tutte le furie. Non c'era una motivazione vera a quella
situazione, niente a cui aggrapparsi. Solo l'idea che era meglio una
Lisa distaccata, che era sufficiente strapparle un sorriso o uno
sguardo dolce ogni tanto, rispetto a non averla per niente. Le
briciole sono state la mia ragione di vita in questi mesi, fino a che
non ho deciso che dovevo fare chiarezza. Che cazzo stava succedendo,
come ho fatto a non capire?
Lui era la risposta che non volevo. Dio
quanto avrei desiderato che fosse tutto un equivoco. Oppure
archiviare la cosa con un “può capitare, ora torniamocene a casa”.
Torniamocene a casa, continuiamo ad essere noi e solo noi. Per
favore. Lui però era qualcosa di più di uno sbaglio. Lo capivo da
come si abbracciavano, da come lei gli sfiorava le mani con gesti
affettuosi che finora credevo riservati a me. Sono stato un illuso.
Ma la scena di lui che le bacia il collo, poi soffia leggermente in
un orecchio e lei si scansa infastidita e poi ride... Ride. Cosa che
non faceva da tempo con me. Quella scena è stata la generatrice di
tutto quello che è venuto dopo. Quella scena ce l'ho ancora adesso
nelle viscere e continuo a volerla dimenticare, e più ci provo più
riaffiora prepotente. L'ho seguita, Lisa. Pedinata, facendo
attenzione che non si accorgesse della mia presenza. Così ho visto
tutto quanto. Davanti a quel locale in cui non eravamo mai stati ora
c'erano loro due. Lui era piuttosto bello credo, non me intendo di
queste cose, però di certo era alto e aveva l'aria di essere un tipo
tutto d'un pezzo. Lei invece sì era bellissima, e avrei voluto
correre e stringerla e portargliela via. Ma era lui che la stava
rubando a me. Da quella sera ho cominciato a frequentare quel locale
diverse volte, naturalmente quando Lisa stava a casa, nel tentativo
di incrociare lui solo. Per capire le sue abitudini, sapete. Seppur
non ancora definito, il mio piano prendeva forma: volevo sapere come
si spostava, dove andava, cosa beveva, chi vedeva. Ero divorato dalla
paranoia. La fortuna ha voluto che fosse un abitué del locale in
questione -una sorta di jazz club da gente altolocata, più o meno- e
che ci andasse spesso da solo. O meglio, da solo ci arrivava ma non
ci usciva mai, se capite quel che intendo. Il fatto che Lisa avesse
perduto la testa per uno che andava dietro alle donne con tanta
leggerezza mi faceva impazzire. Insieme alla persona che pensavo di
conoscere meglio al mondo vacillava il mio stesso amor proprio. Mi
sentivo svuotato, sconfitto, violato e annullato. Non c'era via
d'uscita a quella situazione. E il peggio è arrivato quando Lisa è
diventata fredda. Nei miei confronti, dico. Anche il suo senso di
colpa che tanto mi mortificava era sparito: rimaneva solo una scorza
di gesti automatici, un ricordo pallido della Lisa che mi avvolgeva e
che mi dava la vita tutti i giorni. Allora ho realizzato cosa dovevo
fare. Dovevo annullare la forza che la spingeva lontano da me, che
l'aveva cambiata tanto da renderla un'estranea. Da chi l'aveva fatto
senza riguardo, trattandola come una cosa da poco, come un passatempo
qualunque. Chissà quanti altri come me erano stati devastati da
quell'uomo che odiavo più di ogni altra cosa. Che odio tuttora, con
tutto il mio corpo, e sono sicuro che un poco mi capite.
Così una sera l'ho seguito. Stesso
locale, stessi orari. Tenendomi a distanza ho percorso la città
guidando dietro la sua macchina. Una bella macchina, più della mia.
Era una sera calda, pacifica, sottomessa allo srotolarsi dei fatti.
Non sapevo esattamente cosa avrei fatto, se gli avrei parlato, se gli
avrei spaccato la faccia o cosa. Sapevo solo che volevo scoprire dove
si rintanava, che espressione aveva quando scendeva dalla macchina,
quali erano le sue movenze nel suo ambiente domestico. Abitava poco
fuori città, alla fine di un lungo dedalo di stradine, sempre più
strette man mano che si avvicinavano ad un complesso di villette a
schiera per yuppies rampanti, sapete, quelle con le verande, le siepi
ben tagliate e tutto. Il fatto che lo stessi seguendo era ormai
evidente. Quando ha imboccato la breve rampa dei garage interrati ho
fermato la macchina e ho aspettato un attimo. Non potevo tornare
indietro, ero davanti a casa sua e lui mi aveva certamente notato.
Così ho spento i fari e sono sceso dalla macchina. Da quel punto in
poi tutto è stato così rapido e improvvisato che faccio fatica a
ricostruire precisamente gli eventi. Mi sono diretto verso il garage
con passo veloce. Non volevo che lui prendesse delle scale interne e
si rifugiasse nel suo appartamento. Invece non c'era nessun ingresso
interno, e mentre risaliva la rampa a piedi mi ha visto e si è
fermato. Era leggermente intimorito, o almeno incerto sulla natura
della mia presenza. Potevo essere un ladro, o un malintenzionato.
Cosa, quest'ultima, che ormai mi si addiceva piuttosto bene.
Continuavo a ripetermi che quel bastardo si era preso un bel pezzo
della mia vita, che mi aveva portato via l'unica cosa bella che
avevo. Pensieri interrotti dalla sua voce incerta, raggrumata attorno
ad un “ 'sera...”, al quale il mio “salve” deve essere
risultato troppo vago per lui che forse si aspettava una domanda, o
una richiesta, o un “zitto e dammi il portafoglio”. A lui che
voleva capire chi fossi e che cosa ci facessi lì davanti al suo
garage dopo averlo pedinato per tutto quel tempo. “Ti mando i
saluti di Lisa”, ho detto. Al che deve aver capito, perché la sua
espressione è mutata dal leggero timore ad un'arroganza che non ha
fatto che consolidare la mia voglia di colpirlo. “Lisa? Si, ho
presente -mi ha detto con un sorrisetto- mi sfugge solo chi sei tu”.
Quella fottuta arroganza, stava giocando con me, non lo potevo
sopportare. D'un tratto ho sentito una vampata di odio e con voce
tremante ho detto “sono quello a cui l'hai portata via, schifoso
pezzo di merda”. A questo punto lui si è avvicinato e mi ha urtato
tirando dritto. “Vai a casa che è tardi, forza”. Approfittando
di quell'incauto voltarmi le spalle gli sono saltato addosso con
tutta la rabbia che avevo in corpo, lui è caduto soffocando un “ma
che cazz..”, deve essersi inciampato in qualcosa perché non avrei
mai pensato di riuscire a buttare a terra quell'energumeno. Allora ho
approfittato della situazione: senza lasciargli il tempo di rialzarsi
l'ho colpito in bocca con un calcio. E' tutto venuto naturale,
istintivo. Vi giuro che non sono mai stato un violento. “Sei un
pazzo fottuto, che cazzo vuoi da me” ha iniziato a rantolare. Un
altro calcio, questa volta sul fianco. Ero furente, nonostante tutto
lui continuava a lanciarmi commenti sprezzanti. Volevo solo farlo
smettere. Fino a che ho notato, accanto al garage, una di quelle
pompe di metallo per gonfiare le biciclette e l'ho impugnata. Era
piuttosto pesante. All'ennesimo tentativo di rialzarsi del tizio, che
stava sanguinando abbondantemente dal naso, ho sferrato un colpo
secco sulla testa con la base della pompa. Poi un altro, e un altro
ancora. Sentivo fluire la rabbia ad ogni colpo, fino a che tutto si è
fatto silenzioso e mi sono calmato. Lui stava disteso inerte sul
selciato e perdeva molto sangue dal cranio. Finalmente zitto. Non so
perché l'ho fatto, ma ho deciso di caricarlo nel bagagliaio. Pesava,
quel bastardo, ho dovuto fare un sacco di fatica e rumore per
completare l'operazione. Quando ho chiuso il bagagliaio una luce di
uno degli appartamenti si è accesa. Dovevo aver fatto troppo casino.
Allora sono risalito velocemente in macchina e sono ripartito a tutta
velocità, lasciandomi alle spalle il complesso residenziale che di
lì a poco si sarebbe sicuramente messo in allarme. Non mi sono
ovviamente diretto in città, proseguendo alla cieca per la campagna.
Mi ero quasi dimenticato di aver un corpo nel bagagliaio, e quando la
cosa mi è tornata in mente ho pensato che non sapevo veramente se
lui fosse vivo o morto. A dire il vero non mi ricordavo nemmeno di
averlo colpito tante volte e tanto forte, perché quando gli ho dato
un'occhiata, dopo aver accostato la macchina sul ciglio della strada,
lo spettacolo che mi si è presentato è stato agghiacciante.
Sembrava fosse ruzzolato giù per un dirupo battendo contro
innumerevoli spuntoni. Ma ero stato io a spaccargli la testa in quel
modo. Non respirava più, era morto stecchito. “Ho ucciso
quest'uomo”, ho realizzato. La mia preoccupazione maggiore è stata
però quella di sbarazzarmi di quella carcassa che, sebbene senza
vita, continuavo a disprezzare. Così mi sono limitato a trascinarla
nell'erba, scaricandola poco distante dalla strada (non vi sarà
difficile trovarlo). Non è mai stata mia intenzione nascondere nel
vero senso della parola il corpo. Quello che ho fatto, ripeto, l'ho
fatto assumendomene le responsabilità. Non che fosse niente di
programmato, non esattamente almeno. Ma va bene, accetto la cosa.
Accetto di essere un assassino. Ammetto tutto quanto, sono colpevole.
Risalito in macchina sono tornato a
casa, dove mi trovo tuttora. Lisa è da qualche giorno a casa di un
amica, credo, o dei suoi. L'omicidio è avvenuto ieri notte, e scrivo
questa memoria dopo una doccia calda e un breve sonno. Ribadisco che
la mia è stata una reazione ad un colpo troppo duro al quale non ho
saputo reggere. Non per giustificarmi, non mi interessa. Solo per
essere chiaro, spero che capiate cosa intendo. Lisa, che era la mia
vita, mi è stata portata via da uno schifoso che non aveva alcuna
idea di quello che eravamo noi due. Ora la mia non è più vita, è
un ammasso di carne senza spirito che non chiede altro che pace. Dite
a Lisa che non serbo rancore, che anche in questi ultimi attimi è
stata la mia guida, la mia stella. La mia vendetta è stata
perpetuata anche nei suoi confronti, contro chi l'aveva ingannata e
si era preso gioco di lei. Per il resto chiedo scusa ai conoscenti
del tizio che ho massacrato. Ma non mi sento in debito nei
suoi confronti, non mi vergogno a dirlo. La verità è che il debito
l'aveva lui con me, e ora questo è quasi saldato.
Non voglio simpatie, né strane
giustificazioni. E' tutto qui, nero su bianco. Voglio solo che non si
deformi la realtà, che non si adombri il ruolo della mia volontà.
Perché sapete, il fatto è che quando uno crede di aver trovato la
felicità, vedersi fottere tutto quanto diventa l'inferno, arrovella
le viscere e fa esplodere il cuore. Niente di umanamente
sopportabile: o si impazzisce o ci si carica sulla schiena tutte le
conseguenze di una lucidità annichilente.
Matteo Castello
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